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Io sono Mario M e questa è la mia storia: CODENAME: SILVERWOLF – Un passato da dimenticare
Io sono Mario M e questa è la mia storia: CODENAME: SILVERWOLF – Un passato da dimenticare
Io sono Mario M e questa è la mia storia: CODENAME: SILVERWOLF – Un passato da dimenticare
E-book1.295 pagine17 ore

Io sono Mario M e questa è la mia storia: CODENAME: SILVERWOLF – Un passato da dimenticare

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Info su questo ebook

L’E-Series 5in1 di CODENAME: SILVERWOLF – Un passato da dimenticare.
Una grande storia in cinque capitoli. UNA STORIA CHE NESSUNO HA MAI OSATO RACCONTARE!
La serie CODENAME: SILVERWOLF – Un passato da dimenticare, è la storia di Mario M, ex agente della più potente e segreta agenzia governativa americana. La sua vita, le sue missioni, i suoi amori travagliati, il suo percorso alla ricerca della vita che ha sempre sognato e che più volte gli è sfuggita un attimo prima di realizzarsi, a causa del suo anteporre la felicità degli altri prima della sua.
La serie racchiude più generi, che si dipanano fra tematiche sociali, azione, thriller e giallo psicologico.
È un’unica storia concepita in cinque parti, che “funzionano” anche come libri a se stanti e non segue l’ordine temporale degli eventi, inoltre, cambia anche nello stesso libro lo stile narrativo: un mix di generi che spaziano dall’attualità sociale, al romanzo giallo; da quello d’amore al thriller, con tanta avventura, emozioni, su-spense, il che rende le 1200 pagine scorrevoli e piacevoli da leggere.
Il primo libro affronta un tema sociale di grande attualità: il rapporto padre-figlio quando si scopre o si confessa una “diversità” sessuale. Roberto, ricco uomo d’affari affascinante e carismatico, da troppo tempo trascura la famiglia, e quando scopre l’omosessualità del figlio adolescente, non riesce ad accettarlo. Lo odia, lo malmena, lo caccia di casa. E questa sua intransigenza gli fa perdere famiglia e amici. Vive giorni terribili, non riesce a trovare la forza per reagire, è sul punto di cedere, quando nella sua vita irrompe Mario, che lo aiuta, con i suoi metodi, non solo ad accettare il ragazzo, ma ad amarlo più di prima e consigliarlo. Roberto però, è anche vittima di un losco personaggio che vuole rovinarlo, attentando alle sue attività e ai suoi cari. Mario si trova così a destreggiarsi fra l’intransigenza di Roberto nell’accettare Nick, la ricerca di questo misterioso personaggio e il suo cuore. Il che lo costringe non solo a rischiare la vita ma, dopo tanto tempo, a fare i conti con i suoi sentimenti.
Il secondo libro, è la continuazione in ordine temporale del primo, nel quale fra complotti, vecchi amori, la scoperta di essere padre e l’incontro con un vecchio amico... ci farà capire a cosa può portare l’odio covato per anni. Rancore, che scatenando la sua tragica forza vendicativa, innesca una serie di eventi drammatici, incurante di coinvolgere persone che con quest’odio, nulla hanno a che fare.
Con il terzo, torniamo indietro nel tempo. Alla genesi del protagonista. Scopriamo come Mario M, persona normalissima, si trovi coinvolto in una spy story di matrice americana, che lo costringe a scappare dalla sua città, dal suo paese, dai suoi cari. E, quando gli viene proposto di diventare uno special-agent dell’agenzia governativa più segreta e potente degli U.S.A., quella scarica di adrenalina che ciò gli provoca e i conseguenti casi che risolve, sembrano essere il coronamento dei suoi sogni di bambino.
Ma in un attimo i sogni possono tramutarsi in incubi! E ci si trova a dover fuggire. Di nuovo!
Nel quarto, Mario è assoluto protagonista. Una sorta di confessione introspettiva, una parte dolorosa della sua vita, dalla quale traspare il suo vero spirito: quello di persona dai sentimenti talmente puri, da mettere da parte la sua felicità per il bene degli altri. Lo narra come se sfogliassimo il suo personale e segreto diario, facendoci emozionare, piangere, trepidare, tifare per lui, per infine scoprire come ha fatto a diventare ciò che è oggi!
L’ultimo capitolo ci riporta ai giorni nostri. Lui e Roberto, trasferitisi in America vengono raggiunti da Jr per studio. Ma il ragazzo viene rapito dalla mafia newyorkese. Mario riveste quei panni che per anni ha ripudiato. E quando si trova a decidere se aiutare colui che anni prima incolpandolo della morte della figlia, lo costrinse a scappare... non ha dubbi. Scopre così c
LinguaItaliano
Data di uscita18 set 2014
ISBN9786050322262
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    Anteprima del libro

    Io sono Mario M e questa è la mia storia - Pierpaolo Maiorano

    Pierpaolo Maiorano

    4cities 4missions

    ROMANZO

    Il PierpoBooks&StreetLib Self-Publishing

    Copyright © 2015 by PIERPAOLO MAIORANO ed. 2018

    ISBN: 9786050310382

            Cartaceo ISBN: 9788893210782

    Audiobook ISBN: 9788827805688

    Copertina, foto, grafica, impaginazione, booktrailer, e-book, sono realizzati da DIY - Do It Yourself.

    Tutti i diritti (riproduzione, traduzione, trasposizione in video, fotografie) sono riservati.

    Per ogni domanda o richiesta relativa a diritti traduzioni e permessi, contattare l’autore: info@ilpierpo.it

    Sito ufficiale: https://codenamesilverwolf.ilpierpo.it

    Sito autore: https://ilpierpo.it

    Mail: info@ilpierpo.it

    My social:

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    I nomi SalernoAnno2k, Alcool1000gradi, ‘Old City’, ‘Old Street’ e ‘Trucker’s meet’ sono da considerarsi parte integrante del ©Copyright.

    I nomi presenti nel libro sono di pura fantasia.

    Pensavo di aver coronato i miei sogni di bambino, diventare un agente segreto, vivere in America. Ma a volte realizzare un sogno può trasformarsi in uno dei peggiori incubi!

    L’inizio

    Sabato 6 febbraio 1991.

    L’aereo atterrò alle 8:15 AM, in perfetto orario. Il freddo, secco e pungente, entrava nelle ossa e il mio abbigliamento non era adeguato.

    Pensai di dover andare a comprare un giubbone al più presto, ma con cosa? Ero rimasto con meno di cinquanta dollari!

    Rimasi sbalordito, spaesato, impaurito.

    Un viavai di persone che si precipitavano a contendersi i seppur numerosi taxi presenti o correvano a fare il check-in.

    Eppure ero abituato. Nell’anno passato in Asia, ero stato spesso in viaggio fra Hong Kong, Pechino e Tokio e di folle agli aeroporti ne avevo viste.

    Ma quella era l’America! Il mio sogno di bambino. Avevo sempre sognato di andare lì, di viverci. E ora c’ero!

    Rimasi quasi mezz’ora bloccato, immobile, a osservare cercando di raccapezzarmi, quando mi avvicinò un uomo distinto, sui quaranta che mi chiese:

    «Are you Mario?»

    «Sì… Yes, Mario» risposi preso alla sprovvista.

    «I’m Brandon, nice to meet you.»

    «I don’t speak English correctly, I’m sorry.»

    «I’m a friend of Harby.»

    Rimasi di stucco! Harby? Come diavolo faceva Harby a sapere del mio arrivo?

    Lo seguii…

    Durante il tragitto che va dall’aeroporto al centro città, non aprimmo bocca. Mi tornò alla mente quel giorno.

    Harby Crawbson, conoscerlo fu per me una condanna…

    Mercoledì 11 aprile 1990. Napoli, Piazza Ferrovia…

    All’improvviso sentii urlare in inglese: Thief, thief, stop it!

    Neanche il tempo di voltarmi che un ragazzino, quattordici anni credo, mi sbatté contro e cademmo.

    Capii immediatamente che l’aveva scippato e, mentre si rialzava, gli strappai di mano la ventiquattr’ore. Il ragazzino scappò via e l’uomo, appena riappropriatosi della valigetta, iniziò a stringermi la mano e ringraziarmi. Tanto insistette, che alla fine fui costretto ad accettare il suo invito a pranzo.

    Al ristorante si unirono a noi due persone e cominciarono a parlottare in inglese fra loro. Capii gran parte del discorso anche se fingevo di non comprendere, finché non pronunciarono un nome. Mi voltai di scatto con aria quasi terrorizzata. Lui, in quegli anni, era il capo dei capi. Cercai di andarmene e in fretta. Quel nome era sinonimo di guai. Harby tentò di trattenermi, mi chiese di accompagnarlo all’albergo Vesuvio. Gli consigliai di prendere un taxi e lo salutai sostenendo di essere in ritardo. Finì lì.

    Dopo un paio di giorni, nella pausa pranzo – al tempo, lavoravo presso lo studio di un commercialista molto noto a Napoli – come mio solito, passeggiavo nei pressi della stazione mangiando una pizza, quando fui affiancato da una macchina scura. Si abbassò il finestrino posteriore e un uomo in vestito nero e occhiali da sole, nonostante fosse nuvoloso, mi invitò a salire.

    Continuai come se non avessi capito si riferisse a me, poi però guardandolo meglio, quando scese dall’auto lo riconobbi. Era uno degli uomini che si erano uniti a me e Harby al ristorante un paio di giorni prima. Mi tagliò la strada: «John Sheene... Per gli amici Jonny. Ti ricordi?»

    «Non mi sembra. Dovrei?» dissi evitandolo e continuando a camminare.

    «Sì che ricordi. Hai più visto Harby da quel giorno?»

    «Senta John, non ho idea di chi siate né cosa vogliate. L’altro giorno ho solo recuperato la borsa che gli avevano scippato e per ringraziarmi mi ha offerto il pranzo. Punto. Ora devo andare.»

    Ma lui continuò ad affiancarmi e all’improvviso mi spinse in un vicoletto, e bloccandomi contro il muro tirò fuori un tesserino dell’intelligence U.S.A.

    «Ascolta, Harby è scomparso da quel giorno. Devo ritrovarlo, sono molto preoccupato.»

    Non finì la frase che si ritrovò con il braccio torto dietro alla schiena e con l’altra mano gli strinsi il muscolo del trapezio per impedirgli di reagire.

    Quando lo lasciai pronto a parare eventuali reazioni, lui si risistemò cravatta e giacca e raccogliendo da terra il tesserino mi disse:

    «Scusa, ma sono molto preoccupato per lui. Sono sicuro che gli sia capitato qualcosa e credevo che fossi tu il contatto che aveva qui in città. Beh, visto che non sai nulla, scusa e fai come se non ci fossimo mai incontrati.»

    Raccolsi i resti del pranzo e li gettai in un cestino intenzionato a rientrare in ufficio. Dopo neanche cento metri mi si pararono di fronte due ceffi che m’intimarono di seguirli. Ancora scosso, quando aprendo i giubbini vidi dei manici di pistola, iniziai ad avere davvero paura. Non conveniva fare l’eroe e li seguii.

    Dopo qualche metro mi spinsero in un anonimo negozio di stoffe e tele all’ingrosso.

    «Guagliò... Che volevano quelli? Ti sei ficcato in qualche casino eh?»

    «Non credo siano affari tuoi.»

    Prendere sempre di petto le situazioni, sapevo che prima o poi mi avrebbe portato guai. Credevo fosse la volta buona, invece con mia enorme sorpresa spuntò dal retrobottega Harby.

    Fu quel giorno che, per la prima volta, avvertii quel brivido percorrermi la schiena. sensazione che col tempo avrei associato a qualcosa di poco piacevole che stava per capitare.

    Al contrario di due giorni prima, aveva tutt’altro aspetto. Barba incolta, capelli chiaramente segnati da un cappellino da baseball, vestiti anonimi e uno smanicato preso al mercato. Lo dovetti guardare così sorpreso per quella trasformazione che sorridendo confermò di essere davvero lui.

    «Sì, sono proprio io. Come stai?»

    «Io bene, meglio prima... comunque. Tu piuttosto, mi sa che hai qualche problema con i tuoi amici, o sbaglio?»

    «Grande intuito, sono due corrotti. Ti hanno fatto qualcosa, minacciato? Mi dispiace se la siano presa con te.»

    «Forse è dispiaciuto più lui. Gli faranno male braccio e collo per qualche giorno.»

    I due che mi avevano scortato da lui gli confermarono ciò che avevo fatto e Harby colse la palla al balzo.

    Non so come, non so perché, alla fine non riuscii a non fare ciò che voleva. Tanto che il giorno stesso, dissi al lavoro che per un po’ non potevo andare e...

    Fu l’inizio della fine.

    La mattina seguente ci vedemmo alle otto meno un quarto e con i due scagnozzi, ci avviammo in auto verso la periferia nord di Napoli.

    Ci fermammo a Pianura e a Bagnoli. Una decina di minuti a ogni tappa. Loro andavano non so dove, io aspettavo in auto. C’inoltrammo nel casertano, sul Litorale Domizio e arrivati a Lago Patria, ci fermammo ai margini della pineta.

    Dieci minuti dopo arrivarono due macchine di grossa cilindrata che ci bloccarono eventuali vie di fuga e dalle quali scesero sei persone armate che, dopo averci fatti scendere, ci perquisirono. Solo dopo riposero le armi e i due ceffi parlarono con quello che sembrava il capo. Alla fine gli consegnarono una busta formato A4 e andarono via.

    Ripartimmo e dopo qualche centinaio di metri mi fecero imboccare una stradina ed entrare nel cancello di una villetta isolata, a ridosso della spiaggia.

    Nella busta c’erano dei documenti, delle foto e una VHS che i due andarono a visionare nell’altra stanza.

    «Harby... non sarebbe il caso di spiegarmi qualcosina? No, così… giusto per sapere a cosa sarà dovuta la mia morte.»

    «Ah, ah, ah, sei simpatico...»

    Mi spiegò che stavano incastrando un boss locale, il quale grazie all’aiuto di politici, poliziotti e imprenditori corrotti in Campania, di familiari emigrati in Canada e il fratello, latitante in Colombia, aveva organizzato un’articolata rete per importare droga in l’Italia e in Nord America, scavalcando la cupola.

    Quella busta conteneva il nome della persona che custodiva il registro contenente tutti i nomi, le attività e le prove che cercavano. Ed era stato proprio il capo dei capi a fornirglieli, per paura della repentina ascesa dell’ex braccio destro.

    Quando i due ceffi ci chiamarono di là, mi venne un colpo! Sullo schermo, in primo piano, un notissimo politico, che avevo conosciuto a un ricevimento elettorale e che avevo tentato di portare a letto.

    Harby volle sapere il perché di quell’espressione meravigliata e ingenuamente gli raccontai la verità. Gli s’illuminarono gli occhi e cambiò immediatamente piani.

    Dalle loro informazioni, era solito frequentare prostitute e transessuali, occasionalmente anche qualche maschio – cosa di cui ero a conoscenza anche io –, quindi l’intenzione di Harby era quella di usare me per abbordarlo. Era troppo importante mettere le mani su quel registro, nel quale erano annotai i nomi degli insospettabili che tiravano le fila. Registro che custodiva nella sua villa bunker, nella quale gli allarmi venivano disattivati solo il tempo di entrare o uscire, rendendola di fatto inattaccabile. Era difficile, ma si poteva tentare.

    Mezz’ora dopo, un uomo ci portò da mangiare, cucina casereccia napoletana, davvero buona. Nel pomeriggio, mi riaccompagnarono alla stazione.

    Ebbi netta la sensazione di essere seguito e non sapendo se fossero uomini di Harby o chi altri, salii sul primo treno in partenza, sicuro che chi mi stava pedinando mi avrebbe seguito. Aspettai che si chiudessero le porte e un attimo prima, facendomi anche male nel saltare, mi buttai giù dal treno. L’uomo rimase chiuso nel vagone e non poté far altro che guardarmi mentre il convoglio si allontanava. E ora?

    Prendere il treno non era sicuro, quindi uscito dalla stazione mi avviai a piedi verso l’autostrada. Appena vidi una macchina con targa di Salerno ferma a un semaforo, chiesi loro un passaggio. L’aria da bravo ragazzo che avevo servì. Mi fecero salire e tornai a casa... sano e salvo!

    All’epoca vivevo da solo in un monolocale – leggermente al di sotto del livello stradale – sulla via che porta a Vietri sul Mare. Rimasi tre giorni chiuso in casa, impaurito da tutto ciò che era successo, sperando che, calmatesi le acque, sarebbe tornato tutto come prima.

    Il quarto giorno, alle diciotto circa, bussarono ripetutamente al citofono. Panico! Vista l’insistenza, scostando la tenda, con circospezione guardai fuori. Era quel Jonny che Harby mi aveva assicurato fosse corrotto.

    Cazzo! Mi hanno trovato. E ora? Ero troppo agitato per pensare e non mi venne una soluzione.

    All’improvviso sentii un tonfo, guardai nuovamente fuori e non vidi più nessuno. Poiché l’edificio si sviluppava al di sotto del piano stradale – discostato dallo stesso di circa un metro e mezzo, e collegato mediante tre gradini dopo i quali c’è una sorta di passerella – intuii che quel rumore fosse stato provocato da quel Jonny. Dalla finestra non si riusciva a vedere nulla, andai quindi alla finestra del bagno e lo vidi a terra esanime. Accertatomi che non ci fosse nessuno, uscii. Era ferito, si lamentava, mi pregò di aiutarlo. Al mio accusarlo di essere corrotto, disse che era stato costretto, avevano rapito il figlio di otto anni.

    Mi fece ascoltare una registrazione del bambino, che piangendo terrorizzato pregava il padre di fare ciò che gli chiedevano.

    Qualcosa mi spinse a credergli, quindi lo portai dentro e lo medicai alla meno peggio.

    Mi diede un numero da chiamare con un codice da digitare e il suo cellulare. Digitato il numero, un uomo in inglese mi chiese con chi volessi essere messo in contatto. Risposi: Harby Crawbson. Pochi secondi e parlavo con lui. Dopo avergli spiegato l’accaduto, mi consigliò di scappare e raggiungerlo, perché era una trappola. Non mi convinse e una volta chiuso tornai da Jonny, il quale mi pregò di credergli.

    La mattina chiamò qualcuno e dopo un’ora vennero a prenderci. Non so cosa mi spingeva a fidarmi di lui ma lo avrei aiutato. Con lo stesso sistema della sera prima, diedi appuntamento ad Harby a Napoli. Gli spiegai ciò che mi aveva confidato Jonny facendogli ascoltare la registrazione, ma non era ancora convinto, quindi ripeté di lasciar perdere… avevamo altre priorità, incastrare quel famoso politico, e che il mio aiuto era fondamentale.

    Sarà che l’idea di portarmi finalmente a letto quell’uomo mi stuzzicava non poco, sarà stata l’adrenalina che la situazione mi provocava, fatto sta che accettai.

    Il 20 aprile, attuammo il piano. Mi portò a comprare un vestito, e a mezzogiorno arrivammo sotto l’ufficio di Mirko Laviano.

    Una volta salito al quinto piano dell’edificio, mi accolse la segretaria, una giovane ragazza che poteva benissimo fare la fotomodella la quale, molto cortesemente si scusò, Laviano era in ritardo, ma stava arrivando.

    Dopo neanche cinque minuti arrivò, con aria visibilmente contrariata. Quando la segretaria gli indicò me, con un sorriso un po’ forzato, mi venne vicino e mi fece accomodare nel suo studio.

    «Signor Comise, giusto? Ho ricevuto tutto l’incartamento di cui avevo bisogno, e mi hanno spiegato cosa fare. E questo è stabilito. Ma mi hanno anche, diciamo così, confidato che potrebbe essermi utile anche per altro, senza però dettagliarmi. Me lo vuole spiegare lei?»

    «Certo che glielo spiego!» dichiarai alzandomi e chiudendo a chiave la porta. Mi guardò stupito.

    «Ultimamente lei è molto sotto pressione. Posso aiutarla a rilassarsi, magari con un bel massaggio distensivo.»

    «Ma... cosa...» non ebbe il tempo di dire o fare nulla, che già ero accovacciato e stavo slacciandogli i pantaloni.

    Non oppose resistenza, prima del mio appuntamento, Harby aveva organizzato un incontro casuale con una bella e prorompente signorina la quale, dopo averlo fatto... infervorare, lo aveva lasciato a bocca asciutta. Ed era quello ad averlo reso nervoso.

    Dopo aver terminato il massaggio rilassante, gli diedi il numero del cellulare che mi aveva dato Harby:

    «E questo è solo l’antipasto. Chiamami quando hai voglia di cominciare il pranzo vero e proprio!»

    Me ne andai facendogli l’occhiolino.

    Quando ci riunimmo per fare il punto della situazione, Harby decise mi stabilissi a Napoli.

    Nel pomeriggio, contattai Jonny e mettemmo a punto una strategia per aiutarlo a ritrovare il figlio. Lo invitai in albergo e nel contempo diedi appuntamento anche ad Harby. Dovevo far incontrare quei due.

    Scesi a fare un giro per schiarirmi le idee e camminando tra i vicoli della Duchesca, un quartiere di fronte Piazza Ferrovia, dove ogni giorno c’è il mercato, notai uno strano movimento. Un’auto, del tutto simile a quella usata da Jonny, entrò nell’androne di un palazzo. Mi appostai a osservare la scena. Nella penombra dell’androne riconobbi l’altro uomo che era al ristorante il giorno che conobbi Harby. Aiutato da due persone, stava scaricando dal bagagliaio un grosso sacco di tela. A uno dei due scappò di mano ma prima che cadesse, lo fermò alzando la coscia. Si udì un grido di dolore e poi piangere. Aspettai per vedere dove entrassero e mi allontanai chiamando Harby.

    Dopo qualche minuto i tre uscirono dal portone con l’auto, allontanandosi. Entrai furtivamente e raggiunsi la porta dov’erano entrati col sacco, ma era chiusa da una catena e all’interno non si sentiva alcun rumore.

    Non mi rimaneva che aspettare Harby.

    Cinque minuti dopo, due di loro tornarono a piedi ed entrarono nel basso lasciando la porta socchiusa.

    Finalmente arrivò Harby. Gli spiegai brevemente tutto ciò che avevo visto e lui, con i due che lo accompagnavano, fece irruzione, lasciandomi alla guida dell’auto in moto.

    Fu un’azione rapida che ci permise di liberare il ragazzo senza problemi. Mentre ero al volante, mi accorsi che da un balcone qualcuno vide tutta la scena.

    Dopo aver riabbracciato il figlio, Jonny e Harby si chiarirono e tornarono a fare squadra. Il collega corrotto fu catturato dopo poco e consegnato agli agenti americani della base vicina.

    La sera dopo, verso le undici mi squillò il cellulare. Era il politico voglioso di un altro massaggio. Dieci minuti buoni per decidere dove vederci. Lui voleva una sveltina in macchina, io invece volevo farmi portare a casa sua, dove custodiva il registro che ci serviva. Alla fine chiusi.

    Harby s’innervosì: «Cavolo. Hai mandato a monte tutto. Ora non ti chiamerà più.»

    «Non ti fidi della mia arte terapeutica? Se avessi insistito, lo avrei insospettito. E questa è l’ultima cosa che vogliamo, giusto?»

    Richiamò alle undici e trentacinque.

    «Credo di potermi fidare di te. Se mi assicuri che non creerai problemi...»

    Mi finsi offeso.

    «Ma con chi credi di avere a che fare? Senti, facciamo così, trovati qualcun altro e dimentica questo numero!»

    Ma prima che riattaccassi, mi chiese dove vederci.

    «Bravissimo,» fece Harby «si vede che hai stoffa.»

    Mi portò a casa sua a Posillipo, in una modesta villa ottocentesca, con parcheggio interrato, piscina e accesso diretto al mare!

    Una volta in casa, prima che riattivasse gli allarmi, entrarono anche Harby e Jonny. Volle lo sottoponessi a ben tre accurati e approfonditi trattamenti, che diedero il tempo ad Harby di trovare ciò che cercavamo.

    Alla fine scambiammo due chiacchierare prima di riaccompagnarmi.

    Sotto l’albergo, salutandomi, mi diede una busta. Capii immediatamente di cosa si trattava e rifiutai, ma non volle sentire ragioni e si allontanò velocemente. Quella notte, feci la prima e unica ‘marchetta’ della mia vita!

    Non aprii la busta. La misi in valigia e andai a letto.

    La mattina alle otto mi svegliò Harby, congratulandosi con me, proprio nel momento in cui fecero irruzione nella stanza tre uomini con passamontagna. Puntandomi dei fucili a canne mozze mi chiusero in bagno e misero a soqquadro la stanza. Non trovando ciò che cercavano, telefonarono e, dopo neanche un minuto, si presentò nella camera Mirko, di umore pessimo. Si sedette sulla poltroncina e si accese un sigaro a godersi la scena.

    Due di loro mi tenevano fermo, il terzo iniziò a colpirmi allo stomaco. Mi pestarono per bene, ma non dissi nulla. Quindi appena smisero, passai al contrattacco...

    «Mirko, perché mi fai questo? Se non ti è piaciuto...» m’interruppe, tappandomi la bocca:

    «Bada bene a ciò che dici! Dimmi solo dov’è.»

    Buona informazione. Non voleva che gli altri sapessero dei miei massaggi. Dovevo sfruttare la cosa.

    «Dov’è cosa?»

    «Il registro, cazzo! Dov’è quel maledetto registro!»

    «Ma di quale registro parli? Senti. È evidente che c’è stato un fraintendimento. Pensaci, noi abbiamo ‘parlato’ tutto il tempo, siamo stati sempre insieme. Quando avrei preso questo registro, come dici tu? Che cosa me ne sarei fatto?»

    «Puoi averlo preso solo tu! C’eravamo solo noi!»

    «Quando? Ammettiamo che l’abbia preso. Era qualcosa di talmente piccolo da stare nelle tasche dello smanicato? Ti ripeto. Non so di cosa parli. Immagino sia importante per te, ma rifletti. Ti prego, io non ho fatto nulla.»

    Iniziò a pensare fumando nervosamente e andando su e giù per la stanza. All’improvviso disse ai tre di uscire dalla stanza. Una volta soli, continuai.

    «Perché mi fai questo? Io sono...»

    «Se non ce l’hai tu, sono morto.»

    Feci finta di stare male, andai in bagno a sciacquarmi la faccia. Cazzo che male che mi avevano fatto, ma anche se dolorante, dovevo insistere. Era l’unico modo per uscirne limitando i danni. Se avessero continuato, sicuramente avrei ceduto.

    «Mirko, io non ho idea di cosa sia successo, ma se posso aiutarti, lo farò. Mi vuoi raccontare tutto?»

    Fui talmente convincente che, quando mi sedetti vicino poggiandogli la mano sulla gamba, sentii un fremito e subito dopo si sistemò l’attrezzo: «Lo devo ritrovare a tutti i costi. Quelli sono tipi pericolosi.»

    «Perché non mi credi? Ho capito benissimo che quei tipi non sanno cosa abbiamo fatto ieri sera. E tu non vuoi lo sappiano. E sarebbe stato facile, raccontando tutto, distogliere la loro attenzione. Ti assicuro che mi piaci tantissimo e non farei nulla che possa nuocerti. Credimi!»

    «Ho perso solo tempo. Ma ora, come posso lasciarti andare? Mi denunceresti.»

    «E sì! Ci ho messo cinque anni per conoscerti...»

    «A proposito. Ho scoperto che non sei chi dici di essere. Realmente, chi sei? Come hai fatto a organizzare la messinscena? L’incontro, i documenti, vedi che non posso fidarmi?»

    Cazzo! Inventa Mario, inventa, se no fai una brutta fine.

    «Quando ti hanno chiesto quell’appuntamento, ero seduto di spalle al segretario di quel Comise. E quando sei andato via e lo ha chiamato dicendo che avevi rimandato l’appuntamento, l’ho fermato e spacciandomi per un tuo collaboratore mi sono fatto consegnare i documenti, assicurandogli che te li avrei fatti leggere mentre andavamo a Roma. Sono stato convincente. Scusami, ma era troppa la voglia di conoscerti.»

    «Sì, è corretto. Ma ora come faccio?»

    «Era a casa tua? Pensa a chi potrebbe avere interesse a quel registro. Presumo contenga qualcosa d’importante, ma non m’interessa. Ora m’interessa che tu mi creda e che io mi rimetta in sesto. Non avevo mai provato un dolore simile. Non ho mai fatto a pugni, nemmeno da piccolo.»

    Improvvisamente uscì dalla stanza e si allontanarono tutti e quattro. Ebbi un crollo, stetti davvero male e andai in bagno a dare di stomaco.

    Un paio di minuti e sentii aprire nuovamente la porta. Pensai davvero fosse finita, che avesse detto agli scagnozzi di uccidermi, mentre lui se ne andava.

    Con mio grande sollievo era Harby che, una volta accertatosi che se ne fossero andati, era salito.

    «Bravo, bravissimo! Cavolo, e come sei riuscito a prenderli per i fondelli. Con un po’ di addestramento, saresti un ‘agente speciale’ coi fiocchi. Vuoi venire con me in America? Ho già tutto chiaro sulle tue mansioni.»

    «Harby, fanculo. Non so perché mi sono fatto coinvolgere, ma non voglio saperne più nulla di te. Sparisci dalla mia vita. Non voglio sentirti nominare mai più. Mi hai provocato più danni tu in pochi giorni...»

    «Sì, hai ragione. Ma se...»

    «Vaffanculo!»

    Se ne andò lasciandomi sul letto una busta, e non lo vidi più...

    Dentro trovai due milioni di lire e un braccialetto d’oro.

    Beh, fra i soldi che mi aveva regalato Mirko – cinquecento mila lire – e i due milioni di Harby, quei giorni non furono del tutto sprecati.

    Tornai a casa e per riprendermi ci volle una settimana. Anche se l’adrenalina provocatami dall’essere stato, per qualche giorno, un agente segreto della maggiore potenza mondiale, era ancora in circolo.

    Ripresi la mia vita normale, anche se avevo perso il lavoro dal commercialista a Napoli, e dovevo arrangiarmi per sbarcare il lunario.

    Un paio di mesi dopo conobbi una ragazza di Napoli e ci uscii un paio di volte. La seconda volta, andammo in un locale a Napoli, ma a metà serata con la scusa di andare in bagno, sparì. Dopo qualche minuto, mi accorsi che mi aveva rubato il portafoglio con documenti e soldi.

    Incavolato nero, appena uscito dal locale provai improvvisamente quel famoso brivido. Fu un attimo, non ebbi il tempo di capire cosa stesse succedendo che due energumeni mi afferrarono e, sollevandomi letteralmente da terra, mi spinsero a forza in un furgone.

    Sotto minaccia di una pistola viaggiammo per circa un’ora. Prima nel traffico e poi in autostrada o comunque su una strada a scorrimento veloce.

    Mi chiusero, credo in una cantina, mentre li sentivo nell’altra stanza, discutere animatamente in dialetto napoletano.

    Entrarono all’improvviso, spintonando uno dei due uomini che avevano aiutato Harby. Era conciato male e prima di svenire, ebbe solo la forza di dirmi...

    «Guagliò, mi dispiace, se credi, prega. Questi ci uccidono.»

    La mattina dopo, quando vennero a prenderlo riuscì a scappare. Lo inseguirono senza badare a me, lasciando la porta aperta. Senza esitazione scappai anch’io. Appena fuori neanche il tempo di rendermi conto di essere in piena campagna, udii degli spari. Mi voltai e vidi tre persone che inseguivano... non ricordavo neanche come si chiamasse. Poi non spararono più! Lo avevano ucciso, o quantomeno colpito. Non mi rimaneva molto tempo. Guardandomi intorno vidi le macchine di quei tipi e una motocicletta. Con le chiavi nel quadro. Cercai qualcosa di appuntito, bucai le gomme delle due macchine e fuggii con la moto. Solo che avevano un’altra macchina dietro la casa e accortisi della mia fuga si lanciarono all’inseguimento. Dopo aver rischiato non so quante volte di cadere, non avevo mai portato una moto da strada, alla fine riuscii a far perdere le mie tracce e a imboccare l’autostrada.

    Mi avevano portato in provincia di Caserta, per fortuna la moto aveva il pieno e riuscii ad arrivare a Salerno. Decisi di abbandonarla a pochi chilometri da casa e proseguire in pullman. Appena abbandonata la moto in una traversina li vidi passarmi davanti. Non so come, erano riusciti ad arrivare anche loro a Salerno. Per fortuna non mi avevano visto.

    Non mi fidai a tornare a casa, se come sospettavo la stronza borseggiatrice era d’accordo con loro, conoscevano il mio indirizzo. Passai la notte da un amico e la mattina successiva, con tutta la cautela possibile, feci un giro a casa mia. Non c’era nessuno e decisi di rischiare. Serrai tende e persiane e rimasi richiuso in casa per qualche giorno.

    Dopo tre giorni, mi arrivò via posta una busta con dentro il portafoglio e i documenti, accompagnati da un biglietto: Scusami Mario. Mi hanno costretta. Se non avessi eseguito, mi avrebbero fatto chissà cosa. La cosa buona è che non conoscono ancora il tuo nome, sanno solo che sei di Salerno. Mi piaci molto, e ti ho rubato i documenti per non farglielo scoprire. Mi raccomando, è gente senza scrupoli, non farti più vedere a Napoli e tieni a mente che hanno agganci anche a Salerno. Scappa finché puoi!

    Tutto mi sarei aspettato nella vita, fuorché essere nel mirino della camorra. Non avevo mai avuto tanta paura in vita mia e non potevo permettere che se la prendessero con le persone a me care.

    Mi rifugiai qualche giorno a Palinuro da Giuseppe, vecchio amico d’infanzia. Ma neanche trasferendomi definitivamente lì mi sarei sentito al sicuro, quindi presi una decisione estrema, andarmene!

    Il 5 luglio, dopo i festeggiamenti per il mio compleanno, dissi ai miei che mi avevano offerto un ottimo lavoro a Hong Kong e che ero orientato ad accettare. Capirono e non cercarono di fermarmi… se era quello che volevo, dovevo andare. E per la prima volta mio padre fu fiero di me. Se avesse saputo!

    Fra noi c’erano attriti, non era stato un buon padre, mi dava del fannullone, ma quella volta, la prima… lo resi fiero.

    Dopo una settimana me ne andai da Salerno, dall’Italia, da tutto ciò che sentivo mio... senza sapere cosa ne sarebbe stato di me. Ma sentivo di doverlo fare.

    L’ambientamento

    Arrivati in centro, al 1305 di Walnut Street, Brandon mi prese una camera al settimo piano dell’Holiday Inn Express. Chiamò Harby, il quale, dopo pochi minuti entrò abbracciandomi calorosamente.

    Dopo i convenevoli, gli diedi uno spintone e cominciai a inveire contro di lui.

    «Brutto stronzo! Hai visto cos’hai combinato? Mi hai rovinato la vita. Ti ammazzerei…»

    «Ma se è questo quello che volevi, da quando hai saputo che ero una spia! Credi non mi sia accorto del bagliore nei tuoi occhi, quando ti proposi di collaborare con me?»

    «Sì e poi, una volta fatti i cavoli tuoi sei sparito e io ho rischiato di essere ammazzato!»

    «Ma te la sei cavata egregiamente, e non avevo dubbi. Tu sei tagliato per questa vita! Bene. Ora che ci siamo chiariti, ho da proporti un lavoretto…»

    «Harby, vai a cagare. Io me ne vado.»

    «Non t’interessa vedere il regalo che ho in serbo per te? Da quello che dicono sia un amante eccezionale!»

    E mi mise davanti agli occhi la foto di Philip Dupetre, uno dei più famosi e ricercati playboy, nonché uno degli uomini più ricchi del mondo. Un cinquantenne brizzolato da favola. Avevo non so quante sue foto conservate.

    «Sì, certo. E quello, con la miriade di troiette pronte a tutto per portarselo a letto, considera me. Sentimi bene. Non so come hai fatto a sapere che arrivavo e neanche m’interessa. Me ne vado e fammi, anzi, fatti il piacere… non farti vedere mai più da me.»

    «Hai imparato bene la lingua, ma come pensi di cavartela. Hai speso tutti i soldi per il viaggio, hai quanto… cinquanta dollari in tasca?»

    «Questi sono cavoli miei. Addio!» E sbattendo la porta me ne andai.

    Brandon voleva fermarmi ma Harby lo bloccò.

    «Cos’è che non mi hai detto dell’Italia?»

    «Eh, eh, eh…»

    «Come temevo. Ma non dicevi di volerlo nella squadra? Se va via?»

    «Abbi fede, cercherà lui noi. Tu tienilo d’occhio… con discrezione.»

    «Come dovrei fare se non so dove va?»

    Prese dalla tasca un ricevitore GPS, lo accese e un puntino verde iniziò a lampeggiare.

    «Discrezione, mi raccomando!»

    Aveva ragione Harby. Con trentasei dollari e venti centesimi in tasca, senza un posto dove andare, senza conoscere nessuno…

    Anche se me l’ero cavata bene in Asia, stessa situazione, anzi peggio, almeno conoscevo la lingua, ero spaesato.

    Mi sembrava un sogno. Finalmente in America. A Philadelphia, la città di Doctor J, dei 76ers.

    Amavo già tutto di questa città, si respirava un’aria diversa. Gente di tutte le razze che passeggiavano a braccetto, chiacchieravano fra loro senza pregiudizi, senza differenze.

    Camminavo praticamente a testa in su e a bocca aperta, letteralmente incantato. Certo, dopo aver vissuto fra Hong Kong e Pechino, Philly era una città normale, ma ne ero innamorato...

    Verso mezzogiorno – devo avere una predisposizione per cacciarmi nei guai – mentre attraversavo la strada, sentii urlare. Quando istintivamente mi voltai, vidi un ragazzo afroamericano che correva verso di me con una valigetta, e un uomo che lo inseguiva arrancando.

    Come nel caso di Harby, non ebbi un attimo di esitazione. Scavalcai l’auto che si frapponeva fra me e il ragazzo e con un calcione lo scaraventai a terra.

    La valigetta cadendo si aprì e il contenuto finì tutto in terra. Bloccai il ragazzo il quale mi guardò con occhi terrorizzati implorandomi:

    «Ti prego, lasciami andare. Ho due bambini piccoli che muoiono di fame. Ti prego, lasciami andare!»

    Prima che ci raggiungesse l’uomo al quale aveva rubato la valigetta, lo guardai nuovamente negli occhi...

    «Nasconditi lì dietro e non fiatare.»

    Rimisi tutto nella valigetta e gliela riconsegnai.

    «Grazie, mi hai salvato. Non so cosa avrei fatto se l’avessi persa. Come posso sdebitarmi?»

    Ci pensai un attimo. Che bell’uomo. Poco più che quarantenne, capello corto brizzolato, vestito sartoriale grigio, e cravatta rosa. Stavo per farmi scappare un venendo a letto con me.

    «Quanto vale per te questa valigetta?»

    «Vuoi dei soldi? Okay, cinquanta bastano?»

    «Aspetta, fammi finire. Il ragazzo che te l’ha rubata, sono sicuro che l’ha fatto per dare da mangiare ai figli, ma è pentito. Quando mi sono messo davanti per bloccarlo, lui si è fermato e mi ha dato la valigetta, chiedendo scusa. Gli vogliamo dare una possibilità? Dice che i figli non mangiano da giorni.»

    «Ma lo conosci? Se è così, dagli questi» e tirò fuori dalla tasca un biglietto da cinquanta.

    Io allungando il braccio tirai fuori dall’intercapedine fra i due negozi dove era nascosto, il ragazzo, letteralmente terrorizzato. L’uomo rimase stupito, ma con prontezza gli allungò la banconota. Lui la prese timidamente e inginocchiandosi iniziò a piangere e a ringraziare.

    Rialzandolo gli dissi:

    «Oggi sei stato fortunato perché hai trovato due brave persone, domani non ti ricapiterà! Rifletti e fai in modo che i tuoi figli non debbano crescere vergognandosi del loro padre. Capito?» gli diedi uno scappellotto fra spalla e testa, «ora vai a comprare da mangiare alla tua famiglia. Fila!»

    Il ragazzo andò via a capo chino mentre le persone erano radunatesi ad assistere alla scena cominciarono a darmi pacche sulle spalle e a congratularsi. Io strinsi la mano all’uomo e feci per andarmene, quando mi chiese:

    «Ma, vai via? Voglio sdebitarmi, dove ti trovo?»

    «Col tuo gesto mi hai già ringraziato. Dove mi trovi? Boh! Sono atterrato stamattina direttamente da Hong Kong e non ne ho idea.»

    M’incamminai, seguito dallo sguardo ancora incredulo dell’uomo, infilandomi in una caffetteria pochi metri più avanti. Avevo una fame incredibile, non mangiavo da prima d’imbarcarmi.

    Mentre decidevo cosa prendere, in base al misero budget che avevo, l’uomo entrò di corsa nel locale. Anche se stupito nel trovarmi a fare i conti con gli spiccioli che avevo in tasca esclamò.

    «Ma... e il mio portafoglio?»

    «Cosa?»

    «Non c’è più il portafoglio.»

    Pensava glielo avessi preso dalla borsa. Senza scompormi, prendendo dal banco l’ordinazione, andai al primo tavolino libero. Mi seguì.

    «Guarda meglio nella borsa prima di muovere delle accuse!»

    Si sedette e controllando bene, lo trovò.

    «Che figuraccia. Scusami ma ho...» non gli feci finire la frase.

    «No problem! Vuoi favorire?» dissi sorridendo.

    «Ma chi sei? Cosa volevi dire prima riguardo al non sapere dove stare? Ti posso aiutare? Se vuoi ti consiglio qualche buon albergo.»

    «Con quello che ho in tasca, a stento mi fanno fare una doccia.»

    «Davvero, vorrei fare qualcosa per te.» E prese il portafoglio.

    «Posalo, non l’ho certo fatto per quello, vuoi sdebitarti? Vieni a letto con me e siamo pari. Sei molto bello.»

    «Sei gay? No guarda, hai preso una svista. Mi piacciono le donne, mi dispiace.»

    «A dire il vero sono bisex. Peccato! Allora siamo pari, e la prossima volta stai più attento alla borsa.»

    «Sei una testa dura eh? Come te la caverai? Comunque questo è il mio numero. Se cambi idea…»

    «Sei tu che devi cambiare idea, ma purtroppo io non ho recapiti. Magari ci si rincontra.»

    Andò via e riuscii finalmente a mangiare la fetta di torta e bere il caffè in pace.

    Ritemprato e senza meta, ripresi a vagare per le strade della città, e quando m’imbattei in una panetteria dal nome inconfondibile: ‘Old Eboli Bakery’, vi entrai.

    «Buongiorno…» esclamai in italiano.

    Alla signora dietro al bancone, grassottella e tarchiata, sui sessantacinque anni, cadde il pane che stava imbustando.

    «Nino, Nino. Vieni, vieni subito.»

    Fece capolino dal retrobottega un uomo alto, magro, sulla settantina.

    «Nino. ‘U signor è italiano. Ha detto… ‘Buongiorno’.»

    Vedendomi perplesso, il marito mi disse di non far caso alla moglie, da almeno quattro anni non entrava nel loro negozio un paesano. Quando poi seppero che ero di Salerno, appena arrivato e che non sapevo dove andare, apriti cielo. M’invitarono a rimanere a pranzo con loro e mi offrirono una sistemazione nel retrobottega. Oltre a darmi lavoro. Certo, la paga era minima, ma per il momento andava più che bene.

    La mia buona stella mi aveva aiutato. E dopo due anni mi sentii come a casa.

    Due giorni dopo: «Come mai non ci ha ancora contattato? Lo stai tenendo d’occhio?»

    «Harby, s’è trovato un lavoro il giorno stesso, dopo aver sventato una rapina a un avvocato e convinto lo stesso ad aiutare il giovane dandogli dei soldi. È in gamba il ragazzo.»

    «Il migliore, anche se lui non lo sa. Solo che la cosa si sta complicando, credevo si risolvesse più velocemente.»

    Per una settimana andò tutto bene, imparai a fare l’impasto per il pane, servivo al banco, e familiarizzavo sempre di più con la lingua.

    La sera del 15 febbraio, mentre ero intento a chiudere il negozio, mi trovai davanti il figlio di Nino. Era visibilmente scosso a causa di un battibecco con due balordi, per una precedenza non data. I due, sotto effetto di droghe o alcol, lo stavano inseguendo. Lo feci chiudere nel negozio e proprio nel momento in cui i due stavano per aggredirmi, sopraggiunse una pattuglia della polizia che, intuito qualcosa dalle macchine lasciate in mezzo alla strada dietro l’angolo con le portiere aperte, stavano perlustrando la zona.

    Oltre ad arrestare i due Luigi, il figlio di Nino, fu multato per aver lasciato la macchina a ostruire il traffico. Era la prima volta che lo vedevo, appena rientrato da un viaggio a New York.

    Quarantacinquenne, avvocato, ben vestito, separato con tre figli. Non male come tipo. Gli dovetti spiegare chi fossi e cosa facessi nel negozio dei genitori.

    Dopo aver risolto con la polizia e spiegato chi fossi, andammo a cena dai genitori. A fine serata m’invitò a trasferirmi a casa sua, viveva da solo e la mia sistemazione nel retrobottega era più che di fortuna. Accettai, ma solo per qualche giorno.

    Il tran tran quotidiano proseguì fino a un giorno di inizio marzo. Stanco di stare chiuso in casa, con una voglia pazzesca, entrato in un internet point, cercai un locale dove passare la serata. Altro che Italia. Trovai almeno quindici locali gay, divisi per tipologia. Scelsi quello più consono e tornai a casa a prepararmi.

    «Stasera abbiamo deciso di darci alla pazza gioia vedo, dove te ne vai di bello?»

    «Ho guardato un po’ su internet, vado in un locale a un paio di isolati da qui, niente di particolare, ho bisogno di iniziare ad ambientarmi.»

    Nell’infilare il giubbino però, mi cadde il foglio dove avevo appuntato l’indirizzo. Raccogliendolo, non poté fare a meno di leggerlo.

    «Ma che sei frocio?»

    Dal suo tono, pensai: bene, ora sono punto e a capo, dovrò trovarmi un posto dove stare e un nuovo lavoro.

    Dopo un maldestro tentativo di negare l’evidenza:

    «Ho voglia, e sì, anzi, no… non sono frocio, ma bisex convinto. Mi piacciono sia le donne che gli uomini. Comunque ho capito, se mi fai il piacere per stanotte, domattina raccolgo le mie cose e me ne vado.»

    «Scusa, perché dovresti andartene?»

    «Visto il tuo tono...»

    «Hai ragione, ma era di stupore. Rimani pure, anzi sai che ti dico? Se mi aspetti vengo anch’io.»

    Anche lui ogni tanto, da quando si era separato ci andava. Passammo la serata a bere, ridere e scherzare, ma nessuno dei due ebbe fortuna. Probabilmente ci avevano scambiati per una coppia.

    Tornati a casa alle due passate, andammo a letto. Lo stesso letto. E devo dire che mi divertii come non mi capitava da tempo.

    La mattina faticai ad alzarmi e feci tardi al lavoro. Luigi era già uscito. Al solito andai al negozio, solo che trovai una sgradita sorpresa. La signora Concetta, appena mi vide, prese una busta di pane e chiamandomi non ricordo come, me la porse, mi fece l’occhiolino e mi disse in dialetto nostrano due parole. Ispettore e fisco.

    Avendo un semplice visto turistico e lavorando al nero, non mi rimase che prendere il pane e andarmene. E ora?

    Mentre camminavo sconsolato, accostò un’auto.

    «Serve uno strappo?»

    Senza neanche guardarlo, proseguendo dissi:

    «No Brandon, e di’ al tuo capo che so che c’è lui dietro.»

    Non si diede per vinto, e una volta accostato, proseguì accanto a me.

    «Brandon, ti ci devo mandare? Vedi che, da come sono incazzato, va a finire male. Pensi che non sappia che mi tenete sotto controllo? E mi sono bastati cinque minuti per capire come. Il braccialetto.»

    «Me lo aveva detto che eri in gamba, ma forse neanche lui sa quanto. Dai, vieni con me. Ti ospito qualche giorno a casa mia.»

    Io sono fatalista. Sapevo che non avrebbe rinunciato, come sapevo che quella condizione mi provocava forti scosse adrenaliniche. E se fosse questa la mia strada? mi chiesi.

    «Devi darmi un paio di giorni per riflettere.» Capì.

    Mi consegnò un cellulare, dei soldi e mi lasciò andare. Dopo un’ora tornai al panificio. Nino e Concetta erano molto abbattuti. Li rassicurai, ribadii che gli ero grato per ciò che avevano fatto, ma che a quel punto non potevo più rimanere, non aveva senso rischiare di mandare a monte i sacrifici di una vita. Lo sapevano bene anche loro che quella era l’unica soluzione.

    A pranzo Luigi disse che potevo rimanere a casa sua tutto il tempo che volevo. Alla fine, salutai Nino e Concetta con le lacrime agli occhi, promettendogli che sarei andato a trovarli ogni volta che potevo. Volevano darmi del denaro, rifiutai, accettando solo l’ospitalità del figlio.

    Ci pensai qualche giorno, ma la decisione era già scritta. La sera mi confidai con Luigi, si era instaurato un bellissimo rapporto fra noi, che andava al di là del sesso che avevamo iniziato a fare tutte le sere. Gli spiegai come stavano le cose, la decisione che avevo preso e lui mi pregò di pensarci bene. Quella era una scelta... definitiva!

    Chiamai Brandon per tutto il pomeriggio, senza risposta Allarmato, mi aveva assicurato che non lo spegnava mai, neanche di notte, chiamai gli unici altri due numeri in rubrica. Al secondo rispose Harby.

    Brandon era sparito. Da trentasei ore non dava più sue notizie. Mi spiegò su cosa stesse indagando e la zona della sua ultima reperibilità. Le loro ricerche erano state vane, e temeva il peggio. Le persone sulle quali indagava erano estremamente pericolose e senza scrupoli.

    Andai sulla N11th Street, perlustrai anche i vicoli e, dietro a un cassonetto intravidi il ricevitore GPS che usava per tenermi d’occhio. Come era servito per tenere d’occhio me, poteva essere utile a ritrovare Brandon. Da Harby mi feci dare il MAC del GPS del telefono di Brandon, e iniziai a perlustrare la zona. Dopo più di mezz’ora, ero sul punto di rinunciare, si aprì la botola di accesso a un seminterrato dalla quale uscì l’odore inconfondibile di un ristorante cinese. Prima che si richiudesse il ricevitore captò un segnale, seppur debole. L’avevo localizzato.

    Quando i due uomini usciti dalla botola si avvicinarono, non persi la calma. E in un misto italo-inglese, mi finsi un turista.

    «Scusate, io sono italiano. Mi sono perso. Dov’è l’ingresso del ristorante?»

    Anche se non proprio convinti, mi accompagnarono all’entrata. Mi sedetti a un tavolino il più vicino possibile alle scale che portavano al seminterrato, inviai un sms ad Harby e ordinai. Dopo un antipasto di WanTon fritti, approfittando di un attimo di distrazione dei camerieri, scivolai giù per le scale. Percorsi un lungo e stretto corridoio e non appena girato l’angolo, mi trovai di faccia i due cinesi di prima. Per fortuna, nello stesso momento, fecero irruzione gli uomini di Harby. I due scapparono, io seguitai a cercare Brandon. Arrivai nella stanza dove lo avevano rinchiuso, guardato a vista da un bestione di quasi due metri.

    Lo colpii con un tubo di ferro trovato nel corridoio ma lo feci solo barcollare. Si voltò verso di me e un attimo prima che mi si avventasse contro, lo colpii nuovamente in piena faccia. Si accasciò stordito. La perquisizione permise di scoprire un laboratorio per la produzione di meth, una droga sintetica molto pericolosa.

    Prima di essere caricato sull’ambulanza, Brandon mi pregò di andare personalmente ad avvisare la famiglia per non metterli in agitazione vedendo dei poliziotti

    «Se vai tu,» disse «si tranquillizzeranno al solo vederti perché ti riconosceranno subito. Ho tanto parlato di te a casa.»

    Accompagnai la moglie e le figlie al St. Joseph’s Hospital passando la notte con loro in sala d’attesa, mentre lo operavano. Mi sono sempre piaciuti i bambini, quindi non faticai a tenerle buone finché si addormentarono.

    L’operazione durò tre ore e all’alba riprese i sensi. Entrò la moglie e io tenni le piccole. Dieci minuti dopo, Patty venne a chiamarmi, Brandon voleva parlarmi. Mi prese la mano e mi chiese di badare a loro mentre lui era in ospedale.

    Le prime missioni

    Aprile 1991.

    Ormai erano due mesi che Brandon mi addestrava. Due mesi che vivevo a casa sua, sulla West Coulter Street.

    Sembrava di essere tornato a scuola!

    Ore 07:00 footing;

    Ore 09:00 lezione di dizione;

    Ore 13:00 pranzo;

    Ore 15:00 difesa personale;

    Ore 17:00 socializzazione;

    Ore 20:00 cena;

    Ore 21:00-24:00 libera uscita.

    Questo era il programma per i primi quattro mesi. Se mi dimostravo all’altezza, sarei passato allo step successivo. Giovedì diciotto, Harby ci convocò urgentemente a Washington DC.

    «Mi raccomando Mario, stai calmo…»

    Non riuscì a completare la frase, che già avevo mollato un manrovescio a quello stronzo.

    «Anch’io sono felice di vederti» disse massaggiandosi con la mano sinistra la mascella e stoppando con l’altra i tre agenti presenti, che stavano per avventarmisi contro.

    «Siediti!» esclamò perentorio.

    Rimasi in piedi. A quel punto diede un’occhiata a uno degli scagnozzi che tentò di farmi sedere prendendomi dalle spalle.  Ci vollero tutti e tre per riuscirci.

    «Brandon, accomodati, e voi… Fuori!»

    «Harby, ho capito perché siamo qui. Secondo me non è ancora pronto.»

    Harby, poggiato con il gomito sinistro sul bracciolo della sedia, l’indice sotto il naso e il pollice a stuzzicare il labbro superiore, mi fissava scrutandomi da sopra agli occhiali.

    Cercando di ostentare una sicurezza che non avevo, stavo poggiato allo schienale, gambe leggermente divaricate, dita incrociate e giochicchiavo con i pollici. Il mio sguardo vagava per la stanza come a simulare noia, ma mi sentivo sempre più teso. Brandon nel frattempo, leggeva il dossier che Harby gli aveva passato.

    Questo giochetto durò almeno cinque minuti. Avevo capito che era una guerra di nervi. A chi cedeva prima.

    «È pronto! Domani mattina alle sette partiamo. Brandon, scegliete un’identità, prepara i documenti e tutto il resto. A te Mario, per questa volta ti affianchiamo io e lui. Cerca di imparare in fretta.»

    «Quindi devo solo osservare, non mi tocca sapere niente? Bah…»

    Mi trasformai in Joseph Harrys Jr: di famiglia benestante, ci eravamo trasferiti in Italia quando avevo dieci anni. A diciotto, da solo, ero rientrato in America per frequentare la Harvard University. Dopo la laurea ero tornato in Italia a seguire gli affari di famiglia, ma di lì a poco, a causa di problemi di salute di mio padre, avevamo deciso di rientrare in America.

    Alle sette in punto, Harby, Brandon e io… con il ‘mio’ jet privato, in meno di due ore giungemmo a destinazione. Altri venti minuti ed eravamo alla City Hall di Atlanta – Georgia.

    Il sindaco ci ricevette immediatamente.

    «Signor Crawbson, la ringrazio per essere venuto. Possiamo parlare in privato?»

    «Sindaco, loro sono i miei migliori collaboratori. Seguiranno di persona le indagini, quindi è meglio che si rivolga a loro. Io purtroppo, sono impegnato in un altro caso. Li ho solo accompagnati.»

    «Va bene. Come sa, mio cognato è il Senatore Bill Wallace. L’altro ieri gli hanno recapitato queste foto e questa lettera.»

    Ci mostrò una serie di foto in cui il senatore si intratteneva con due giovani donne, in un motel di periferia: mentre entravano nella stanza, mentre erano a letto e quando il Senatore andava via, solo.

    «Sindaco, noi non svolgiamo questo tipo di indagini…»

    Nello stesso momento, entrò Wallace sconvolto. Portò un giornale con la prima pagina interamente dedicata a lui. A sinistra la foto di una delle ragazze legata al letto, con varie ferite di arma da taglio e in un lago di sangue. Nella parte destra un primo piano del Senatore Wallace sorridente.

    Il titolo a tutta pagina: SENATORE: COS’HAI FATTO?

    Sconvolto si sedette sul divano:

    «Sono rovinato. Rovinato!»

    «Bill, calmati. Ora c’è Harby. Vedrai che sistemerà tutto lui.»

    Harby si alzò e andò a stringere la mano al Senatore, ma questi, con fare sgarbato:

    «Salti i convenevoli e cerchi di tirarmi fuori da questo pasticcio, fra non molto ci sono le elezioni!»

    «Ma Senatore…»

    «Basta parlare! Agisca e subito chiaro? Se no la mando a dirigere il traffico!»

    «Senatore, non le perm…» intervenni per mettere a tacere Harby…

    «Senatore si sieda! Noi siamo qui per aiutarla. Insultare e minacciare non serve a nulla.»

    «E questo ragazzino chi sarebbe?»

    «Quello che potrebbe salvarle il culo, Senatore. Ha ucciso lei quella ragazza?»

    «Ma come si permette! Lei sa chi sono io? Io la mando a chiedere l’elemosina!»

    «Senatore, zitto e si sieda. Ripeto la domanda, l’ha uccisa lei? Perché da come si comporta, ci fa pensare di sì. E allora non le serviamo noi, ma un avvocato, e con le palle!»

    Harby guardò sorridendo Brandon, mentre il Senatore si sedette e mettendosi le mani nei capelli esclamò:

    «Io sono innocente, lo giuro su Dio.»

    Mi sedetti accanto a lui. Lo guardai fisso negli occhi e vidi terrore, e non perché temesse per la sua carriera. No, lui stava realizzando che era davvero nei guai e rischiava grosso.

    «Okay. Ci può spiegare nei dettagli – magari non proprio tutti – com’è andata?»

    «Non c’è molto da dire. Ci siamo visti direttamente al motel alle dieci, ci siamo divertiti un paio d’ore, poi me ne sono andato. Loro sono rimaste.»

    «Si è rivolto a qualche agenzia o cosa?»

    «No, le ho conosciute a una cena.»

    «Immagino che avrà tanti nemici. Ci pensi, chi di loro potrebbe arrivare a tanto?»

    «Arrivare a tanto? ... non ho fatto nulla di così terribile da provocare una simile vendetta. Comunque preparo un elenco per stasera.»

    Nel frattempo ci arrivò copia del fascicolo, con le foto originali, non tagliate, dalle quali si evinceva data e ora, e i risultati dell’autopsia che stabilivano l’ora della morte fra le 14:00 e le 16:00.

    «Ha detto che si è trattenuto un paio d’ore giusto? Dopo dov’è andato? C’è qualcuno che può testimoniare di averla vista, o era con lei fra le quattordici e le sedici?»

    «Sono andato a casa a fare una doccia, poi sono stato nel mio studio. Alle quindici sono partito per Washington. A casa non c’era nessuno. Cazzo, e ora?»

    «Harby, guarda la foto. C’è l’ora, 12:17. L’ora del decesso è attendibile?»

    «Sì, al 90%»

    «Quindi hanno cambiato l’orario alla fotocamera, per far coincidere l’ora del decesso con l’orario in cui erano insieme. L’hanno studiata bene.»

    «Già, proprio bene.»

    «La ragazza è legata esattamente come quando era con lei? Era d’accordo con quel giochino? Ha tentato di opporsi in qualche maniera? Con cosa l’ha legata? Cerchi di ricordare tutto, nei minimi dettagli.»

    «Mah... mi sembra di sì, quel giochetto l’hanno proposta loro. L’amica l’ha legata con la mia cravatta. Ha fatto un po’ di scena, faceva parte del gioco, per renderlo più eccitante... Aspetta però. Ad un certo punto, l’ho voltata pancia sotto e, visto che precedentemente le avevo chiesto un rapporto anale, si è dimenata, credendo che volessi approfittare.»

    «Brandon, passami la lente d’ingrandimento. Vedi qui? Sembra ci siano dei segni di legatura. Ma è impossibile siano quelli del lenzuolo, si capisce da come sono stretti e poi sono dopo l’osso. Vedi se riescono a stabilire se sono precedenti.»

    «Certo. Vero, ora chiamo subito.»

    «Un’altra cosa Senatore. Lei ha un navigatore nell’auto?»

    «Sì, perché?»

    «Lo usa sempre?»

    «Quella mattina sì. Non sapevo dove fosse quel posto.»

    «Ci serve la sua auto. Brandon, un controllo sul GPS ci darà gli spostamenti, e così...»

    «Cavolo Ma... Joseph, complimenti. Senatore, se tutto va bene, entro domani lei sarà scagionato» esclamò soddisfatto Harby.

    Dopo aver verificato la veridicità delle affermazioni del Senatore, aver avuto i rapporti sui lividi ai polsi della vittima e la scansione del GPS dell’auto, portammo tutto all’avvocato di Wallace.

    La sera cenammo tutti e tre insieme e Harby aveva un’espressione raggiante. A un certo punto andai al bagno, avevo adocchiato una bella signora incavolata nera con il marito che, dopo una non proprio amichevole discussione, era andata a fumare una sigaretta nell’atrio del locale. Ne approfittarono per parlare di me.

    «Brandon, che ti dicevo sul suo conto? Ma, hai per caso anticipato l’addestramento?»

    «In che senso?»

    «Come condurre l’indagine, quali aspetti valutare, eccetera. La seconda fase, insomma.»

    «Non abbiamo finito la prima...»

    «Cavolo, allora è ancora più in gamba di quanto immaginassi. E come si comporta? Nel tempo libero cosa fa?»

    «Ma tu lo sapevi che è bisessuale?»

    «Sì. In Italia, proprio questo ci permise di portare a termine l’operazione. Lo feci andare a letto con quel politico che poi si suicidò, mentre noi prendevamo le prove.»

    «Hai un’abilità di girare le cose a tuo favore...»

    Tornai al tavolo deluso. La mogliettina non era abbastanza arrabbiata da ricambiare con la stessa moneta il marito.

    «Non è andata bene?» disse senza mezzi termini Harby. Brandon lo guardò, io annuii.

    Alla fine della cena, lui tornò a Washington, o almeno così ci disse, mentre noi andammo in albergo. Ci aveva dato un paio di giorni liberi, ma Brandon preferì tornare dalla famiglia. Io invece sarei rimasto a visitare la città – avevo avuto una dritta su un localino molto ben frequentato – dovevo pur iniziare ad ambientarmi nella nuova realtà!

    Alle dodici e mezzo uscii dal locale, deluso. Non era la serata adatta, di taxi nemmeno l’ombra, quindi non mi rimase che incamminarmi a piedi. All’altezza di un vicoletto, due palazzi dopo il locale, notai dei movimenti strani. Guardai meglio, erano due persone che scopavano, quindi proseguii. Ma appena passato il vicoletto, uno dei due evidentemente godette e si fece scappare qualche gemito. Mi bloccai, sembrava la voce di Harby. Volevo tornare indietro, poi pensai: Harby è già a casa, non è possibile sia lui, rischio di rovinare l’atmosfera a quei due. E me ne andai.

    La mattina alle sette, mi svegliò Brandon. Stava partendo.

    «Nottataccia... o nottatone?»

    «La prima che hai detto. Non riesco ancora a capire il metodo che si usa qui da voi.»

    «Allora ci vediamo a casa; ah, dovevo anche ricordarti del jet. Harby lo ha lasciato a noi.»

    «Lo riporti tu?»

    «No, tienilo tu, io vado in treno.»

    «E quando arrivi... riportalo tu, io non so neanche cosa fare una volta tornati a Philly. Così puoi stare di più con le monelle.»

    «E tu? Sai come muoverti per tornare?»

    «Non ti preoccupare. Dimentichi che sono stato un anno in Asia? E lì non conoscevo neanche la lingua. Poi in treno si fanno belle conoscenze...»

    «Okay, ma stai attento e soprattutto non ti buttare, meriti il meglio.»

    A metà mattina, andai in un bar poco distante credendo fosse un locale gay. Invece era un normalissimo bar, avevo confuso i nomi. Sconsolato, sorseggiai un caffè e stavo per andarmene, quando mi sentii afferrare per la spalla. Mi voltai, era l’avvocato che avevo aiutato a Philadelphia appena arrivato in America. M’invitò a sedere con lui e altre due persone che dopo cinque minuti ci salutarono. Mi offrì il pranzo.

    «Ma sai che non mi hai neanche detto il tuo nome?»

    «Joseph, Joseph Harrys Jr, io invece non ricordo il tuo, ho il bigliettino da qualche parte ma...»

    «Fa niente. Sten, Sten Cooper. Ma sei di qui?»

    «No, sono venuto per affari. Riparto domani.»

    A tavola chiacchierammo piacevolmente e, al conto, mi disse una frase che non riuscii a capire se fosse un invito, o era solamente per fare una battuta.

    «Certo che dovrei far pagare te! Dicevi che ti piacevo tanto... E non ricordi neanche il mio nome. Mi ritengo offeso.»

    Quindi prima che potessi abbozzare una risposta, pagò. Da due giorni, nonostante fosse fine aprile, c’era un tempaccio che neanche a gennaio!

    Ci avviammo a piedi, continuando a chiacchierare, era diretto all’aeroporto, quando ricevette un messaggio: A causa del maltempo, tutti i voli sono cancellati fino a domani pomeriggio.

    «Cavolo, questa non ci voleva proprio. E ora come faccio? Oggi inizia una grande fiera e gli alberghi sono tutti pieni.»

    Iniziò a contattare tutti gli alberghi della città, ma non trovò una stanza libera. Pensò di tornare in treno, ma anche lì difficoltà. Tutti avevano avuto la stessa idea.

    Sorridendo gli sussurrai: «A quanto so, le sale d’attesa degli aeroporti, sono molto confortevoli. Ma... potrei avere la soluzione, dipende tutto da te... ah, il letto è matrimoniale!»

    «Te l’ho già detto. Mi piace la fica!»

    «Io sono al Marriot Marquis, e la mia offerta è valida fino alle 18:00. Dopo troverò qualche altro ‘maschio’ che mi tenga compagnia. Ti saluto e grazie del pranzo.»

    Lo lasciai interdetto. Aspettò fermo che mi allontanassi, prima di riorganizzare le idee e darsi una mossa.

    Io continuai il tour per la città, ma ben presto il maltempo mi fece rientrare in albergo. Mi addormentai.

    Alle 19:00 mi chiamarono dalla reception, dicendomi che un certo Sten Cooper mi cercava.

    Mezzo addormentato non mi venne subito chi fosse, poi realizzai e dissi di farlo aspettare. Feci una rapida doccia e scesi da lui.

    «Eccomi qua. Dimmi, ti posso offrire qualcosa?»

    «Cavolo, non ho trovato nulla e c’è una bufera fuori. Senti, è ancora valida la tua proposta?»

    «E tu? ...Sei pronto a fare tutto a letto?»

    Rimase senza parole. Pensò: Come TUTTO? Ma aveva detto che cercava un maschio. Avevo progettato così bene... vado, a letto sicuramente non riuscirò... a quel punto, mica mi potrà cacciare via?

    «Allora?»

    «In che senso, tutto?»

    «Nel senso esatto del termine. Io avevo pensato che per farmi scaldare, potevi iniziare a leccarmi...»

    «No, ma io...»

    «E cosa credevi, che venivi... dicevi di non riuscirci e ti addormentavi? Mica sono nato ieri.»

    «Io? No, che vai a pensare...»

    Sorridendo, dissi al receptionist che, visto che non si trovava una camera libera in città, rimaneva come mio ospite, e di registrarlo.

    «Io sono al ristorante. Tu sistemati e poi mi raggiungi, okay?»

    Dopo cena e due chiacchiere, chiesi se volesse andare sopra. Lo vidi titubante.

    «Ma tu davvero credevi che ti potessi ricattare in questo modo? Ma con chi credi di avere a che fare? Questa è la seconda volta. Prima il portafoglio che pensavi ti avessi rubato io, ora questo. Ringrazia che davvero mi piaci, se no ti avrei mandato affanculo. Io vado a dormire!»

    Rimase ancora più turbato e comunque, dopo una decina di minuti, salì. Mi trovò a letto che leggevo. Andò in bagno a spogliarsi e si coricò.

    «Ti posso chiedere scusa?»

    «Dormi, non ti preoccupare.» Chiusi il libro e spensi la luce.

    Dopo un paio d’ore, pensando dormisse, mi alzai per andare al bagno. Al ritorno, mi fece sobbalzare.

    «Ma sei nudo!» Esclamò.

    «Cazzo, ma sei scemo? Mi stavi facendo venire un colpo. Sì, sono nudo, io dormo sempre nudo. Se ti dà fastidio, mi metto qualcosa.» E feci per aprire la valigia, girandomi di schiena. Accese la luce…

    «Però, hai un bel didietro.»

    «Non sfottere, dormi…»

    Quando mi coricai, prendendomi alla sprovvista, mi prese la mano e se la poggiò sulla patta.

    «Giuro che non avrei mai immaginato di eccitarmi con un uomo.»

    Riuscimmo a dormire si e no un’ora.

    A colazione mi arrivò una telefonata da Brandon. Dopo il maltempo, a Philadelphia era in atto uno sciopero di non so che personale alla stazione. L’aeroporto aveva riaperto, ma con i ritardi accumulati, non si riusciva a partire prima di un giorno.

    «Devi tornare al più presto, ti ho mandato il jet. Fra mezz’ora è lì.»

    «Sembri preoccupato. Tutto bene?»

    «Non ne ho idea, ma Harby ha detto di farti rientrare.»

    «Vedi che siamo in due. Dò un passaggio a un amico.»

    «Hai capito… il tuo primo amico americano? Me lo devi presentare.»

    Quando salimmo sul ‘mio’ jet, Sten si meravigliò:

    «Vanno bene gli affari, vedo. A proposito, non mi hai detto di che ti occupi.»

    «Ssshh! Top secret. Se te lo dicessi, poi dovrei ammazzarti.»

    Qualche attimo di silenzio, poi al mio occhiolino, rise, indicandomi con l’indice, come a dire… me la stavi facendo. Io tirai un sospiro di sollievo. Se non vuoi far sapere una cosa, dì la verità, paga sempre.

    Atterrati, una volta che Brandon lo vide e glielo presentai, disse tutto soddisfatto:

    «Sì, hai buon gusto. Bravo.»

    Sten lo guardò, poi guardò me come a dire, ma questo chi è? Gli demmo un passaggio fino in centro e ci salutammo.

    «Chiamami presto, devo ancora capire bene un paio di cose della lezione.»

    «Avvocato eh? Bell’uomo, mi raccomando però, non dire nulla di cosa realmente fai.»

    «Ehm, veramente ho detto la verità. Non mi ha creduto.»

    «Visto che abbiamo ancora un paio di minuti… è bravo?»

    «Può migliorare, per lui era la prima volta con un uomo. Ma m’impegnerò, mi piace.»

    Esattamente dopo un minuto, arrivò la chiamata di Spencer, un collega di Brandon. Appuntamento al PPD Center City District.

    Quando entrammo, Harby discuteva animatamente con il detective capo Filler. Quando ci vide, ci fece cenno di raggiungerlo.

    «Filler, loro sono i miei migliori uomini. Da questo momento seguono l’indagine. Dagli tutto il supporto possibile. Io devo andare. Brandon, risolvete subito, Wallace è di nuovo nei guai. Vado a vedere che succede.»

    «Non poteva rimanere Jo’?»

    «No serve qui. È l’unico che ha l’esperienza per riuscire a…»

    «Crawbson, abbiamo qualcosa»

    Richiamò la nostra attenzione un altro agente. Ci riunimmo io, Filler, Brandon e un altro detective, che ci ragguagliò.

    «Ci dovete dire tutto dal principio. Non sappiamo nulla.»

    «È una faccenda delicata.

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