Due anni dopo
Di Laura Elliot
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Info su questo ebook
Un nuovo grande thriller dall'autrice del bestseller Non parlare con gli sconosciuti
Una sera, al tramonto, l’auto di Amelia Madison finisce in mare, davanti a Mason’s Pier. Il suo corpo non verrà mai ritrovato. Due anni dopo, Elena Langdon incontra Nicholas Madison. Lei sta soffrendo per la perdita della madre, lui per quella della moglie. Nel dolore si fanno forza l’un l’altra.
Ora Elena vive felicemente con Nicholas, ma in realtà non lo conosce, di lui sa poco o niente. Non sa di cosa è capace, e non sa cosa sia davvero successo ad Amelia quella fatidica sera.
Fino al giorno in cui trova un frammento di una lettera strappata: le parole che legge la raggelano. Se vuole salvarsi, Elena deve assolutamente trovare chi l’ha scritta…
Arriva dai primi posti delle classifiche irlandesi il bestseller dell’anno
Un romanzo mozzafiato sul lato oscuro dell’amore, che vi terrà avvinti fino al drammatico finale
«Wow! Uno dei libri migliori dell’anno!»
«Che romanzo! Se quest’anno avete intenzione di leggere un solo thriller, assicuratevi che sia Due anni dopo. È così reale, così potente.»
«Adoro la scrittura di Laura Elliot: ti porta su un ottovolante di emozioni.»
Laura Elliot
È lo pseudonimo con cui June Considine, giornalista e scrittrice di libri per bambini, firma i suoi libri per adulti. È nata a Dublino, e vive a Malahide, una città costiera sul lato nord dell’Irlanda. Ha all’attivo romanzi di grande successo. La Newton Compton ha pubblicato Non parlare con gli sconosciuti, Colpevole e Due anni dopo.
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Anteprima del libro
Due anni dopo - Laura Elliot
Indice
Prologo
PARTE PRIMA
Capitolo uno
Capitolo due
Capitolo tre
Capitolo quattro
Capitolo cinque
Capitolo sei
Capitolo sette
Capitolo otto
Capitolo nove
Capitolo dieci
Capitolo undici
Capitolo dodici
Capitolo tredici
Capitolo quattordici
Capitolo quindici
Capitolo sedici
Capitolo diciassette
Capitolo diciotto
Capitolo diciannove
PARTE SECONDA
Capitolo venti
Capitolo ventuno
Capitolo ventidue
Capitolo ventitré
Capitolo ventiquattro
Capitolo venticinque
Capitolo ventisei
Capitolo ventisette
Capitolo ventotto
Capitolo ventinove
Capitolo trenta
Capitolo trentuno
Capitolo trentadue
PARTE TERZA
Capitolo trentatré
Capitolo trentaquattro
Capitolo trentacinque
Capitolo trentasei
Capitolo trentasette
Capitolo trentotto
Capitolo trentanove
Capitolo quaranta
Capitolo quarantuno
Capitolo quarantadue
Capitolo quarantatré
Capitolo quarantaquattro
Capitolo quarantacinque
Capitolo quarantasei
Capitolo quarantasette
Capitolo quarantotto
Capitolo quarantanove
Capitolo cinquanta
Capitolo cinquantuno
Capitolo cinquantadue
Capitolo cinquantatré
Capitolo cinquantaquattro
Capitolo cinquantacinque
Capitolo cinquantasei
Capitolo cinquantasette
Capitolo cinquantotto
Capitolo cinquantanove
Capitolo sessanta
Capitolo sessantuno
Capitolo sessantadue
Epilogo
Una nota per i miei lettori
Ringraziamenti
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Della stessa autrice:
Non parlare con gli sconosciuti
Colpevole
Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,
le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto
dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,
memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e
tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore
Titolo originale: The Wife Before Me
Copyright © Laura Elliot, 2018
Laura Elliot has asserted her right to be identified
as the author of this work
All rights reserved
First published in Great Britain in 2018
by Storyfire Ltd trading as Bookouture
Traduzione dalla lingua inglese di Laura Miccoli
Prima edizione ebook: luglio 2021
© 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma
Copertina © Sebastiano Barcaroli
ISBN 978-88-227-5950-4
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma
Laura Elliot
Due anni dopo
OMINO.jpgNewton Compton editori
Due anni dopo è dedicato alla mia amica
Maureen McKeown: il suo coraggio, la sua giovialità,
il suo talento e la sua tenacia sono di enorme ispirazione per tutti coloro che la conoscono e la amano.
Prologo
Amelia Madison guidava lentamente giù per il pendio scosceso che conduceva a Mason’s Pier. La strada era poco più che una crepa scolpita lungo il fianco della scogliera, l’asfalto reso scivoloso dalla pioggia appena caduta e da un manto di alghe putride. Quando sterzava in curva Amelia evitava di guardare giù verso gli scogli, sapendo che altrimenti la paura, in equilibrio così precario con la determinazione, avrebbe avuto la meglio ancora una volta.
In fondo alla strada svoltò a sinistra e superò la sbarra fatiscente di un parcheggio vuoto. L’insenatura a mezza luna alle sue spalle era deserta, proprio come aveva previsto. Negli anni, grazie alla protezione della scogliera, la spiaggia era diventata una località molto in voga tra chi desiderava prendere il sole, anche se esposta costantemente al rischio della caduta di massi per l’erosione. Gli sforzi del consiglio locale, che aveva tentato di contenere il pericolo con una rete d’acciaio, non avevano fatto altro che accentuare la desolazione del paesaggio, e sotto quell’aura di abbandono giaceva il cupo ricordo di un tragico annegamento avvenuto lì alcuni anni prima.
Negli incubi di Amelia, la baia rappresentava l’origine del terrore. Da vicino, era più piccola e più insignificante di quanto ricordasse. Lo scalo non era più in uso e il pontile, dove un tempo i pescatori locali lanciavano l’esca, era caduto in disgrazia. Sferzato dalle onde e butterato di buche, il molo di Mason’s Pier si protendeva sull’Atlantico come una proboscide grigia e abbandonata.
Non esitò e proseguì spedita sulla superficie sconnessa. Non guardò neppure indietro verso l’insenatura dove una volta aveva costruito un enorme castello di sabbia insieme a suo padre. L’aveva aiutato a inondare il fossato realizzando un canale collegato all’oceano, aveva raccolto conchiglie e piume bianche per decorare le torrette. Aveva rincorso un pallone da spiaggia… No, non voleva ripensare a quel giorno. Non ora che la mente era decisa ad andare in un’unica direzione.
Avvicinandosi alla pendenza dello scalo, rallentò. All’inizio, nel tirare il freno a mano, era sicura che le ruote si sarebbero fermate; ma poi percepì un lieve slittamento in avanti, talmente impercettibile che le parve di averlo solo immaginato. Era un avvertimento, lo sapeva, il segnale che nel giro di qualche minuto l’auto sarebbe scivolata sulla poltiglia di muschio e alghe e non sarebbe più stato possibile arrestarla.
I gabbiani tridattili gridavano mentre si tuffavano in picchiata giù per la scogliera e un cormorano, dritto in piedi su una roccia nelle vicinanze, osservava impassibile gli pneumatici di Amelia che iniziavano a girare. Era arrivata, quindi. La fine del matrimonio che un tempo aveva accolto a braccia aperte con tanta impazienza, con tanta speranza. Il sole al tramonto forava il parabrezza. Era abbagliata dal suo splendore, ma doveva continuare a guardare oltre, verso un nuovo orizzonte.
Il cormorano sbatté le palpebre su due occhi verde scuro e spalancò le ali a croce mentre l’auto slittava, lenta e inesorabile, verso l’estremità del molo.
L’oceano ruggì.
PARTE PRIMA
Capitolo uno
Il presente
L’ombrello rosso di Elena appare frivolo ed esile in mezzo ai robusti ombrelli neri intorno a lei. Offre ben poco riparo contro la pioggia e il vento che soffia tra le lapidi minacciando di ribaltarlo sottosopra. Le spine della rosa bianca che stringe in mano le affondano nella pelle mentre padre Collins solleva l’aspersorio per benedire con l’acqua santa la bara di sua madre. Alcuni uomini con indosso dei jeans cadenti, rimasti ad aspettare con discrezione sullo sfondo, fanno un passo avanti portando delle funi per calare Isabelle Langdon nella terra. Elena è sopraffatta dal dolore eppure, nel bel mezzo di quell’ultimo rito d’addio, il suo sguardo è attirato da un uomo di fronte a lei. La sta osservando, e in quello scambio silenzioso la compassione di lui si allunga come una linea della vita oltre la tomba aperta.
Poco prima, fuori dalla chiesa, si è presentato. «Sono Nicholas Madison», ha detto mentre le stringeva la mano. «Sono qui per conto di Peter Harris. Mi ha chiesto di porgerle le sue più sentite condoglianze e di farle le sue scuse per essere stato trattenuto a New York da cause di forza maggiore».
Aveva già sentito quel nome. Nicholas Madison… Nicholas Madison… Eppure non le era venuto in mente niente, si era limitata a ringraziarlo mentre lui si spostava educatamente per lasciare il posto alla donna che aspettava alle sue spalle, in fila per fare le condoglianze a Elena.
L’ha dimenticato all’istante. Sbiadito fra le tante persone in lutto che lasciavano la chiesa mentre la bara di sua madre veniva caricata sul carro funebre.
Adesso però Elena si rende conto di non averlo rimosso del tutto. Il suo viso abbronzato e spigoloso è in netto contrasto con la carnagione grigiastra dei presenti accalcati intorno a lui, con le labbra arricciate per il freddo. Le sue, invece, sono piene ma non carnose, la bocca lievemente aperta, come se stesse per rivolgerle parole di conforto. Gli occhi, di colore grigio scuro e con le ciglia lunghe – Elena ricorda questi dettagli dal loro incontro in chiesa – hanno una tale intensità che le è impossibile distogliere lo sguardo. Ha intravisto molta commozione sui volti di chi le ha mostrato conforto da quando Isabelle è morta, ma nell’espressione di Nicholas Madison riconosce un’empatia che va al di là della compassione. Invece di condividere questo ultimo momento con sua madre, gli sorride. Un sorriso da pagliaccio, grottesco per quanto appare fasullo. Perché l’ha fatto? Meglio che mostrarsi disperata, suppone. Quel pianto sommesso di chi è consapevole di tutte le opportunità perse, le promesse infrante, le scuse che ormai è tardi per porgere.
Inciampando su preghiere che un tempo le erano familiari, Elena distoglie lo sguardo. Osserva la rosa bianca rimbalzare e depositarsi sulla bara. I becchini appoggiano un’asse coperta di prato artificiale sulla buca e vi depongono sopra la ghirlanda di rose bianche. Non ci sono altri fiori, come richiesto sul necrologio. Elena ha invitato chi desiderava onorare la memoria di Isabelle a fare una donazione all’Associazione Irlandese per la Ricerca sul Cancro, augurandosi che venga trovata al più presto una cura per prevenire la malattia che le ha portato via sua madre in modo così spietato.
Il funerale è finito. Padre Collins le stringe la mano e se ne va. Gli amici la circondano. Tara ha preso il primo volo da Londra non appena l’ha saputo, Killian e Susie sono venuti in auto da Galway. Quando Elena è atterrata a Dublino, li ha trovati tutti e tre ad accoglierla all’aeroporto.
Sono rimasti a dormire insieme a lei a Brookside, nel villino che Isabelle aveva comprato dopo che Elena si è trasferita in Australia. Non sono parenti di sangue ma per lei, figlia unica, sono come la sua famiglia nel senso migliore del termine.
«Stai bene?». Susie la soffoca in un abbraccio umido e le scompiglia i capelli.
«Sto bene… davvero». Elena li ha avvertiti di controllarsi, di non sciogliersi in manifestazioni emotive che potrebbero innescare l’ennesimo fiume di lacrime.
Tara legge l’iscrizione sulla lapide di granito ed esclama: «O mio Dio, Elena! Non mi ero mai resa conto che tuo padre avesse solo trentuno anni quando è morto. Era così giovane».
«Troppo giovane», concorda Elena. La mente si annebbia, come fa sempre quando pensa al padre e al silenzio che riempiva la casa dopo la sua morte. La pioggia non fa che intensificare il grigiore di quel cimitero desolato, dove un tempo veniva in visita ogni domenica insieme a Isabelle, finché all’età di quindici anni non aveva avuto la classica crisi adolescenziale. «Sono stufa del cimitero», aveva gridato in faccia a Isabelle. «Lascialo andare». Ricordi scomodi agitano il suo senso di colpa, ma ora Nicholas Madison sta venendo verso di lei. L’improvvisa consapevolezza della sua vicinanza la sorprende, insieme al fatto che spera che le parli di nuovo. L’ombrello rosso freme in un ultimo gesto di sfida prima che le stecche si spezzino e si rovesci all’indietro. L’uomo glielo toglie di mano e lo chiude per poi restituirglielo e ripararla sotto il proprio ombrello.
«È stata una cerimonia degna di Isabelle», commenta mentre si voltano verso la lapide. «Dignitosa e sobria, proprio come avrebbe voluto lei». Elena si accorge che sul cappotto di cashmere dell’uomo iniziano a scivolare gocce di pioggia, come rugiada, e le sue scarpe a punta sprofondano nel fango. Avverte un vago senso di responsabilità per avergli rovinato la lucidatura impeccabile.
«Conosceva bene mia madre?», gli domanda.
«Solo per lavoro», ribatte. «Isabelle era una persona molto riservata. Ha fatto davvero un bel discorso. Tutti i presenti hanno sentito quanto lei la amasse».
«È morta prima che avessimo l’opportunità di dirci addio». Le trema la voce. Ancora le sembra assurdo parlare di Isabelle al passato. «Fino all’ultimo non mi sono resa conto… Sarei tornata a casa se…». Si interrompe, incapace di continuare.
«Come poteva sapere che sarebbe morta così in fretta?». Le stringe il gomito quando lei inciampa sulle zolle umide di argilla. «Non deve aggiungere la colpa al dolore. È l’ultima cosa che lei vorrebbe».
Si incamminano verso la limousine che accompagnerà lei e gli amici alla veglia funebre. Non servono parole per riempire il silenzio che cala fra i due. Il nodo che le stringe il petto si allenta per la prima volta da quando ha scoperto che sua madre stava morendo.
«Ci raggiunge per pranzo all’hotel?», gli domanda quando arrivano al parcheggio.
«Sfortunatamente, ho un appuntamento di lavoro», risponde lui. «È stato un piacere incontrarla, Elena. Ancora una volta, le mie più sentite condoglianze». Si aspetta quasi che l’uomo si inchini e le baci il dorso della mano. Ha quel non so che, quella formalità d’altri tempi, come se i suoi genitori gli avessero inculcato l’importanza delle buone maniere. Sempre la parola giusta per l’occasione giusta. «Vuole che glielo butti via?». Indica con un cenno del capo l’ombrello rotto e con il dito un bidone della spazzatura.
«Grazie». Gli porge i resti sgangherati dell’ombrello e sale a bordo della limousine, dove gli amici la stanno aspettando.
Tara stringe le mani gelide di Elena e le strofina tra le sue. «Chi è quel tizio?». Indica Nicholas, che sta camminando verso una Porsche argentata.
«Lavorava con mia madre», risponde Elena.
«Viene anche lui all’hotel?»
«Temo di no».
«Che peccato. Sembrava abbastanza preso da te».
«Non essere ridicola. È solo stato gentile».
«Mmm…». Tara sorride. «Ci sono diversi modi per essere gentili, sai».
«Oh, smettila. L’unica ragione per cui è qui è che il capo di mia madre non poteva disturbarsi a prendere un volo da New York per tempo». Elena parla in tono amareggiato. Sospetta che il vero motivo dell’assenza di Peter Harris non abbia nulla a che fare con la KHM Investments e molto a che vedere con il piacere. Dopo aver lavorato per vent’anni come sua assistente personale, c’era ben poco che Isabelle non sapesse della vita privata dell’uomo. Se fosse stata ancora lì, probabilmente avrebbe alzato gli occhi al cielo esclamando: «Tipico! Cos’altro potevo aspettarmi da lui». Niente più bugie alla moglie, aveva pensato Elena. In tutti quegli anni Isabelle era stata costretta a inventare scuse per lui e per quel motivo in più di un’occasione aveva minacciato di lasciare l’azienda.
«Bella macchina». Tara allunga il collo per avere una visuale migliore di Nicholas che sale a bordo della Porsche. «Come si chiama?»
«Nicholas Madison». Le sillabe si arrotolano con facilità sulla lingua di Elena. Ancora una volta, sente riaffiorare un ricordo e Killian, tutto assorto ad ammirare la Porsche, si volta di scatto verso di lei con le sopracciglia arricciate.
«Nicholas Madison?», domanda.
«Sì. Lo conosci?».
L’amico lancia un’occhiata a Susie. «Tu che ne dici?».
Susie controlla dal finestrino mentre Nicholas, voltato di profilo, si sistema dietro il volante. «Sì». Annuisce. «Lavorava nel campo della finanza. Dev’essere lui».
L’auto di Nicholas è ancora ferma nella coda di macchine che escono dal cimitero.
«La moglie è affogata», commenta Killian. «All’epoca fece molto scalpore».
«O mio Dio!». Tara sembra scioccata quanto Elena. «Com’è successo?»
«Era parcheggiata sul molo di Mason’s Pier», risponde Susie. «È un vecchio pontile vicino a dove viviamo. Nessuno lo usa più, c’è anche un cartello di pericolo. L’auto scivolò in acqua. È un tratto di costa davvero pericoloso, il mare lì è abbastanza profondo anche con la bassa marea».
«Ci chiamarono per cercare il corpo», aggiunge Killian. «Tutte le barche del circondario presero parte alle operazioni, ma alla fine fummo costretti a rinunciare».
«Non che lui si sia mai arreso». Susie si arrotola delle ciocche di capelli castani intorno all’indice, un’abitudine infantile a cui ancora ricorre quando è turbata. «Era convinto che l’avrebbe trovata e continuava a prolungare le ricerche di giorno in giorno. La moglie era riuscita a tirarsi fuori dall’auto ma non sapeva nuotare. Nessuno si accorse dell’incidente fino all’indomani, quando un uomo che portava a spasso il cane notò i segni di slittamento sullo scalo».
«Oddio», esclama Elena, portandosi la mano alla bocca. «Me lo ricordo. Mi sembrava che fosse un nome familiare». Non c’è da stupirsi che abbia trovato il suo sguardo così attraente. Era riuscito a nascondere le emozioni nel corso di un educato scambio di parole, ma non era stato in grado di controllare gli occhi. In essi, Elena aveva riconosciuto la brutalità della perdita. Una nostalgia che aveva visto così spesso negli occhi di Isabelle ogni volta che sentiva una canzone che le ricordava il giovane marito, o che si imbatteva in vecchie fotografie, di loro due abbracciati, tutti allegri e sorridenti. «Isabelle mi telefonò e mi raccontò della moglie appena dopo l’accaduto. Non avevo collegato che fosse lui. Non c’è da stupirsi che abbia un’aria così triste».
Come se sapesse che stanno parlando di lui, Nicholas lancia un’occhiata in direzione della limousine e si accorge che lo stanno fissando. Elena sprofonda nel sedile e si volta verso Tara, che le sta ancora stringendo la mano. «Sa che stiamo parlando di lui».
«E allora?», ribatte Tara. «Con quella faccia e quella storia, dev’esserci abituato».
Nicholas parte e mette la freccia verso sinistra in direzione della città. L’autista della limousine svolta a destra e poco dopo raggiungono l’hotel dove è stata organizzata la veglia funebre.
Il pomeriggio scorre in un lampo. L’atmosfera si alleggerisce quando vengono serviti cibo e vino. Il livello del rumore aumenta. Le vecchie amiche di Isabelle raccontano storie delle sue imprese giovanili quando ancora era nubile. Storie così scandalose che Elena si domanda se quelle cinquantenni in forma con i capelli ossigenati stiano partecipando alla veglia funebre giusta. Feste che duravano tutta la notte, serate in discoteca a Leeson Street, concerti rock e vacanze pazze a Ibiza: le sembra impossibile conciliare la personalità riservata di sua madre con quelle descrizioni così vivide e realizza che la sua percezione di Isabelle si è formata negli anni successivi alla morte del padre.
Le amiche di Isabelle ricordano che da bambina Elena aveva un’aureola di riccioli come quella dell’orfanella Annie. Ora ha i capelli castano scuro, i riccioli indomabili piastrati da Tara la mattina prima di uscire. La riempiono di complimenti vedendo che è diventata una giovane donna così elegante, così adorabile. Sopraffatta dai loro profumi e dai loro ricordi, Elena le ringrazia e si domanda cosa pensino di lei in realtà.
Riesci a crederci? La figlia addolorata… Non si è nemmeno disturbata a tornare a casa in tempo per prendersi cura della madre. È inutile che finga di non essere stata informata di quanto fosse grave il tumore al collo dell’utero. Appena saputo doveva fare le valigie e correre a fare il suo dovere.
Se davvero lo pensano, lei non può saperlo. Rosemary Williams, avvocato del lavoro presso la KHM Investments, la abbraccia prima di andare via. È stata l’unica persona con cui Isabelle aveva stretto amicizia alla KHM. Ha rivelato lei a Elena la gravità delle condizioni della madre. Prendono un appuntamento per incontrarsi nell’ufficio di Rosemary per la lettura del testamento di Isabelle. Appena va via lei, inizia uno spostamento generale verso l’uscita. Scambi di baci e strette di mano, insieme a promesse di restare in contatto.
La stanchezza arriva il giorno dopo, quando gli amici di Elena ripartono. La sera va a letto e si rannicchia sotto le coperte, convinta che dormirà fino a tardi. Ore dopo è ancora sveglia, mentre la mente vortica da un ricordo doloroso all’altro. Piange per Isabelle, per Zac, per la minuscola vita che avevano creato e che ha portato in grembo per così poco tempo. Una vita che non avrà mai nome né sesso, dita che si erano a malapena formate prima di scivolare via così dolorosamente. Una trilogia di dolori. Elena ha l’imbarazzo della scelta, incerta su chi dei tre dovrebbe rimpiangere di più.
Capitolo due
Alzarsi ogni mattina, dopo l’ennesima notte di sonno agitato, è la decisione più importante che Elena sia in grado di prendere. Nella camera da letto di Isabelle, l’armadio è ancora stipato dei suoi vestiti. Le sue scarpe restano impilate nelle scarpiere. I vicini continuano a suonare alla porta, e lei a non aprire, sopraffatta da una spossatezza opprimente. I piatti si ammucchiano nello sgocciolatoio, la polvere si accumula sui mobili. Ordina la pizza ogni sera e si costringe a mangiarla, buttandola giù insieme alla birra. I cartoni vuoti e le bottiglie ricoprono il pavimento mentre riemergono ricordi carichi di sensi di colpa che non sapeva nemmeno di avere represso.
«Era così giovane», ha detto Tara al cimitero quando ha letto le date di nascita e di morte di Joseph Langdon. Elena si accorge di non aver mai pensato al padre come a un uomo giovane. Non l’ha mai compianto, almeno non come si deve. A cinque anni, che ne sapeva lei del lutto? O della rabbia che avrebbe dovuto provare nei confronti dell’ubriaco al volante che era passato con il rosso e aveva ucciso suo padre sul colpo?
Era alto ed esuberante, ricorda adesso. Una risata chiassosa e una voce profonda, che la faceva addormentare con le favole della buonanotte; eppure, la sua giovinezza non è mai emersa in quei ricordi. Con il passare degli anni, mentre Elena cresceva nel silenzio che l’assenza di suo padre aveva lasciato in casa, iniziò a non tollerare più la sofferenza che adombrava lo sguardo di Isabelle e che aveva segnato prematuramente il suo viso. Le domeniche pomeriggio, nel pieno della sua fase di ribellione, Elena avrebbe voluto sbraitare contro sua madre che la guardava con silente disapprovazione mentre si preparava per andare al cimitero. Perché non c’era un limite al lutto? Un punto oltre il quale non si provava più alcun dolore, si domandava con gli auricolari infilati nelle orecchie, mentre i My Chemical Romance davano voce alla sua collera. Adesso, Isabelle e Joseph Langdon sono di nuovo insieme; soltanto uno strato di fango e pietra separa le loro bare… eppure questo pensiero non allevia il dolore.
Una telefonata di Rosemary Williams le ricorda l’appuntamento alla KHM Investments. Si trascina in bagno a forza per farsi una doccia e lavarsi i capelli. Il testamento di Isabelle è un atto semplice, che Rosemary ha curato per fare un favore a un’amica. Niente a che vedere con gli intricati contratti che si trova a gestire ogni giorno. Tuttavia, quando accoglie Elena alla reception, non dà a vedere in alcun modo che per lei sia meno importante. Salgono in ascensore fino all’ottavo piano ed entrano nel suo ufficio con le pareti di vetro.
«Stai mangiando?», le domanda quando Elena si accomoda di fronte a lei.
«Sì, magari ogni tanto salto un pasto», la rassicura Elena. «Sono così occupata a smistare i vestiti e le cose di Isabelle…». Si schiarisce la gola e si impone di non piangere.
«È un momento difficile, Elena, e diventerà ancora più dura prima di migliorare», la avverte Rosemary. «Hai qualcuno che ti aspetta in Australia…».
«No». Elena scuote la testa con veemenza. «Ma, sul serio, starò bene».
«Assomigli così tanto a Isabelle. Così stoica».
Rosemary apre una cartellina e tira fuori i documenti che appoggia sulla scrivania. «Non c’è niente di male nel piangere quando hai voglia di farlo. So che sei ancora sotto shock. Mi dispiace così tanto di averti dovuto dare notizie così terribili per telefono».
«Non scusarti, Rosemary. Che altro potevi fare?».
Elena ha creduto che si trattasse di uno scherzo di pessimo gusto, quella mattina che ha risposto al telefono, all’alba, sforzandosi di comprendere cosa le stava dicendo Rosemary. Eppure non era uno scherzo, ma la sconcertante scoperta che sua madre era stata portata d’urgenza in ospedale dopo una forte reazione alla chemioterapia.
«Quale chemioterapia?», aveva domandato Elena. «Non mi ha mai detto di aver cominciato la chemio».
«Non sapevi che era in cura?». Rosemary era stata incapace di nascondere la sorpresa. «Aveva detto che lo sapevi. Ho dato per scontato che fosse per questo che avevi programmato di tornare a casa».
«Mi aveva detto che l’esame era negativo». Elena aveva allungato una mano sul letto verso lo spazio vuoto dove avrebbe dovuto essere disteso Zac. «Quanto è grave?».
Rosemary aveva esitato e in quella breve pausa Elena aveva capito che sua madre l’aveva ingannata per mesi. Piccole cose che l’avevano lasciata perplessa ora iniziavano ad avere senso. L’entusiasmo forzato di Isabelle quando Elena le aveva domandato l’esito del pap-test. La decisione di prendersi un congedo al lavoro dovuta, a quanto aveva detto, a un esaurimento. Le scuse che aveva accampato per non parlare con lei su Skype, adducendo qualche imprecisato problema di connessione che a quanto pareva non faceva mai sistemare. Le risposte evasive ogni volta che Elena le chiedeva quando sarebbe andata a trovarla in Australia, tergiversando per settimane sull’acquisto del biglietto. Le lacrime che aveva versato quando Elena le aveva detto che, invece, sarebbe tornata a casa lei. Lacrime di sollievo, ovviamente, ma Elena era stata troppo presa dai suoi problemi per accorgersene. E poi quell’ultima conversazione al telefono quando era stata Elena, e non Isabelle, a piangere mentre le confessava tutto quello che aveva passato, e prometteva di riprogrammare il viaggio non appena le fosse stato possibile prendere l’aereo.
«Non riuscivo a capire perché avessi cancellato il volo», aveva detto Rosemary. «Volevo contattarti per spiegarti quanto fosse grave Isabelle, ma lei insisteva nel voler mantenere il segreto. Devi tornare a casa subito. Sbrigati, Elena. Ha bisogno di te».
Aveva prenotato un volo in mattinata e stava facendo le valigie per andare in aeroporto quando Rosemary l’aveva richiamata. Non appena aveva aperto bocca, Elena aveva capito che era troppo tardi per dire addio a sua madre.
Come aveva fatto a non accorgersi che c’era qualcosa che non andava? A non leggere fra le righe delle e-mail gioiose di Isabelle? Quel legame speciale madre-figlia che rendeva inutili le parole tra loro non aveva suonato nessun campanello d’allarme? Ora che è troppo tardi per fare ammenda, Elena rimane sbalordita nello scoprire quanto ha ereditato.
Brookside, il villino di Isabelle sul quale non grava alcun mutuo, insieme a tutti i risparmi e agli investimenti che aveva fatto attraverso la KHM, ora appartengono a lei. Elena, a soli venticinque anni, è diventata ricca. Potrebbe tornare a Brisbane e acquistare una casa sulla spiaggia. Potrebbe lasciare quel noioso lavoro da apprendista responsabile vendite e avviare un’attività tutta sua. Un centro di bodyboard e surf, gite in barca sulla barriera corallina, una boutique specializzata in abbigliamento da spiaggia esclusivo. Tutti questi pensieri sparsi provocano in lei una sensazione di spossatezza piuttosto che di euforia.
Abbassa lo sguardo sul fiume Liffey che scorre tra le aree portuali rimesse a nuovo. Dublino cambia di continuo. È mancata solo per tre anni, eppure si sente una straniera in città.
Firmati i documenti, sta per uscire dall’ufficio di Rosemary quando la porta si apre.
«Scusa, Rosemary, non mi ero accorto che fossi occupata». Elena lo riconosce all’istante dalla voce. Quello sguardo da sopra la tomba… perfino al culmine della sofferenza, era stata incapace di dimenticarlo. Quando si volta, Nicholas Madison sta esitando sulla soglia. «Niente di importante», aggiunge. «Posso ripassare…». Si interrompe quando la riconosce.
«Elena». Entra, tendendo la mano. «Come sta?»
«Me la cavo, grazie». È una risposta sfuggente che l’uomo accetta con un sorriso. Sicuramente comprende che i banali gesti di educazione costituiscono l’unico modo per schivare domande senza risposta.
«Sono contento di sentirlo». Rivolge un cenno in direzione di Rosemary. «Scusate l’interruzione. Quando è un buon momento per ripassare?»
«Sarò libera dopo le quattro», risponde Rosemary. «Lasciami il documento, così gli dò un’occhiata prima».
La stanza sembra più vuota quando l’uomo chiude la porta dietro di sé. È come se una scintilla si fosse estinta, il che è ridicolo; eppure, il rossore che tinge le guance di Rosemary suggerisce che persino lei sia scossa.
«Ti chiamo presto per andare a pranzo insieme», le dice alla fine dell’incontro. «Hai un sacco di cose da assimilare, e decisioni da prendere. Ti aiuterò in ogni modo. Non ho molti amici, e Isabelle era una persona davvero speciale per me. Non dimenticherò mai il sostegno che mi ha dato quando è morto mio marito. Voglio fare lo stesso per te. Chiamami ogni volta che hai voglia di parlare, hai capito?»
«Grazie». Si metterà a piangere se non si allontana in fretta dalla gentilezza di Rosemary.
Accorgendosi del suo turbamento, l’avvocato si affretta ad accompagnarla all’ascensore e attende che Elena entri prima di voltarsi.
Nicholas Madison è in piedi accanto al banco della reception, intento a parlare con un altro uomo, quanto Elena esce dall’ascensore. Cammina a passo svelto. È passato troppo poco tempo dopo Zac per provare emozioni così confuse e potenti nei confronti di un uomo che conosce a malapena, eppure desidera che lui si volti e la noti. Le porte automatiche di vetro si aprono e sta per uscire quando l’uomo la chiama per nome.
«Mi scuso per essermi intromesso nel suo incontro con Rosemary», le dice non appena la raggiunge. «Se avessi saputo che aveva un appuntamento con lei oggi avrei organizzato un pranzo. So che Peter Harris è ansioso di vederla e di porgerle le sue condoglianze di persona. Sfortunatamente, al momento è all’estero, ma…».
«Non c’è bisogno di scusarsi. L’incontro stava per finire». Rimane in piedi di fronte a lui, imbarazzata sotto il suo sguardo, così intenso e minuzioso che la fa sentire come se tutte le sue attenzioni fossero focalizzate su di lei. «Non è necessario organizzare un pranzo».
«Allora un caffè, magari?». Dà un’occhiata all’orologio. Polsini di un bianco impeccabile, nota Elena, come tutto il resto di lui. L’abito gli calza talmente a pennello che dev’essere fatto su misura e la camicia immacolata sembra fresca di tintoria. Nessuna traccia di fango sulle scarpe perfettamente lucide. D’un tratto le sovviene un’immagine di lui seduto su una sedia alta, con un ragazzino lustrascarpe ai suoi piedi. Scuola privata, università, un anno sabbatico in viaggio per il mondo, entrato in azienda con una quota da socio junior; sono questi i dettagli che Elena ha racimolato da Rosemary, la quale lo definisce il Ragazzo d’oro della KHM Investments. Elena non fatica a crederle.
«Sto per andare in pausa», le dice. «Vuole farmi compagnia? C’è un’eccellente caffetteria qui accanto. A quest’ora del pomeriggio staremo sicuramente tranquilli».
«La ringrazio. Sembra una buona idea». Ha già preso il caffè con Rosemary, ma il pensiero di tornare a casa e stare sola non è molto allettante. Le porte di vetro si chiudono alle loro spalle con un fruscio silenzioso.
«Immagino che sia stata una settimana difficile per lei», commenta quando il caffè è servito.
«Sono riuscita a superarla indenne». Perché scaricargli addosso la verità, quando dev’essere consumato da un dolore che lei non può nemmeno immaginare di comprendere?
Le ricerche della moglie sono andate avanti per due settimane, le ha raccontato Susie. Barche di ogni tipo, grandi e piccole, che facevano la spola lungo la costa, elicotteri in volo, gente che setacciava a piedi le spiagge e le scogliere in cerca del corpo della donna, in caso fosse stato riportato a riva dalla marea.
Sua madre le aveva telefonato per raccontarle quella tragedia. Elena stava raccogliendo la frutta presso una fattoria appena fuori Brisbane all’epoca e non aveva ancora conosciuto Zac. Il che vuol dire che da allora erano passati circa due anni. La KHM Investments era rimasta chiusa per lutto nel giorno dei funerali; no… non poteva essere un funerale. Una veglia funebre, ricorda ora Elena. Quanto doveva essere stato terribile piangere la moglie continuando a nutrire la speranza che, in qualche modo, contro ogni previsione, tornasse da lui.
Il sole, facendo capolino da dietro le nuvole, proietta una luce severa attraverso la vetrata della caffetteria e mette in evidenza gli zigomi pronunciati dell’uomo. Un nervo gli batte sulla tempia destra come se, in quel preciso istante, avesse capito a cosa sta pensando. Dovrebbe mostrarsi comprensiva? Cosa dovrebbe dire? La tragedia è ancora recente, ma non abbastanza da rivolgergli un commento insipido su una donna che non ha mai conosciuto. Meglio non fare riferimento all’accaduto, così da non mettere in imbarazzo nessuno dei due.
«Ha progetti per il futuro?». Interrompe il filo dei suoi pensieri. «Resterà qui o tornerà a Brisbane?»
«Come sa che vivo