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Follia d'amore
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E-book497 pagine9 ore

Follia d'amore

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Info su questo ebook

Una casa in cui si nascondono molti segreti…

1965. Alexandra Crewe cede alle pressioni della famiglia e sposa l’uomo che il padre ha scelto per lei. Ma il matrimonio si rivela subito infelice. L’amore coglie Alexandra impreparata, travolgendola con un’energia potentissima che la rende incapace di opporsi e la spinge a fuggire a Fort Stirling, uno splendido castello nel sud dell’Inghilterra. Nonostante la promessa di una nuova felicità Alexandra è inquieta. Sa che la gioia di quei momenti avrà un prezzo. E così, quando la tragedia si abbatte su di lei, dovrà trovare un modo per fare ammenda. 
Giorni nostri. Delilah Young è la seconda moglie di John Stirling e la nuova inquilina di Fort Stirling. La residenza in cui si è appena trasferita ha un’aura tetra e lei spera di riempirla di gioia con la sua presenza. Ma il cuore spezzato di John sembra incurabile e, nonostante tutti i suoi sforzi, Delilah teme di non essere in grado di alleviare il dolore che nasconde. Perché suo marito nutre tanto risentimento per la torre sulla collina? E qual è la verità dietro la scomparsa di sua madre?

«Un'emozionante storia d'amore, la scelta perfetta per chi cerca una lettura piacevole per evadere dalla realtà.»

«Questo libro è pieno di segreti e misteri, l’autrice riesce a mantenere viva la curiosità fino alle ultime pagine.»

«Lulu Taylor sa appassionare il lettore con trame davvero avvincenti. Le sue atmosfere sono suggestive.»

Lulu Taylor
È autrice di numerosi romanzi di successo ambientati nell’alta società inglese. Le sue protagoniste sono donne con una forte determinazione, pronte a combattere per i loro ideali. Dopo aver frequentato Oxford ha girato per il mondo. Attualmente vive a Londra con il marito.
LinguaItaliano
Data di uscita21 ott 2019
ISBN9788822739049
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    Anteprima del libro

    Follia d'amore - Lulu Taylor

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    Indice

    Prologo

    PARTE PRIMA

    Capitolo uno. 1969

    Capitolo due. Oggi

    Capitolo tre. 1965

    Capitolo quattro. Oggi

    Capitolo cinque. 1965

    Capitolo sei. Oggi

    Capitolo sette. 1965

    Capitolo otto. Oggi

    Capitolo nove. 1965

    Capitolo dieci. Oggi

    Capitolo undici. 1965

    Capitolo dodici. Oggi

    Capitolo tredici. 1965

    Capitolo quattordici. Oggi

    Capitolo quindici. 1965

    Capitolo sedici. Oggi

    Capitolo diciassette. 1965

    Capitolo diciotto. Oggi

    Capitolo diciannove. 1965

    PARTE SECONDA

    Capitolo venti. 1967

    Capitolo ventuno. Oggi

    Capitolo ventidue. 1969

    Capitolo ventitré. Oggi

    Capitolo ventiquattro. 1974

    Capitolo venticinque. Oggi

    Capitolo ventisei. 1974

    Capitolo ventisette. Oggi

    PARTE TERZA

    Capitolo ventotto. Oggi

    Capitolo ventinove. Oggi

    Capitolo trenta. Oggi

    Capitolo trentuno. Oggi

    Capitolo trentadue. Oggi

    Capitolo trentatré. Oggi

    Capitolo trentaquattro. Oggi

    Capitolo trentacinque. Oggi

    Capitolo trentasei. Oggi

    Capitolo trentasette. Oggi

    Capitolo trentotto. Oggi

    Capitolo trentanove. Oggi

    Ringraziamenti

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    2491

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Titolo originale: Winter Folly

    First published 2013 by Pan an imprint of Pan Macmillan,

    a division of Macmillan Publishers International Limited

    Copyright © Lulu Taylor 2013

    The right of Lulu Taylor to be identified as the

    author of this work has been asserted by her in accordance

    with the Copyright, Designs and Patents Act 1988

    All rights reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Cristina Contini

    Prima edizione ebook: novembre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3904-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Lulu Taylor

    Follia d'amore

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    Newton Compton editori

    A Ophelia Field

    Prologo

    Una figura spettrale si muoveva in silenzio nell’oscurità, la camicia da notte bianca svolazzava mentre percorreva leggera il sentiero di pietra senza mai guardare a terra, avanzando sicura come se non fosse notte fonda, ma un pomeriggio soleggiato.

    Una luna tonda e bianca brillava nel cielo proiettando una luce fredda sulla terra e un alone blu scuro nel cielo d’inchiostro. Le stelle splendevano come frammenti di ghiaccio su un mondo sbiadito da cui rilucevano solo gradazioni di grigio e di nero.

    La figura costeggiò i prati della grande casa dall’erba color granito e oltrepassò l’orto circondato da muri. Percorse il viale degli alberi di tasso, dove ombre minacciose ed enormi siepi incombevano da entrambi i lati, poi attraversò i vecchi cancelli di ferro battuto che non venivano mai chiusi, con le alte colonne sormontate da gufi di pietra. Proseguì sul sentiero per i cavalli che portava nel bosco. Tra i rami alti degli alberi si sentivano gli stridii e i versi degli uccelli, mentre a terra c’era un concerto di brusii, scricchiolii di rami che si spezzavano e fruscii di foglie secche. Due occhi verdi e gialli scintillarono all’improvviso e una volpe si delineò nella penombra. La donna in bianco proseguì il suo cammino con passo prudente ma determinato.

    Lasciò il sentiero e si inoltrò nelle profondità buie del bosco, dove i raggi della luna non riuscivano a penetrare, per poi riapparire in una radura. Una grande sagoma scura si ergeva sulla cima di una collinetta: le rovine di una vecchia torre che saliva alta verso il cielo. La donna la raggiunse, attraversò quella che una volta era la porta di ingresso e penetrò nell’oscurità dell’edificio. Salì per la scala traballante che serpeggiava contro i muri fatiscenti con un’andatura lenta ma sicura, un passo dopo l’altro, prudente, finché non arrivò al punto più alto dell’edificio, dove erano rimaste poche assi di legno annerite, bagnate e scivolose. La donna si fermò un attimo, poi avanzò lentamente su ciò che rimaneva del pavimento, verso un buco enorme che si era formato in seguito al crollo di un muro sul lato della torre. Rimase lì immobile, una figura immacolata nell’oscurità, il viso inespressivo rivolto verso gli alberi, le mani strette alla camicia da notte che il vento sollevava delicatamente.

    Era come se volesse rimanere lì per sempre. Poi alzò improvvisamente il viso verso le stelle, il mento sollevato in un’espressione che poteva essere sia di sfida sia di disperazione. Abbassò di nuovo gli occhi davanti a lei, lo sguardo vuoto. Lentamente, deliberatamente, fece un passo nel vuoto e precipitò, la camicia da notte che sbatteva come una bandiera, i capelli sollevati verso il cielo. Allargò le braccia e le dita, e aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Svanì, inghiottita dalle ombre ai piedi della torre. Si sentì un rumore sordo e uno schianto, secco come un colpo di frusta.

    Il silenzio che seguì era profondo e terribile.

    Parte prima

    Capitolo uno

    1969

    «John! John! Torna qui!», gridò Alexandra.

    John si voltò verso di lei ridendo, lo sguardo birichino. Poi ricominciò a correre, i capelli biondi che contrastavano con le foglie scure degli alberi. Era veloce nonostante avesse solo due anni, e l’eccitazione dell’inseguimento non faceva che renderlo ancora più rapido.

    Le era del tutto impossibile non emozionarsi davanti alla sua faccina felice. Le guance tonde, il naso a patata e i grandi occhi azzurri che stavano gradualmente diventando grigi la intenerivano sempre. Moriva dalla voglia di prenderlo in braccio e ricoprire di baci quella pelle di pesca, ma doveva mostrarsi severa, se voleva che le obbedisse. «John, basta! Fai il bravo con la mamma». Alexandra avanzava come meglio poteva pentendosi di non essersi infilata qualcosa di più pratico delle ballerine di pelle con la punta quadrata e la fibbia sulla parte anteriore, che erano molto belle ma non erano di sicuro fatte per correre. In teoria erano usciti solamente per fare un giretto, in modo che John potesse provare il nuovo trattore nel prato, ma a un certo punto era sceso e si era messo in testa di andare a esplorare i dintorni. Nel giro di un attimo aveva preso la direzione del viale con gli alberi di tasso, fermandosi ogni due per tre a esaminare tutto quello che vedeva mentre Alexandra lo seguiva. Non appena lei si avvicinava, il bimbo si raddrizzava e ripartiva con una rapidità stupefacente per quelle gambe corte e quei piedini. Alla fine del viale quei maledetti cancelli in ferro battuto con le colonne alte sormontate da gufi di pietra erano ovviamente aperti. Alexandra aveva chiesto di sostituirli, e nell’attesa aveva dato ordine di tenerli sbarrati, ma il guardiacaccia diceva che si erano arrugginiti e che quindi era impossibile chiuderli.

    «Non si possono lubrificare?», aveva chiesto con aria esasperata. «È pericoloso con un bambino che corre dappertutto».

    Ma il guardiacaccia si era limitato a guardarla con un’espressione che significava chiaramente che il bambino sarebbe stato molto più tranquillo nel bosco che sotto la sua presenza soffocante. Purtroppo i suoi ordini avevano ancora poco peso.

    «Non attraversare i cancelli, tesoro!», gridò, ma lui la ignorò e continuò a camminare canticchiando. Alexandra accelerò il più possibile il passo lungo il vialetto fangoso. Non le piaceva l’idea che il figlio se ne andasse da solo sul sentiero per i cavalli. Oltrepassati i cancelli, lo vide in lontananza, a parecchi metri da lei. Probabilmente si ricordava la strada che faceva durante le passeggiate con il padre, quando prendeva il secchiello e la paletta per andare al fiume a raccogliere fango e sassolini, attività che a lui piaceva tantissimo. Era ancora troppo giovane per andare a pescare e Alexandra gli aveva impedito per il momento di salire sulla barca a remi. Era da tempo che neanche lei andava al fiume. Non la tentavano nemmeno i bagni estivi nell’acqua fresca. Preferiva di gran lunga la piscina di casa. Era felice di nuotare nell’acqua clorata e riscaldata e di prendere il sole su un lettino sul bordo di cemento, come una turista in un hotel. Il guardiacaccia era convinto che lei avesse paura del bosco, come certi anziani del villaggio che dicevano di aver sentito i fantasmi dei soldati romani. Alcune legioni erano state catturate dai Sassoni ed erano state massacrate. Si diceva che tutti quegli uomini continuassero a marciare nel bosco, tristi, ricoperti di sangue e pronti a vendicarsi. Ma lei non credeva a niente di tutto ciò. I fantasmi e roba del genere non erano che superstizioni ridicole, e i lamenti e le grida che si sentivano di notte erano di conigli sfortunati catturati da una volpe o stretti tra i denti metallici delle atroci trappole piazzate dal guardiacaccia. Molto probabilmente si trattava di leggende inventate per tenere lontani i bracconieri.

    Ma c’era anche un altro motivo per il quale lei non andava mai laggiù.

    «John!», gridò. «Vieni qui, tesoro! Aspettami!».

    Il bambino ridacchiò di nuovo e le sue gambine accelerarono. Lasciò il sentiero per i cavalli e iniziò a seguire un altro piccolo tracciato. La salopette rossa e il maglione bianco spiccavano tra i monotoni colori invernali delle felci secche, delle foglie nere dei rovi e dei rami spogli. Alexandra distingueva la sua testolina bionda solo a intermittenza. Mise i piedi nel fango e per poco non cadde. Le ballerine di pelle di serpente e le fibbie dorate erano chiazzate di nero. Avrebbe dovuto mettersi gli stivali come faceva di solito, ma erano usciti dalla portafinestra, anziché passare dal ripostiglio. Se avessero fatto come sempre, non si sarebbero ritrovati nel bosco senza cappotto. Iniziò a tremare. Il suo cardigan era troppo sottile per ripararla dal vento invernale e John non era vestito in modo abbastanza pesante. Doveva riportarlo a casa. Dovevano salire subito le scale che portavano alla stanza dei bambini, con il fuoco acceso e la bambinaia pronta a preparare la merenda: un buon tè accompagnato probabilmente da uova sode e pane tostato, leggermente dorato, brillante di burro fuso.

    «John! Torna qui!». Iniziò a fare dei passi più lunghi per raggiungerlo, ma appena lui sentiva la madre avvicinarsi, accelerava. «Non fare il monello o mi arrabbio veramente!».

    Ma Alexandra sapeva che per lui era un gioco. La sua era un’imprudenza innocente: correva e si arrampicava con grande facilità senza avere idea del pericolo e senza sapere che avrebbe potuto farsi male. Proprio pochi giorni prima qualcuno aveva lasciato aperto il cancello della staccionata vicino alla piscina e lei aveva trovato John che stava salendo sulla tela cerata, ignaro del fatto che sarebbe potuta crollare sotto il suo peso.

    Ecco, ora si trovava proprio nel bosco, il luogo che tanto detestava. Sentiva prurito dappertutto e aveva la pelle d’oca. Le pareva che il sottobosco si stesse chiudendo su di lei, cercando di afferrarla con centinaia di lunghe dita spinose. Si allontanò scendendo dal sentiero ammorbidito dalla pioggia recente ed emise un forte sussulto quando sentì qualcosa che la tirava. Si voltò e vide che il cardigan si era impigliato sullo spuntone di un ramo. Armeggiò un po’ finché non riuscì a liberarsi. Quando si girò, John non c’era più.

    «John, John!». Iniziò a correre lungo il sentiero, terrorizzata: se il figlio lo avesse lasciato per continuare nel sottobosco, avrebbe potuto perdersi, scomparendo in un attimo tra le felci nella selva. All’improvviso se lo immaginò raggomitolato come un ghiro in una tana sotto un cespuglio, sorridente, in attesa di essere trovato; poi, con il freddo e il buio, si sarebbe messo a piangere cercando disperatamente la mamma mentre gli animali della notte arrivavano a turno ad annusarlo. «John! Dove sei?». Le tremava la voce, ma cercò di mantenere un tono autorevole. «Torna subito qui! Mi ha sentito?».

    All’improvviso si ritrovò in una radura e si fermò un attimo a guardare con gli occhi spalancati lo spettacolo che si trovò davanti: un capriccio – se non andava errata, era questa la definizione architettonica – un edificio bizzarro per metà in rovina ma ancora imponente, che si allungava nel cielo pomeridiano. In passato doveva essere stata una bella torre alta, con merli e finestre ad arco, come quella di Raperonzolo, ma ora si stava sgretolando e cadeva in rovina, avvolta nell’edera, con gli ultimi merli rimasti che sembravano denti seghettati. Quasi tutta la facciata era crollata formando ai suoi piedi dei mucchi di legna e pietre ormai ricoperti di vegetazione. Si capiva che una volta si innalzava di cinque piani. I primi due erano spariti completamente, ma di quelli più in alto rimaneva ancora qualche rovina. Il quinto era praticamente intatto, anche se le vecchie assi molto probabilmente erano state danneggiate da anni di pioggia, gelo e muffa. Una vecchia scala saliva serpeggiando all’interno della torre, infida con i suoi gradini rotti o mancanti, più pericolosa dove il muro era crollato. L’edificio era buio, freddo e umido, e le pietre ricoperte di muschio proiettavano tutt’intorno una terribile atmosfera di decadenza.

    Che costruzione orribile!, pensò Alexandra con un forte senso di repulsione. Se solo si potesse demolire…

    La vista delle vecchie rovine la disgustava e fu sopraffatta da una sensazione di soffocamento che le fece venire voglia di scappare. Le vedeva spesso in un incubo ricorrente: lei era costretta a salire fino in cima, ma non ci arrivava mai in tempo per impedire che accadesse qualcosa di orribile. Non sopportava di vederle nei sogni. La realtà purulenta la ripugnava.

    A un tratto una macchia rossa attirò il suo sguardo. John era lì dentro.

    Fu invasa da un senso di orrore, lo stesso che la perseguitava negli incubi: un panico soffocante e l’impulso disperato di dover evitare una terribile tragedia. Si precipitò verso la torre. Sentì di nuovo la risata di suo figlio e vide attraverso un’apertura nel muro che aveva iniziato ad arrampicarsi sulla scala. Lei conosceva bene quei gradini, da piccola i suoi compagni di giochi l’avevano costretta a salirli un’infinità di volte. In alcuni punti erano fragili come una sottile lastra di ghiaccio e avrebbero potuto sbriciolarsi da un momento all’altro; in altri punti, invece, l’umidità li aveva resi spugnosi e si erano incurvati al centro. Un piede poteva sprofondare facilmente come nelle sabbie mobili, con la differenza che sotto non c’era niente. Avrebbe voluto urlare, ma il cuore le martellava nel petto mentre entrava nella torre. Guardò verso l’alto. La torre si apriva verso il cielo che mostrava il suo sconfinato azzurro attraverso i resti dei piani superiori. L’edera si abbarbicava alle vecchie assi e alle travi, i rami degli alberi erano penetrati all’interno e si incrociavano ovunque. C’era odore di legno umido, pietra bagnata e muffa.

    «John!», chiamò. Lui saliva tranquillamente la scala con la manina appoggiata contro il muro, la lingua tirata fuori per la concentrazione. Avanzava velocemente, mantenendosi vicino alla parete dove la superficie era più solida, ed evitava istintivamente i buchi.

    Lei era quasi senza fiato, con le mani che le tremavano dalla paura. Suo figlio era circondato da pericoli, e a ogni passo i rischi aumentavano. Sotto di lui c’erano mucchi di pietre cadute, travi rotte con la punta rivolta verso l’alto, appuntite come lance, e chiodi arrugginiti. Lo immaginò impalato a morte e questo pensiero le fece venire un forte senso di nausea.

    Il bambino era ormai ancora più in alto; aveva superato i primi due piani senza il pavimento e stava raggiungendo il terzo. Alexandra non aveva scelta. Corse fino alla scala e iniziò a salire più veloce che poteva, ma i suoi movimenti erano rallentati dalla prudenza: era più massiccia di John, e uno scalino che poteva sostenere il peso del bambino non avrebbe necessariamente sostenuto anche il suo. Forse lui era protetto da un’innocente fiducia nella propria sicurezza, ma Alexandra no, e la sua immaginazione le prospettava scenari di tutti i tipi. Si vedeva a terra, con una gamba rotta o una caviglia slogata, incapace di raggiungerlo. Nessuno sapeva dov’erano, nessuno avrebbe avuto la minima idea di dove cercarli. Si sentì quasi soffocare dal panico e fece il possibile per aggrapparsi al muro scivoloso con la mano che le tremava. Maledette scarpe!, pensò. Le suole non avevano aderenza e lei ormai le detestava con tutta sé stessa. Se solo avesse indossato gli stivali…

    «Fermati, John! Basta!», gridò.

    Per un istante lui le obbedì, si fermò e la guardò da dietro la spalla, i grandi occhi grigio-blu brillanti per l’eccitazione di quel gioco così divertente. Poi si voltò di nuovo e sollevò con determinazione il piccolo ginocchio per salire il gradino successivo.

    «John! Ti prego!». La sua voce si ruppe mentre pronunciava quelle parole. Aveva voglia di piangere, ma non poteva permettersi quel lusso. Doveva mantenere il controllo. Continuò a salire con il timore che da un momento all’altro un gradino potesse cedere. Intanto John aveva raggiunto il quarto piano e continuava a salire. Era riuscita a ridurre la distanza che li separava, ma avanzava lentamente e con difficoltà. John era arrivato al quinto piano, dove finiva la scala. Si fermò di nuovo e si girò verso di lei. Il fatto che la madre lo stesse ancora seguendo parve incoraggiarlo a proseguire. Si mise a trotterellare sul pavimento.

    Alexandra si lasciò scappare un piccolo grido di panico. In alcuni punti il pavimento aveva ceduto ed era impossibile prevedere quali altre parti fossero in procinto di andare incontro allo stesso destino. A quell’altezza la facciata della torre era completamente sparita. John avanzava verso l’apertura, a una decina di metri da terra, dove niente avrebbe potuto impedirgli di cadere.

    Travolta da un’improvvisa energia, salì i gradini a due a due. Decideva sul momento dove appoggiare il peso, nella speranza che la sua velocità non lasciasse ai gradini il tempo di rompersi al suo passaggio. Sentiva degli scricchiolii minacciosi dietro di lei, ma non poteva fermarsi. Sapeva solo che doveva raggiungere John il più in fretta possibile.

    Il bambino era in piedi sul bordo, il piccolo pugno appoggiato a una pietra che sporgeva, lo sguardo rivolto verso il bosco. La sua sagoma rossa e bianca spiccava contro i muri neri e gli alberi scuri sullo sfondo. Alexandra sentì uno strano ronzio in testa e fu presa dalle vertigini. L’orrore di vedere il suo amato figlio sul bordo di quella torre andava anche oltre il pericolo più immediato: era una paura che affondava in un luogo primordiale, una fossa in cui si annidava qualcosa di così terribile che non aveva nemmeno il coraggio di guardare. Era arrivata in cima alla scala e iniziò ad avanzare lentamente sulle assi dell’ultimo piano. Non gridava più, ma parlava a suo figlio con voce dolce e calma mentre si muoveva a timidi passi sul pavimento nero e scivoloso.

    «John, che cos’ha detto la mamma? Ora basta. Vieni via da lì adesso, torna qui da me. Torniamo a casa dalla tata, va bene? Ti va di andare a mangiare uova e pane tostato? Lo so che ti piace immergere i soldatini per fargli diventare l’elmo giallo. E magari la tata ti darà anche il tuo cucchiaino preferito!».

    Passo dopo passo si avvicinava a lui. Ancora pochi centimetri e l’avrebbe stretto di nuovo tra le sue braccia.

    Lui la guardò sorridendo. «Vova!», disse tutto contento. «Vova sode».

    «Esatto, tesoro, uova sode. Dai, andiamo a casa a scaldarci un po’! Abbiamo giocato abbastanza per oggi, non credi?».

    Annuì con la piccola testa bionda e si girò verso di lei. Sembrava che sentisse freddo. Una brezza pungente stava invadendo la torre rimbalzando sui muri fatiscenti. Gli scompigliò i capelli morbidi e fini e John rabbrividì appena. Era pronto a tornare a casa.

    Sollevata, lei sorrise e gli tese le braccia. Il bimbo lasciò la pietra e fece un passo verso la madre. La scarpina si posò su un’asse umida e scivolosa e gli fece perdere l’equilibrio. Sarebbe caduto sul sedere come quando scivolava, ma questa volta non ne sarebbe uscito indenne, pronto a ripartire come se niente fosse.

    La sua sagoma si stagliava contro il vuoto che si spalancava dove un tempo si trovava il muro. Alexandra sapeva che sarebbe caduto dalla torre. In un momento che sembrò durare ore lo vide barcollare, le braccia allungate verso di lei. Poi iniziò a cadere all’indietro spalancando gli occhi per lo shock e la sorpresa. Con grande prontezza di riflessi, Alexandra allungò le braccia verso di lui e afferrò la bretella della salopette. Non cedere, ti prego, supplicò alla piccola fibbia che sosteneva il peso di John. Era l’unica cosa che gli impediva di cadere nel vuoto. La bretella tenne e Alexandra riuscì a tirarlo verso di sé. Un attimo dopo, era al sicuro tra le sue braccia.

    Immobile, felice di essersi abbandonato finalmente a lei, si lasciava rassicurare dal calore del suo abbraccio consolatorio. Lei affondò il viso nei suoi capelli e lo strinse forte, senza sapere se avrebbe iniziato a piangere, ridere o gridare.

    «La mamma è qui», mormorò con le mani che le tremavano. «Va tutto bene, tesoro. La mamma è qui con te».

    Capitolo due

    Oggi

    Delilah starnutì una, due, tre volte in rapida successione. La polvere che si era accumulata nelle soffitte aveva formato strati di lana grigia spessi come un tappeto e, a forza di smuoverla, l’aria intorno a lei era diventata opaca. Piccole particelle svolazzavano ovunque, facendole il solletico alle narici e invadendole la gola. La luce di una lampadina illuminava le nubi di granelli di polvere e tutti i vari bauli, le scatole, i tappeti arrotolati, le vecchie fotografie, i mobili rovinati e le montagne di cianfrusaglie che occupavano le quattro soffitte che si succedevano in fila da quel lato della casa, estendendosi per tutta la lunghezza dell’ala est.

    «Vai pure a dare un’occhiata, se vuoi», aveva detto John quando lei glielo aveva chiesto. «Dio solo sa cosa troverai… Perdici tutto il tempo che vuoi».

    Era l’unico luogo della casa dove poteva fare quello che voleva. Sei mesi prima, quando era arrivata a Fort Stirling, aveva immaginato che in poco tempo si sarebbe sentita come a casa sua, e avrebbe riorganizzato l’edificio in base ai suoi gusti, come aveva fatto in tutti gli altri posti in cui aveva vissuto. Con l’eccitazione tipica dei bambini aveva esplorato la casa e aveva immaginato di rinnovare ogni singola stanza. All’epoca tutto era ancora nuovo e pieno di fascino, e lei si era innamorata degli ananas di pietra ricoperti di muschio sulla balaustra del terrazzo e delle sedie Luigi XV, dorate e con le gambe sottili, del salone. Ogni finestra, ogni corridoio l’aveva incantata. Aveva avuto l’impressione di aver finalmente trovato il suo ambiente ideale, un luogo magico dove la vita sarebbe stata per sempre bella ed entusiasmante. Ma a poco a poco, come quando ci si avvicina un po’ troppo alla scenografia di un teatro, si era resa conto che la casa non era così meravigliosa come sembrava. Le sedie traballanti sulle loro gambe dorate erano splendide, ma sotto pendevano le molle, la seta damascata che le ricopriva era macchiata e logora e gli intagli dorati erano incrostati di nero.

    Stava iniziando a capire che ai nuovi arrivati non era permesso cambiare nulla. Aveva la sensazione che sarebbe stata la casa a possedere lei, non il contrario. L’avrebbe addomesticata e fatta sua, l’ultima inquilina di una lunga serie. Tutte quelle persone scomparse che avevano percorso gli stessi corridoi, che si erano sedute sulle stesse sedie e che avevano dormito negli stessi letti… Quel pensiero le diede un brivido sgradevole.

    Ma lassù nelle soffitte, dove gli altri venivano raramente, poteva fare quello che voleva. Lì si sentiva più la proprietaria della casa, anziché una sua prigioniera.

    Delilah iniziò a dare un’occhiata alle scatole che la circondavano e vi trovò un vero e proprio ammasso di cianfrusaglie: una raccolta di cornici rotte, piedistalli di lampade senza spine elettriche, lampadine o paralumi, piccoli pezzi di plastica e fil di ferro che una volta dovevano aver fatto parte di qualcos’altro. Scavalcò una catasta di sedie, sollevò una pila di pesanti tende di velluto e finalmente esultò. Ecco che le cose iniziavano a farsi interessanti… Davanti a lei c’era un grande baule da viaggio nero di cuoio borchiato con un coperchio piatto chiuso da due grosse serrature di ottone, su cui apparivano a caratteri dorati le seguenti parole: «Viscontessa Northmoor, Fort Stirling, Dorset». Le etichette ancora incollate sul baule erano ormai illeggibili. Delilah trattenne il fiato in trepidante attesa. Era esattamente il tipo di tesoro che cercava. Strofinò via uno strato di polvere dal coperchio. Aveva le mani sporche e le unghie nere. I palmi erano secchi, se li strofinò sui jeans per togliere il grosso dello sporco prima di aprire il baule. Cercò di spezzare i lucchetti con un colpo secco, sperando che la serratura non fosse chiusa, perché la chiave non si vedeva in giro e aveva l’impressione che non l’avrebbe mai trovata. Il baule si aprì abbastanza facilmente. Sollevò il coperchio finché non rimase sospeso sulle cerniere di cuoio. Appena sotto c’era una serie di cassetti poco profondi pieni di tessuti colorati: cravatte di lana e di seta, papillon, fazzoletti, una fascia da smoking, foulard, cinture e ventagli. Guanti lunghi erano piegati in sacchettini di plastica trasparenti; vide bottoni di perla, pelle di capretto, seta e velluto.

    «Bingo», sussurrò. Bingo.

    Era esattamente il tesoro su cui aveva sperato di mettere le mani. Degli abiti. Aveva già trovato un’ambientazione, una scenografia arredata con mobili in stile Chippendale, oggetti in similoro, vasi in porcellana di Meissen e porcellane di Sèvres, candelabri dorati, mobili intarsiati, statue di marmo e grandi dipinti a olio con le cornici dorate, marmo bianco e nero e antico parquet lucidato. Cenava in una sala perfettamente rotonda in cui la carta da parati era stata stampata in una fabbrica distrutta durante la Rivoluzione francese. Dopo cena si distendeva su un vecchio divano morbido davanti a un camino Adam con il cocker di John che dormiva ai suoi piedi, leggeva libri della biblioteca che nessuno aveva aperto per almeno un secolo. Ma a volte la direttrice artistica che viveva dentro di lei aveva la sensazione che mancasse qualcosa. Dov’erano i vestiti? Che fine avevano fatto gli abiti di seta, pizzo e velluto indossati dalle donne nei ritratti disseminati per tutta la casa? Si immaginava che fossero stati tramandati di generazione in generazione finché non erano caduti a pezzi. Non c’era da sorprendersi che le mussole Regency e i corsetti Tudor non fossero sopravvissuti, ma le fotografie del secolo precedente mostravano pellicce sfarzose, abitini eleganti, vestiti da sera, cappotti di tweed con le spalline, scarpe nere con il tacco largo, borse di pelle di serpente e cappelli di tutti i tipi. Una fotografia della bisnonna di John la immortalava in un abito a vita bassa con la gonna plissettata, un cardigan lungo, un corpetto rosa fissato a un filo di perle che pendeva all’altezza dell’ombelico, e un cappellino a cloche sopra i capelli corti, come imponeva la moda dell’epoca. Vestiti vintage degli anni Venti.

    Delilah aveva una voglia irresistibile di accarezzare i tessuti e le pellicce che vedeva dappertutto senza però poterci mettere le mani.

    «Devono essere per forza da qualche parte. Non buttiamo mai via niente», le aveva confessato un giorno John, «e non si può certo dire che ci siano state molte figlie femmine nella mia famiglia».

    Quel commento aveva messo radici nella sua mente. I vestiti dovevano essere da qualche parte, ammassati in un angolo o appesi in fondo a qualche armadio dimenticato. Doveva trovarli. Si immaginava già come avrebbe vestito delle modelle ossute con gli zigomi alti, come le avrebbe disposte nelle più belle stanze della casa per ottenere l’effetto migliore. Avrebbe persino potuto organizzare uno spettacolo teatrale o un’opera in giardino e usare quei vestiti come costumi.

    Calmati, si disse per riprendersi. Stai correndo un po’ troppo, mia cara. E, inoltre, John non sarà mai d’accordo.

    Un tempo suo marito aveva condiviso il suo entusiasmo quando lei gli aveva parlato di animare un po’ la casa e magari aprirla al pubblico, ma ora Delilah si stava rendendo conto che non aveva mai preso sul serio le sue idee.

    Tirò fuori i cassetti, li mise sul pavimento e finalmente scoprì cosa nascondevano: pile di vestiti piegati con cura. Iniziò a esaminarli con grande riverenza: non voleva scombinarli inutilmente. I colori e i tessuti non risalivano agli anni Venti o Trenta, ma piuttosto ai Sessanta e Settanta: gialli, viola e verdi; abiti di maglia a maniche corte, gonne a trapezio, motivi cachemire, a zigzag e altre fantasie appariscenti. Dovevano essere appartenuti alla madre di John, a quell’epoca era di sicuro l’unica donna che viveva lì. Delilah sentì batterle forte il cuore. Aveva sperato di trovare qualcosa di più antico, ma quello era solo l’inizio. Per il momento si sarebbe goduta quelli. Magari avrebbe trovato qualche tesoro nascosto o qualche pezzo originale di uno stilista famoso. Sul fondo del baule vide un tessuto nero molto spesso che era stato piegato in un modo che non le permetteva di capire cosa fosse. Lo tirò fuori facendo attenzione a non spiegazzare gli strati di biancheria che c’erano sopra e finalmente vide che si trattava di un pesante cappotto doppio petto di lana nera con grandi bottoni neri. Da quello che riusciva a vedere, era corto. Doveva arrivare al ginocchio. Il motivo di tutto quello spessore le fu chiaro quando scoprì che all’interno c’era un abito coordinato. Anche quello era nero, con un tocco di bianco intorno all’ampia scollatura. Era di ottima fattura con cuciture perfette e una fodera di seta. Delilah non riconobbe il marchio sull’etichetta, ma la qualità era evidente.

    È stupendo, pensò Delilah. Com’è elegante!

    Diede una scrollata agli indumenti e li annusò. Avevano l’odore del tempo e della polvere, della lana dimenticata al buio. Era uno dei suoi odori preferiti. Da bambina, impazziva per il profumo leggermente amaro del vecchio negozio di abbigliamento in cui l’eccentrica proprietaria dai capelli grigi scompigliati stava seduta a cucire in silenzio mentre Delilah girava in mezzo ai mucchi di cappotti abbandonati o tra gli appendiabiti con i vestiti da sera. Esaminò l’abito e il cappotto e si chiese se fossero effettivamente appartenuti alla madre di John. Conosceva il suo viso solo grazie al ritratto ad acquerello del salone e alle poche fotografie sparse qua e là per la casa nelle cornici d’argento: mostravano una giovane donna incredibilmente snella, vestita secondo la moda della fine degli anni Sessanta e dell’inizio dei Settanta. Capelli scuri cotonati, occhi grandi messi ancora più in evidenza dalla riga di eyeliner nero e dalle ciglia finte. Delilah passò la mano sul tessuto ricordando quel viso di una straordinaria bellezza, quella pelle pallida e quei tratti delicati dominati dagli occhi immensi. Era rimasta colpita dalla loro vulnerabilità e dall’evidente imbarazzo con il quale la donna posava davanti all’obiettivo. Che strano toccare un capo che la madre di John aveva indossato così tanti anni prima. Di certo non avrebbe mai immaginato che un giorno la moglie di suo figlio avrebbe accarezzato quel vestito pensando a lei!

    Chissà cosa le è successo?, pensò Delilah. Sapeva che la madre di John era morta quando lui era piccolo, ma lui non le aveva mai rivelato di più. A volte, quando guardava la foto che mostrava John e sua madre mano nella mano, sentiva il desiderio di sapere cosa si nascondesse dietro quello sguardo impassibile protetto dai grandi occhiali da sole. Purtroppo, però, ormai non c’era più modo di scoprirlo.

    Il cappotto e l’abito vestivano abbastanza piccoli, come la maggior parte dei vestiti vintage, ma Delilah era convinta che le sarebbero andati bene. Senza neanche pensarci si alzò in piedi, si levò le Converse, il maglione e i jeans, poi slacciò la cerniera del vestito, lasciò scivolare le braccia sulla seta fresca della fodera e iniziò a infilarsi l’abito.

    Temeva di spaccare le cuciture, ma riuscì a dimenarsi fino a liberare la testa e le braccia lasciando poi scivolare il tessuto sulle anche. Quando chiuse la cerniera, scoprì che il vestito era aderente ma le andava alla perfezione. Avrebbe voluto vedersi, ma non c’erano specchi nei dintorni. Proprio come aveva immaginato, il vestito arrivava al ginocchio, e iniziò a pensare al tipo di scarpe che avrebbe potuto abbinare. Forse delle scarpe a punta con tacco medio-basso? No, non andavano bene. Quel vestito veniva da un’epoca di punte e tacchi quadrati, tacchi effetto lamellato… O allora forse degli stivali? Stivali alti e neri che abbracciavano i polpacci e arrivavano fino al ginocchio. Con le stringhe. Forse… Delilah prese in mano il cappotto e lo soppesò. Era indubbiamente di qualità. Lasciò scivolare dentro le braccia. Le maniche erano strette, ma a parte quello, era perfetto. Cadeva all’altezza esatta del vestito. Meraviglioso… Era vecchio, ma aveva uno stile moderno, quasi nuovo. Fece un giro su sé stessa. Forse avrebbe potuto indossarlo per un pranzo o per una gita in città.

    Mise le mani in tasca e sentì qualcosa sotto le dita della destra. Lo prese e lo tirò fuori. Erano i resti di un fiore. Un tempo doveva essere bianco o rosa, ma ormai era increspato e marrone. Le si sbriciolò sotto le dita. Lo stelo grigio-verde cadde per terra e sparì in una fessura tra le assi del pavimento.

    Mentre osservava i resti polverosi del fiore, Delilah sentì un brivido lungo il corpo e fu sommersa da una profonda tristezza. Si sbarazzò bruscamente del fiore, come travolta da una sensazione lugubre. Voleva togliersi i vestiti il più in fretta possibile. L’idea di indossarli in una qualunque occasione ora le sembrava assurda. Erano carichi di qualcosa di spiacevole, agghiacciante, qualcosa che voleva attirarla in un luogo oscuro e spaventoso. Si tolse il cappotto con fatica, lasciandolo cadere sul pavimento malgrado lo spesso strato di polvere; poi combatté contro il vestito per alcuni istanti per farselo passare sopra la testa. Sentiva che stava ansimando presa dal panico all’idea di non riuscire a liberarsi. Alla fine il vestito scivolò via.

    Osservò gli indumenti abbandonati per terra, come pietrificata dall’intensità della sensazione che l’aveva appena posseduta. Un brivido la riportò alla realtà e si rese conto che aveva indosso solo la biancheria intima. I vecchi abiti formavano una macchia nera sul pavimento, le braccia del cappotto spalancate come a chiederle silenziosamente un abbraccio.

    «Delilah!». La voce in fondo alle scale trafisse l’aria.

    Sobbalzò violentemente, poi rabbrividì. John. Andava tutto bene. «Sono quassù!», gridò con una voce calma che la sorprese.

    «Il pranzo è pronto».

    «Arrivo subito!». Rabbrividì di nuovo e raccolse le sue cose. Dopo essersi vestita, prese il cappotto e l’abito, li piegò velocemente e li ripose nel baule. Rimise a posto i cassetti e chiuse il coperchio.

    Più tardi tornerò a vedere il resto, si ripromise, anche se non era sicura di volersi inerpicare lassù da sola. Tentò di sbarazzarsi delle ultime tracce di quella sensazione orribile e andò verso le scale, verso la normalità del pranzo con John nella sala perfettamente rotonda.

    Capitolo tre

    1965

    Alexandra si muoveva per la stanza affollata come una persona che si ritrova inavvertitamente tra un gruppo di sconosciuti e non capisce né cosa stia succedendo né cosa ci facciano tutte quelle persone intorno a lei. Colse il suo riflesso nello specchio con la cornice dorata sopra il camino e vide un viso smorto e due grandi occhi blu spaventati. Era vestita in maniera impeccabile, come tutti si aspettavano da lei. I capelli scuri morbidi e brillanti, il viso ben truccato e un vestito di chiffon di un azzurro molto chiaro. Ma sembrava smarrita.

    So che dovrei divertirmi, pensò, ma ho l’impressione che tutto questo stia accadendo a qualcun altro. Se osassi andarmene e salire di sopra per rimanere un po’ da sola, qualcuno se ne accorgerebbe?

    L’idea la tentava, ma suo padre si sarebbe infuriato se avesse scoperto che se n’era andata. E lei non poteva permettersi di rovinare l’umore stranamente allegro che il padre mostrava negli ultimi tempi. Le piaceva avere la sua approvazione, ed era determinata a non perderla. Si girò verso Laurence che sorseggiava champagne e rideva alla battuta di qualcun altro. Se ne sarebbe accorto, se lei si fosse eclissata con discrezione?

    Proprio in quell’istante una mano avvolta in un guanto bianco si posò sul suo braccio facendola sobbalzare. La osservò e poi alzò lo sguardo verso la sua proprietaria. Era la signora Freeman che le sorrideva con i suoi denti marroni-giallastri dietro uno spesso strato di rossetto rosso fuoco. Quella donna aveva sempre un aspetto abbastanza mascolino, le spesse sopracciglia scure e il mento squadrato contrastavano fortemente con il vestito femminile e i gioielli vistosi.

    «Non ti ho ancora fatto le mie congratulazioni!», disse la signora Freeman. «Anche se non so se si fanno le congratulazioni alla futura sposa. Forse si fanno all’uomo? La donna viene elogiata per la sua scelta. In tal caso, ben fatto, mia cara. Hai fatto un’ottima scelta».

    «Grazie», mormorò Alexandra mostrando un timido sorriso.

    «Posso vedere l’anello? Oh, ma che meraviglia! Immagino che la pietra sia di grande valore, viste le piccole dimensioni. Forse è un gioiello di famiglia? Questa meraviglia ne ha proprio tutta l’aria».

    Alexandra annuì. Sotto la luce del lampadario, i due vecchi diamanti scintillavano intensamente nei loro castoni dorati. Tra di essi l’antico rubino sembrava profondo e calmo come un bicchiere di bordeaux. Ancora le faceva strano avere quell’anello che le pesava al dito.

    «E il matrimonio?», proseguì la signora Freeman. «Quando è previsto?»

    «A giugno», rispose Alexandra. Le sembrava di parlare in un sogno. Giugno sarebbe mai arrivato? Una parte di lei sperava di no. Mancavano solo tre mesi, ma ancora non riusciva a crederci. Forse nel frattempo sarebbe successo qualcosa che avrebbe trasformato la sua vita e avrebbe scongiurato quel futuro inimmaginabile a cui aveva acconsentito. Quando si sforzava di figurarsi il giorno del matrimonio, riusciva solo a vedere una scena indistinta, le persone ridotte a figure sfocate. C’era anche Laurence, ma era di spalle, imponente nel suo tight. Quando lei gli chiedeva di girarsi, scopriva che non aveva il volto.

    «È meraviglioso». La signora Freeman sorrise di

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