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Maturità
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E-book259 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Nove storie sedute su una panchina nella notte, osservano i loro protagonisti accartocciarsi alla ricerca di un veloce sporco amore che li salvi; sguardi blu e neri desideri, schizzi di sangue e sogni di rivoluzione, corpi slegati dalla mente sospesi sul burrone, incerti se cogliere l'invito a gettarsi...
LinguaItaliano
Data di uscita13 set 2015
ISBN9786050416008
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    Anteprima del libro

    Maturità - Raffaele Marchi

    Raffaele Marchi

    Maturità

    UUID: 5ed65c52-74ca-11e5-8b84-119a1b5d0361

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice

    Sottomarca

    Ventuno/dodici/dodici

    McPollastre

    Diritto privato

    Marco&Barbara

    Opide

    Fuori dalla vasca

    Grida la strige a testa in giù

    Maturità

    Sottomarca

    -a me fanno impazzire le parigine

    -perché proprio loro

    -non lo so, non c’è un perché, cioè, non hanno mai fatto qualcosa per piacermi così tanto, sai, è come quando mangi i cetrioli sott’aceto, magari li togli pure dal panino, però quando apri uno di quei vasetti con quei cetrioli enormi, ne mangi uno, due, tre, fai fatica a smettere, ti piacciono di brutto

    -a me i cetrioli fanno cacare

    -anche quelli sott’aceto, non ci credo!

    -tutti i fottuti cetrioli

    -ok…ok, ma li hai mai provati almeno

    -li tolgo sempre dal panino, quegli stronzi!

    -anche io, è quello il fatto, nel cheeseburger non posso reggerli, ma in vasetto, affogati nell’aceto, mi danno assuefazione quei bastardi verdi

    -io non li ho mai provati sott’aceto, ma sono sicuro che non ne farei una droga

    -che cazzo ne sai, scusa

    -lo so, lo so e basta!

    -cosa vuol dire, ma senti come parli, sei prevenuto

    -adesso comincio a odiarli i cetrioli

    -ecco, vedi, sei così prevenuto che le rarissime volte in cui ti capita di trovare una tipa disposta a farsi maltrattare da te, ecco che ti masturbi senza neanche darle l’opportunità

    -non ti ascolto più

    -bravo fai così, stronca discorsi che non comprendi

    -che poi non ho ancora capito cosa ti fa sclerare nelle parigine, ma poi tu a Parigi ci sei mai stato

    -ma che cazzo hai capito!

    -cosa

    -le calze! testa di cazzo, parlavo delle calze!

    -quali calze

    -le parigine, merda! le parigine!

    -mah

    -dai…quelle che arrivano appena sopra il ginocchio

    -boh

    -sono la cosa più seducente al mondo

    -più della fica

    -no, è chiaro che chi le porta deve avere una base di giustezza fascino o carattere, ma dirò che valorizzano pure chi di fascino non ne ha da vendere

    -come le autoreggenti

    -no, due universi paralleli

    -per dieci centimetri

    -si sono proprio quei dieci centimetri che cambiano tutto quanto

    -posso chiedere il perché

    -claro, le tipe con le autoreggenti coprono tutto quello che possono e stanno sempre a sistemarsi la gonna, si mettono le calze perché dentro di loro pensano di avere quel sottile fascino da femmina fatale un po’ puttana un po’ educanda, ma in realtà non ce l’hanno, sono le stesse che attaccano quella che a loro dire più s’atteggia a puttana nel locale, solo perché ha le tette e può permettersi un vestito scollato. Lo fanno perché la invidiano. Perché loro le calze le mettono solo per autoconvincersi, mi segui, invece le tipe con le parigine se ne sbattono di sembrare quello che non sono, perché sono già quello che le altre vogliono sembrare, claro

    -adesso sì che ho gli occhi spalancati

    -lo sapevo

    Campanello.

    -forse è il parlare di stronzi verdi e stronze di lana, mi è venuta fame

    -hai massacrato il frigo due ore fa, lo sai che sei un fottuto ciccione

    -non è colpa mia se l’ultima volta che hai fatto la spesa il super si chiamava emporio

    Campanello.

    Campanello.

    -sfondati pure tanto è merda scaduta, io vado ad aprire a questi disturbatori della quiete pubblica

    Campanello.

    Campanello.

    Campanello.

    -arrivo, cazzo

    Tommy apre la porta con l’aria di chi non è stato disturbato ma vuole darlo a vedere.

    René entra in cucina con la faccia di chi si ricorda vagamente di aver visto i formaggini Mio nel frigo.

    Gianna Privetti ha cinquantaquattro anni e ha sempre voglia.

    Il suo Umberto è morto sette anni fa.

    Un camionista non aveva trovato niente di meglio che tirare cocaina e bere una decina di digestivi prima di mettersi a guidare sulla Bologna-Firenze.

    Gianna adorava suo marito. Scopavano ancora come conigli.

    Il sesso non ha più avuto neanche un retrogusto lontanamente riconoscibile, dopo.

    Certo Gianna ci aveva provato. Colpa di suo marito, con la sua voglia di vivere le aveva trasmesso una fiducia incondizionata nel futuro.

    Pressante, inopportuna, inevitabile - Fiducia.

    Non si è ammazzata dopo che ha riconosciuto il corpo. Colpa sua.

    Poteva semplicemente lasciare andare la macchina giù per i colli.

    Confondere il cognac della sera con un po’ di Fenobarbital.

    Qualche centimetro più in là sul comodino e lo sentiva, il velo di plastica che copriva l’alba.

    La mattina dopo si è alzata. E le altre migliaia dopo.

    Sempre trattenendosi. Indugiando un po’ su pensieri non suoi solo per provare l’ebbrezza della novità. Cambiare casa sarto ristorante – uccidersi.

    Rinunciando solo perché nel frigo mancava il latte.

    Sempre per lui aveva cominciato a uscire un paio di anni dopo. Cercando lui. Trovando solo angoli freddi di coperta.

    Si era arresa all’insoddisfazione.

    In maniera elegante.

    Diceva.

    Non senza un vigliacco rifiuto.

    Pensava.

    Ci sono sere in cui il remoto cigolio del letto torna come una risata amara, lei finge di non sentire e stringe gli occhi fino a farsi male, le dita nervose cadono dove possono.

    Stasera è solo una di quelle sere. Il cassetto del comodino è aperto, dal letto ammicca il surrogato di un matrimonio di diciannove anni, gomma, realistico, ventitré centimetri, nervature pronunciate.

    La voglia è grossa e infame, tanto è il bisogno. Non è solo quello, ma non prova a spiegarlo alle sue amiche aperitivo-orto-fiction.

    Non lo dice, ma lo sa, quando si toglie voglie di lattice è il solo momento in cui non pensa a lui,

    al suo dito che regge il cartellino.

    È il suo momento, il loro unico momento. Ma qualcosa non va.

    Dalla parete suoni distorti. Musica. Voci che cercano di sovrastarla.

    Lui non avrebbe mai affittato ad un paio di tossici stronzi.

    René spera di aver visto giusto. I formaggini Mio sono la morte della chimica. E quando la fame è imperante, come ora, se li manderebbe giù con la carta. Con occhio clinico esplora il frigo.

    Eccoli lì, i triangolari. Arraffa la scatola e ha la prima amara sorpresa della serata.

    Ne è rimasto uno. Lo butta giù senza la carta, salvando la dignità. Sbatte le ante incazzato come una biscia mentre si segna insulti da girare a Tommy.

    Quello stronzo va pregato in ginocchio per fare una fottuta spesa decente.

    Non si ricorda l’ultima volta che l’ha fatta lui, la spesa. Lui non gira coi centoni sciolti in tasca, però. Tommy li caga. Varrà pure qualcosa.

    Se il babbo installato sulla poltroncina in Confindustria sapesse che l’erede s’atteggia a

    clochard, senza dubbio gli andrebbe storto il Bordeaux.

    L’acido sì, René accusa, gli sta salendo, irrimediabilmente storto. Adesso vede formaggini dove non ci sono.

    Grossi, stronzi, gommosi formaggini che sorridono intorno a lui. Se allunga la mano li prende, e per un po’ ci pensa. Poi scuote forte la testa e sbatte ancora a caso, solo per dare fastidio a Tommy che sta cercando di parlare con chissà chi. Sente vagamente le voci mentre la canzone cambia sullo stereo. Chiunque sia sembra agitato. O forse è lui ad essere agitato in modo gratuito, e questo spiegherebbe perché la metà sinistra della sua faccia è ficcata dentro il barattolo della senape. È che gli sembra che ne resti sempre un po’, lì nell’ angolo, e se molla prima di lucidare il fondo la senape e Tommy lo prenderanno per il culo, e lui non vuole dargliene l’occasione, non stasera che la strada verso un tranquillo falò cerebrale sembra sempre più in salita.

    Di là continuano a parlare, che avranno da dirsi. E perché Tommy non lo chiama, se è così importante. Il fastidio e la senape gli salgono in gola. Quello stronzo fa sempre così. È un fratello, sì, ma non condivide tutto. Ha amici che non presenta, tipe gonfie di amiche censurate. René non è così, è più morbido, quello che è mio è tuo, ma le fiche che porta a casa non sono mai all’altezza dei gusti aristocratici di Tommy.

    Stasera divano acido, s’era detto. Francobolli, bocce e vediamo chi sbrocca prima.

    La scimmia che devasta di più tra quattro mura, poca musica basta ad attizzarla, il resto viene da sé. Comparazione di seghe mentali con traduzione simultanea. Si potrebbe definire una serata di scambio culturale, un’occasione per confrontarsi sulle tematiche più scottanti, un rendez-vous tra i vertici dell’azienda. E adesso Tommy cerca un pretesto per sviare, sicuramente avrà chiamato una delle pessime che gliela tirano con l’arco solo per farsi qualche botta gratis.

    René se ne sbatte, ma se Tommy pensa di essere l’unico ad avere programmi alternativi può anche farsi fottere. Dall’entrata arriva qualcosa di associabile a una risata. René non ci vuole credere, adesso se la ghignano pure. Lui in cucina storto come un cammello e l’infame non solo non lo caga di sbieco, ma si fa pure grasse risate. E di chi può ridere, se non di quel ciccione preso male di René?

    A volte si vede con Tommy, ultimi lottatori rimasti nel fango a legnare e stringere in prese d’acciaio la buona famiglia le scuole private le ragazze serie con serie prospettive le lauree magistrali la compostezza a tavola uno straccio di regola, e un qualsivoglia ordine o scopo nelle azioni quotidiane.

    Altre volte – qualcosa nel modo in cui accende la sigaretta all’alba sul balcone, non parla con i suoi da due anni zero esami uno straccio di storia nessun piano di riserva non una garanzia di arrivare ai trent’anni per fare cosa poi – spegne la sigaretta sulla ringhiera.

    Stasera – sarà perché il frigo è vuoto e Polly vuole un biscotto, è solo una di quelle volte.

    René non distingue neanche più Kurt che si lamenta, gli sembra che lui e il barattolo quasi vuoto di senape e il frigo vuoto siano solo una premeditata risata alle sue spalle.

    Il frigo trema ride si apre si chiude fa sbattere le bottiglie. Di fianco a lui impassibile nella sua dignità consapevole – il ceppo della Miracle Blade, con relativa serie di coltelli sfavillanti.

    Per chi consumava l’incoscienza delle undici a.m. – guardando con occhi a fessura un paio di baffi tagliare le marmitte con tripli carpiati davanti a una platea festante di cuochi palesemente alimentati ad antidepressivi – la serie completa è un pezzo da collezione pregiato.

    René si ficca dentro le bermuda la lama per sminuzzare, ci sta a fatica, nasconde il manico con la camicia. Adesso è più sicuro. Il freddo acciaio gli fa venire i brividi lungo la coscia e lo fa sentire un po’ meno stronzo, può affrontare il salotto.

    Se va storta potrà sempre sciabolare un ananas volante, e uscire indenne dall’imbarazzo.

    Tommy pensa ai cazzi suoi, scomodo. René straparla, lo stereo sputa fuori canzoni concedendosi brevi pause di riflessione in cui ti senti costretto a dire qualcosa, l’acido si arrampica scalciando e scivolando su per gli appigli morbidi del cervello, e Tommy non pensa a niente d’importante.

    Suo padre fa slittare fogli gialli rossi verdi sul lucido legno del tavolo.

    Come va, sei in pari con gli esami. Si si, babbo, non ti preoccupare.

    Per pasqua passi un paio di giorni da me, lo sai, ti presento un po’ di gente. Si, non vedo l’ora. Fogli che passano di mano in luoghi ameni immersi nel grigio suburbano un po’ viola delle sette di sera, mani che dell’inchiostro dei libretti sono ignare li fanno sparire, e son leste ad inumidirli le dita. Innocui involucri di plastica vengono spinti giù in fondo nelle tasche.

    Vanessa fa la stronza, vuole essere unica, ma unica non è. Non le basta essere la migliore, la prediletta, la bambina prodigio. Tommy prova a spiegarglielo usando giri di parole a cui non crede neanche lui, tira in mezzo la relatività ristretta e i Beatles citando Bergson, viene infine preso a male parole e rimandato a esami di riparazione. Tocca subire la presenza obesa arrogante del buon René.

    Lo spaccino di Merano per l’occasione si è strizzato dentro a un costume tipico tirolese, che visto l’impedimento nelle mosse deve risalire almeno a venti chili fa. Visione vietata a cardiopatici e donne gravide, non sembra badarsene e zampetta gioviale tra Nevermind e il frigo, con il sorriso di uno che è rimasto chiuso dentro il tendone dell’Oktoberfest prima dell’apertura.

    Tommy a volte lo odia per la sua allegria nonsense, sembrano un po’ Joker e Batman, a volte. Quasi sempre alla fine lo regge, lo appoggia addirittura, e un po’ ci crede, che sia tutta una gigantesca burla architettata da eminenze grigie rinchiuse in una stanza bianca con milioni di schermi.

    Che loro vanno veloci perché niente intorno conta, che non si fermano perché sanno dove andare, non certo per paura di essere calpestati.

    Altre volte invece gli sembra di essere nel posto sbagliato al momento giusto, un ridicolo impulso vivente con mille bisogni pressanti e poca voglia di soddisfarli che si accompagna ad un alcolizzato, uno che fa finta di essere divertito da tutto perché tutto in fondo lo deprime, uno che probabilmente morirà soffocato nel suo vomito.

    Lui e René quelle volte sono solo gli ultimi testardi resti di una bugia che è dura a morire, i grotteschi rifiuti a una fottuta vita sensata.

    Suona il campanello e il pacchetto di Marlboro è quasi vuoto, e Tommy capisce che è solo una di quelle volte.

    -Chi era

    -chi

    -alla porta

    -nessuno che poteva tirarci fuori indenni da questo buco

    -sì ma cosa voleva

    -difendere la quiete del suo appartamento da alcuni loschi figuri

    -chi

    -ehi dov’è il poliziotto buono

    -ti ho solo chiesto chi era

    -va bene cazzo, poi però voglio un bicchiere d’ acqua e una sigaretta, e un telefono

    -non fare lo stronzo

    -non fare il ciccione inquisitorio

    -era scopabile

    -necrofilo

    -un cadavere

    -quasi, si

    -quindi

    -cosa

    -chi era, chi cazzo era, mi stai fottendo il cervello

    -ok…non voglio infierire oltre, era la gentilissima padrona di casa

    -la Privetti

    -proprio

    -cosa voleva la schizo

    -proteggere il suo religioso sonno da certi sacrileghi disturbatori

    -cosa ti ha detto

    -sei troppo grasso per essere un cane molecolare

    -non era una domanda difficile

    -ma è difficile reggerti quando tieni quest’atteggiamento percussivo

    -vaffanculo non me ne frega più un cazzo

    -abbassa due watt lo stereo

    -te l’ha chiesto lei

    -no, lei mi ha chiesto di sbatterla senza alcuna dignità fino a farle perdere i sensi, io ti chiedo di abbassare la musica…la testa

    -fottiti, vai tu sei più vicino

    -secondo quale legge fisica io sarei più vicino

    -tu hai la poltrona

    -sì, ma la poltrona del cazzo è più lontana del tuo divano

    -ma il mio divano del cazzo dà le spalle allo stereo

    -ma lo stereo del cazzo è a un metro e mezzo dal tuo divano

    -io non vedo lo stereo, dovrei alzarmi e girarmi e fare tutto il giro del divano, tu sei più vicino

    in linea d’aria, e, vantaggio non trascurabile, vedi già lo stereo e sei già nell’ordine di idee di abbassare il volume

    -forse ho capito, tu sei un obeso ingombrante pezzo di merda che fa fatica ad alzarsi dal divano dopo che c’è sprofondato dentro con tutto il culo a due piazze che si porta dietro nella sua triste quotidianità intervallata da scleri premestruali come quello a cui si assiste ora

    -hai mica un ananas

    -porcalaputtana, ti ricordavo più resistente al lisergico

    -un ananas

    -hai forse visto un maledetto ananas in frigo o i baffi mi sono cresciuti così tanto

    -in frigo ho visto solo un cappio e tante lacrime, e i tuoi baffi non possono neanche chiamarsi tali

    -toccava a te trascinare il culo al super questa settimana

    -io la sapevo diversa la favola

    -questo perché il grasso ti è arrivato al cervello e hai perso pure le poche facoltà intellettuali che ancora potevi vantare, diciamo quelle standard di sopravvivenza, come ricordarsi di fare la spesa perché te lo dice lo stomaco

    -sarà, ma toccava a te

    -sarebbe toccato a me se tu non avessi ignorato il tuo turno la settimana scorsa

    -porcadiquellaputtana la settimana scorsa sono stato qui appena due ore

    -era il tuo turno e me ne sbatto se sei venuto qui a rifare il pavimento o a scoparti due scrofe nel fango

    -vado a comprare un ananas

    René sbatte la porta e rotola nella notte, impavido custode delle tradizioni e dei veri valori come non ne se ne vedono più neanche in Tirolo, calzettoni di lana verdi e ipotalamo mangiato dall’acido.

    Tommy bestemmia alla poltrona vuota, sgomento nel constatare la profondità del calco lasciato dal quarto posteriore alpestre, a cui non fa nemmeno in tempo a dire di prendere le Marlboro.

    Augusto Brentani sa di avere una dipendenza dalla masturbazione.

    Sua moglie la definirebbe malsana, ma lei è un caso particolare, usa quel termine anche quando parla della salsa tartara aperta da tre giorni.

    Le seghe di Augusto vanno aldilà dell’innocente sfogo e della pausa ricreativa, sono occasione per riflessioni profondissime e sconvolgenti, metafisica applicata alla grezza conservazione. A volte sono così impegnate che sfociano in allucinazioni che lo lasciano stordito a fissare il vuoto col fazzoletto in mano per qualche minuto.

    Una volta si è chiuso in bagno per concentrarsi su quella manza imperiale della Sharon Stone, nel romanticismo garantito dal tepore della tazza del cesso e dall’essenza al gelsomino sparata a intervalli regolari dal diffusore sopra l’armadietto. Soddisfatto il bisogno, assorto per un po’ da riflessioni inderogabili sulla vita dopo la morte, Augusto è tornato senza aloni in soggiorno per riappropriarsi del suo posto di lavoratore e marito devoto di fianco alla moglie, che però non c’era più.

    Al suo posto una letale Sharon accavallante e irrigabile si esibiva in pose circensi che non lasciavano dubbi sull’assenza di biancheria intima. Augusto non è mai andato così vicino all’infarto, e anche se sapeva che prima o poi sarebbe successo, i chili di troppo le venti sigarette i digestivi, mai avrebbe pensato di restarci proprio quando i suoi sogni più inconfessabili si erano avverati.

    Poi Sharon – centotrenta battiti al minuto – è sparita.

    Puf. Il battito cardiaco le illusioni le speranze le palle, tutto è caduto senza fare rumore.

    Un bidone dell’umido in pantofole e vestaglia gli sorrideva perplesso dal divano.

    Quando un ciccione strizzato in un costume tirolese si è buttato dentro al bar Augusto non ha sorriso, non ha alzato gli occhi al cielo, non ha cercato uno sguardo di intesa con gli impassibili pokeristi del tavolo di fianco – ha sudato freddo. Un pensiero gli ha fatto cambiare posizione sulla sedia. Che avesse fatto qualche sgarro a qualche ragazza dell’Oktoberfest su cui aveva fantasticato ieri pomeriggio? Una addirittura gli era apparsa a cena mentre assumeva la triste

    insalata impostagli dalla moglie, una bionda tutta tette e merletti con i contorni ben definiti dei desideri repressi, seduta di fianco a lui si sporgeva e gli infliggeva spietate visuali di una scollatura chilometrica.

    Il rischio che un tirolese, reduce dall’orgia di Monaco e in preda a uno schizzo di gelosia etilica, entrasse nel bar dove lui beve tutte le sere un paio di Averna era tangibile.

    Il tirolese inciampa sullo zerbino, bestemmia in italiano senza accento, lancia occhiate intorno forse per cogliere la malizia sui sorrisi dei clienti. In risposta solo espressioni prese in prestito dalle sagome dei poligoni di tiro. Unico movimento registrabile la goccia di sudore sulla tempia sinistra di Augusto, che sta facendo un’assurda smorfia nel tentativo di costringerla a restare lì, cercando nel frattempo di scorgere un piglio

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