...d'arte e d'amore...ritratto di un figlio
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Storia di vita vera, vissuta, di un amore senza fine e di tanto coraggio... Devastante resoconto sull'infanzia derubata.
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Anteprima del libro
...d'arte e d'amore...ritratto di un figlio - Paola Tiberiis
Paola Tiberiis
...d'arte e d'amore
ritratto di un figlio
" Il mio cuore si svuota senza volerlo,
come un secchio rotto"
( F. Pessoa)
M i spaventano queste pagine bianche, non ho mai scritto di nessuno.
Eppure ho il cuore straripante di ciò che voglio raccontare, di ciò che
devo raccontare; la mia mente è sopraffatta da mille parole, ma tutte
mi sembrano troppo semplici, troppo banali, inadatte ad esprimere la
pienezza e l’intensità di un amore infinito, un amore che ancora mi dà
la forza di alzarmi al mattino, un amore che va oltre la morte e che
temo di non saper descrivere, perché non è una semplice storia di vita
vissuta che voglio raccontare, ma l’esperienza di quella che per me è
stata ed è vera Vita.
E’ uno sforzo che devo a mio figlio, alla straordinaria creatura che mi
ha insegnato a vivere, affrontando la sua dolorosissima esperienza
terrena con una dignità, una forza ed un coraggio sorprendenti in un
bambino, in un ragazzo; con una volontà e un amore per la vita, che
hanno potuto trasformare le sue sofferenze e i suoi sacrifici in doni
preziosi, per sé e per chiunque gli sia stato accanto.
Ha vissuto intensamente, mio figlio, strappando la vita a morsi,
assaporandone con profetica consapevolezza ogni singolo boccone,
facendone occasione di grandi soddisfazioni, di grandi emozioni, di
momenti di assoluta felicità, fino al suo triste epilogo.
E’ stato un privilegio aver vissuto i suoi giovani anni accanto a lui,
aver condiviso con lui i momenti e gli aspetti più significativi di ogni
circostanza, lieta o dolorosa, semplice o complessa che fosse, con una
partecipazione amorosa che fa sentire alla nostra famiglia di aver
vissuto una vita degna di chiamarsi tale. Una vita che con lui io
continuo a vivere, perché lui è dentro di me, è con me in ogni mio
gesto, in ogni cosa che faccio e che facevo con lui, in ogni cosa che
accarezzo perché gli apparteneva.
Mi illudo che scrivere di mio figlio, ripercorrere su questi fogli la sua
non comune esperienza umana, possa riannodare il filo spezzato della
sua esistenza, facendolo rivivere nella mente e nel cuore di chi lo ha
conosciuto e stimato, ma anche di chi, pur avendolo frequentato, e
talora giudicato, non si è dato pena di conoscerne o solo intuirne
l’anima; mi illudo che far conoscere il dramma che ha sconvolto,
condizionato e alfine spento questa giovane vita possa cancellare,
almeno in parte, il sovrappiù di umiliazione e amarezza inflitte da
una giustizia umana cinicamente negata.
E ra il 21 ottobre 1986 quando ci trovammo davanti quella nostra
bellissima seconda sorpresa. Dico così perché mio marito ed io
abbiamo accolto i nostri due figli con l’ansia e la curiosità che hanno
i bambini quando, dopo impaziente attesa, si accingono a scartare
l’uovo di Pasqua ricevuto in dono, chiedendosi cosa mai possa
nascondere ed esplodendo poi, con occhi sgranati per lo stupore, in
esclamazioni di grande gioia. Impossibile descrivere la felicità di una
madre, di fronte al miracolo di una vita scaturita dal suo grembo!
La nostra prima sorpresa era stata una splendida bambina, che avevo
chiamato Roberta, in onore del padre. La scelta del nome fu mia,
perché mio marito riteneva che essa spettasse di diritto alla madre, in
quanto genitore che ha la parte più importante nel mettere al mondo i
figli. Dapprincipio avevo pensato al nome Margherita, perla
secondo l’etimologia greca, ma anche la nota canzone di Cocciante,
che aveva fatto da colonna sonora al nostro grande amore. Infine
pensai che fosse più bello regalare a quella figlia il nome dell’uomo
che mi stava accanto da tanti anni e che mi sopporta e sostiene ancora
adesso: quell’amore doveva dunque avere, ed ha, un nome: Roberta,
splendente di gloria
. Trovo importante conoscere l’etimologia dei
nomi da dare ai propri figli, dato che dovranno portarseli addosso
tutta la vita.
Dopo sei anni, arrivò finalmente la seconda gravidanza. Non ci è mai
interessato il sesso del nascituro, a Dio abbiamo sempre chiesto
soltanto un figlio sano, la cosa più importante. Quanto ai nomi, per
una femminuccia avevo scelto ancora Margherita, per un maschietto
Adalberto, illustre per nobiltà
, al quale aggiungere anche Maria. Se
è vero che il significato dei nomi influisce sulla personalità di chi li
porta, ora posso dire che per il mio Adi nessun altro nome sarebbe
stato più appropriato.
Adalberto Maria fece dunque il suo ingresso in questo nostro mondo
la sera di quel tiepido giorno d’autunno. Appena vide la luce, lo
posero dolcemente sul mio ventre e lì potei guardarmelo tutto,
radiografarmelo tutto, con quegli sguardi amorosi che solo un
genitore può dare al frutto del proprio amore. Quando incrociai quei
suoi occhietti che sembravano fissarmi stupiti, rimasi rapita e, con
tutta me stessa, entrai nelle sue piccole pupille, perdendomi nello
sguardo di quell’esserino spaurito che, per la prima volta, approdava
in un mondo pieno di luce, dopo mesi di buio.
Poi, di colpo, ricordai che alle mie spalle c’era Roberto, mio marito, e
vidi che era sfinito: era evidente che aveva sofferto e partorito con
me. Mi sembrò così stravolto che sentii un irrefrenabile bisogno di
premiare quella sua sofferenza e, non avendo altro modo per farlo,
sollevai istintivamente il nostro piccolo Adi verso di lui e glielo
porsi, dicendo: Tino, questo è il mio regalo per te
.
Ero sincera in quel momento, non sapevo che il tempo mi avrebbe
dimostrato che quel figlio, in realtà, l’avevo regalato soprattutto a me
stessa; ancora non sapevo che lo sguardo spaurito del piccolo essere
appena uscito dal mio ventre, fondendosi con il mio, aveva sancito tra
noi, inconsapevoli, un’intesa profonda, un legame indissolubile, la
prosecuzione di quel rapporto simbiotico nato tra le mie viscere e
che, dall’esterno, chiunque avrebbe potuto sospettare di morbosità. Io
stessa lo penso, talvolta, quando mi fermo a considerare quanta parte
abbiano avuto gli eventi nell’unirci in un legame così esclusivo e
forte.
Lo portammo a casa con un’ustione di primo grado: mentre mi
suturavano, lo avevano dimenticato nella culla termica per più di tre
ore!
Ma il tanto sospirato momento del ritorno a casa era giunto. Per
quella importante occasione, avevamo comprato un bellissimo
completino di tela jeans, tutto imbottito: la presentazione al mondo
esterno del nostro bimbo doveva essere perfetta. I complimenti si
sprecavano, era la prima volta che le infermiere vedevano uscire dalla
nursery un bel maschietto con i jeans, come per me fu la prima ed
ultima volta che vidi mio figlio in jeans, indumento che odiò tutta la
vita.
Robertina accolse il fratellino con molto entusiasmo e subito si
predispose ad assumere con serietà il ruolo di piccola mammina che
le avevamo affidato. Ci sembrava importante coinvolgerla in questa
nuova avventura familiare e lei accettò di svolgere i suoi piccoli
compiti con grande impegno, aiutarci ad accudire il fratellino la
faceva sentire importante. Mi portava i pannoloni, il talco e le
cremine, orgogliosa che avessi affidato a lei anche la scelta del
cambio dei vestitini. Penso che tutto ciò l’abbia messa al riparo da
ogni forma di gelosia, non avendo mai avuto la sensazione che ne
fosse stata sfiorata. Vedevo i due fratellini crescere in armonia e
complicità, sembravano vivere l’uno per l’altra. Ridevano, ridevano
tanto insieme, si capivano con uno sguardo, specialmente quando
facevano combutta tra loro nel farci scherzi d’ogni genere. Com’era
bello guardarli, godere di quella loro rara intesa che non venne mai
meno, una vera benedizione per noi genitori.
Dio, quanto eravamo felici, a quel tempo! Ridevamo sempre, di tutto,
eravamo una famiglia che bastava a se stessa, perché aveva tutto. Il
lavoro non mancava, avevamo una bella casa, la salute, i nostri figli
e, soprattutto, l’amore: che mai volere ancora dalla vita? I nostri figli
crescevano e noi con loro; poi c’erano i miei genitori, mia sorella
Grazia e il mio adorato nipotino Jamaal: insomma una splendida
famiglia.
Le vacanze e i fine settimana li trascorrevamo nella nostra piccola
casa-museo di montagna, come la chiamavamo noi: il nostro piccolo
angolo di Paradiso. In giardino avevamo collocato una bellissima
piscina gonfiabile per i bambini, che vi passavano intere giornate,
sguazzando, vociando, e a volte litigando, sotto gli occhi vigili di noi
adulti, che dovevamo sedare le loro piccole risse ed asciugare i pianti
che queste inevitabilmente provocavano. Poi le passeggiate nei
boschi, alla ricerca di funghi e ciclamini, e chi arrivava per primo al
rifugio senza farsi portare in braccio, poteva contare su una razione
doppia di tutto il ben di Dio che i malgari potevano offrire. Adalberto
era esonerato da tutto ciò, perché era il più piccolo, ma Tina e Jami si
guardavano bene dal fare capricci, pur di assicurarsi il maggior
numero di panini imbottiti e bibite.
A sera, distrutti, a turno sotto la doccia, poi le immancabili coccole e
infine a letto, per sprofondare in lunghe e benefiche dormite. Era così
bello fermarci a guardare i bambini mentre dormivano, così teneri e
indifesi, momenti di rilassante dolcezza, prima di consegnare le
nostre stesse stanchezze alla notte ristoratrice.
Gli anni scorrevano veloci, finché arrivò anche per Adalberto il
fatidico e tanto atteso primo giorno di scuola.
Avrebbe frequentato lo stesso prestigioso collegio della sorella, lo
storico educandato Uccellis
, ubicato nel grande chiostro adiacente
alla seicentesca Chiesa di S. Chiara, uno dei tanti gioielli d’arte della
città. La scelta era stata dettata anche dalla convinzione che la serena
autorevolezza di quel bellissimo luogo, riservato e protettivo, avrebbe
aiutato i nostri bambini ad accostarsi allo studio con rispetto e
partecipazione.
Roberta avrebbe iniziato la prima media, Adalberto la prima
elementare. I preparativi erano stati accuratissimi: la scelta degli
zainetti, dei diari, degli astucci e tutto il resto.
All’alba eravamo tutti già svegli. Adalberto era agitatissimo al
pensiero dell’ignoto che andava ad affrontare, ormai consapevole che
stava per diventare un ometto, e Tina, che in quel collegio aveva già
frequentato le elementari, lo copriva di rassicurazioni. Finalmente,
elegantissimi nei loro vestitini inglesi nuovi, i bambini furono pronti..
Era il 1992. Per la prima volta il collegio, storicamente riservato alle
sole fanciulle, aveva aperto la scuola anche ai maschietti e pertanto
tutte le bambine delle classi superiori scrutavano i nuovi arrivati con
inevitabile curiosità. Dovetti osservare che non ci misero molto,
quelle bimbette curiose, a farsi conquistare dai modi educati di
Adalberto.
Durante quel primo anno di scuola lo iscrissi ad un corso di judo, al
quale partecipavano anche i suoi compagni. Adalberto se la cavò
piuttosto bene, tanto che arrivò in finale, dove, però, si trovò a
confrontarsi con il più ciccione dei bambini. Ce la mise tutta e stava
persino per atterrarlo, ma, mentre si volgeva verso di me, per vedere
se lo stavo guardando, io feci l’errore di mandargli un bacio con la
mano: lui rispose e… zac…il ciccione ne approfittò e atterrò lui.
Addio medaglietta d’oro, ma la gioia di quel bacio ricevuto mentre
stava combattendo, sembrò compensare la delusione per quella che
non considerò mai una sconfitta.
Un giorno, eravamo verso la fine dell’anno, arrivò a casa tutto
sorridente e felice. "Mamma, mi hanno scelto per interpretare una
parte nella recita di fine anno!", mi disse con aria di trionfo. Inutile
chiedergli cosa dovesse mai fare lui, così piccolo, in una recita dei
ragazzi del liceo. Muto come un pesce!
Arrivò il fatidico giorno. Nell’Aula Magna dell’istituto tutto era
pronto. Ci accorgemmo subito che i genitori dei compagni di classe
di Adalberto non erano presenti e la cosa ci stupì molto.
Ci venne incontro l’insegnante di musica delle superiori e ci ringraziò
di aver permesso a nostro figlio di partecipare alla recita; ci disse di
averlo notato, di aver trovato in lui qualcosa di speciale e di averne
avuta conferma durante le prove. Roberto ed io ci scambiammo uno