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...d'arte e d'amore...ritratto di un figlio
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E-book291 pagine2 ore

...d'arte e d'amore...ritratto di un figlio

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Info su questo ebook

Fragilità, debolezze, gioie e lutti di una famiglia normale.
Storia di vita vera, vissuta, di un amore senza fine e di tanto coraggio... Devastante resoconto sull'infanzia derubata.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mar 2014
ISBN9788868858629
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    Anteprima del libro

    ...d'arte e d'amore...ritratto di un figlio - Paola Tiberiis

    Paola Tiberiis

    ...d'arte e d'amore

    ritratto di un figlio

    " Il mio cuore si svuota senza volerlo,

    come un secchio rotto"

    ( F. Pessoa)

    M i spaventano queste pagine bianche, non ho mai scritto di nessuno.

    Eppure ho il cuore straripante di ciò che voglio raccontare, di ciò che

    devo raccontare; la mia mente è sopraffatta da mille parole, ma tutte

    mi sembrano troppo semplici, troppo banali, inadatte ad esprimere la

    pienezza e l’intensità di un amore infinito, un amore che ancora mi dà

    la forza di alzarmi al mattino, un amore che va oltre la morte e che

    temo di non saper descrivere, perché non è una semplice storia di vita

    vissuta che voglio raccontare, ma l’esperienza di quella che per me è

    stata ed è vera Vita.

    E’ uno sforzo che devo a mio figlio, alla straordinaria creatura che mi

    ha insegnato a vivere, affrontando la sua dolorosissima esperienza

    terrena con una dignità, una forza ed un coraggio sorprendenti in un

    bambino, in un ragazzo; con una volontà e un amore per la vita, che

    hanno potuto trasformare le sue sofferenze e i suoi sacrifici in doni

    preziosi, per sé e per chiunque gli sia stato accanto.

    Ha vissuto intensamente, mio figlio, strappando la vita a morsi,

    assaporandone con profetica consapevolezza ogni singolo boccone,

    facendone occasione di grandi soddisfazioni, di grandi emozioni, di

    momenti di assoluta felicità, fino al suo triste epilogo.

    E’ stato un privilegio aver vissuto i suoi giovani anni accanto a lui,

    aver condiviso con lui i momenti e gli aspetti più significativi di ogni

    circostanza, lieta o dolorosa, semplice o complessa che fosse, con una

    partecipazione amorosa che fa sentire alla nostra famiglia di aver

    vissuto una vita degna di chiamarsi tale. Una vita che con lui io

    continuo a vivere, perché lui è dentro di me, è con me in ogni mio

    gesto, in ogni cosa che faccio e che facevo con lui, in ogni cosa che

    accarezzo perché gli apparteneva.

    Mi illudo che scrivere di mio figlio, ripercorrere su questi fogli la sua

    non comune esperienza umana, possa riannodare il filo spezzato della

    sua esistenza, facendolo rivivere nella mente e nel cuore di chi lo ha

    conosciuto e stimato, ma anche di chi, pur avendolo frequentato, e

    talora giudicato, non si è dato pena di conoscerne o solo intuirne

    l’anima; mi illudo che far conoscere il dramma che ha sconvolto,

    condizionato e alfine spento questa giovane vita possa cancellare,

    almeno in parte, il sovrappiù di umiliazione e amarezza inflitte da

    una giustizia umana cinicamente negata.

    E ra il 21 ottobre 1986 quando ci trovammo davanti quella nostra

    bellissima seconda sorpresa. Dico così perché mio marito ed io

    abbiamo accolto i nostri due figli con l’ansia e la curiosità che hanno

    i bambini quando, dopo impaziente attesa, si accingono a scartare

    l’uovo di Pasqua ricevuto in dono, chiedendosi cosa mai possa

    nascondere ed esplodendo poi, con occhi sgranati per lo stupore, in

    esclamazioni di grande gioia. Impossibile descrivere la felicità di una

    madre, di fronte al miracolo di una vita scaturita dal suo grembo!

    La nostra prima sorpresa era stata una splendida bambina, che avevo

    chiamato Roberta, in onore del padre. La scelta del nome fu mia,

    perché mio marito riteneva che essa spettasse di diritto alla madre, in

    quanto genitore che ha la parte più importante nel mettere al mondo i

    figli. Dapprincipio avevo pensato al nome Margherita, perla

    secondo l’etimologia greca, ma anche la nota canzone di Cocciante,

    che aveva fatto da colonna sonora al nostro grande amore. Infine

    pensai che fosse più bello regalare a quella figlia il nome dell’uomo

    che mi stava accanto da tanti anni e che mi sopporta e sostiene ancora

    adesso: quell’amore doveva dunque avere, ed ha, un nome: Roberta,

    splendente di gloria. Trovo importante conoscere l’etimologia dei

    nomi da dare ai propri figli, dato che dovranno portarseli addosso

    tutta la vita.

    Dopo sei anni, arrivò finalmente la seconda gravidanza. Non ci è mai

    interessato il sesso del nascituro, a Dio abbiamo sempre chiesto

    soltanto un figlio sano, la cosa più importante. Quanto ai nomi, per

    una femminuccia avevo scelto ancora Margherita, per un maschietto

    Adalberto, illustre per nobiltà, al quale aggiungere anche Maria. Se

    è vero che il significato dei nomi influisce sulla personalità di chi li

    porta, ora posso dire che per il mio Adi nessun altro nome sarebbe

    stato più appropriato.

    Adalberto Maria fece dunque il suo ingresso in questo nostro mondo

    la sera di quel tiepido giorno d’autunno. Appena vide la luce, lo

    posero dolcemente sul mio ventre e lì potei guardarmelo tutto,

    radiografarmelo tutto, con quegli sguardi amorosi che solo un

    genitore può dare al frutto del proprio amore. Quando incrociai quei

    suoi occhietti che sembravano fissarmi stupiti, rimasi rapita e, con

    tutta me stessa, entrai nelle sue piccole pupille, perdendomi nello

    sguardo di quell’esserino spaurito che, per la prima volta, approdava

    in un mondo pieno di luce, dopo mesi di buio.

    Poi, di colpo, ricordai che alle mie spalle c’era Roberto, mio marito, e

    vidi che era sfinito: era evidente che aveva sofferto e partorito con

    me. Mi sembrò così stravolto che sentii un irrefrenabile bisogno di

    premiare quella sua sofferenza e, non avendo altro modo per farlo,

    sollevai istintivamente il nostro piccolo Adi verso di lui e glielo

    porsi, dicendo: Tino, questo è il mio regalo per te.

    Ero sincera in quel momento, non sapevo che il tempo mi avrebbe

    dimostrato che quel figlio, in realtà, l’avevo regalato soprattutto a me

    stessa; ancora non sapevo che lo sguardo spaurito del piccolo essere

    appena uscito dal mio ventre, fondendosi con il mio, aveva sancito tra

    noi, inconsapevoli, un’intesa profonda, un legame indissolubile, la

    prosecuzione di quel rapporto simbiotico nato tra le mie viscere e

    che, dall’esterno, chiunque avrebbe potuto sospettare di morbosità. Io

    stessa lo penso, talvolta, quando mi fermo a considerare quanta parte

    abbiano avuto gli eventi nell’unirci in un legame così esclusivo e

    forte.

    Lo portammo a casa con un’ustione di primo grado: mentre mi

    suturavano, lo avevano dimenticato nella culla termica per più di tre

    ore!

    Ma il tanto sospirato momento del ritorno a casa era giunto. Per

    quella importante occasione, avevamo comprato un bellissimo

    completino di tela jeans, tutto imbottito: la presentazione al mondo

    esterno del nostro bimbo doveva essere perfetta. I complimenti si

    sprecavano, era la prima volta che le infermiere vedevano uscire dalla

    nursery un bel maschietto con i jeans, come per me fu la prima ed

    ultima volta che vidi mio figlio in jeans, indumento che odiò tutta la

    vita.

    Robertina accolse il fratellino con molto entusiasmo e subito si

    predispose ad assumere con serietà il ruolo di piccola mammina che

    le avevamo affidato. Ci sembrava importante coinvolgerla in questa

    nuova avventura familiare e lei accettò di svolgere i suoi piccoli

    compiti con grande impegno, aiutarci ad accudire il fratellino la

    faceva sentire importante. Mi portava i pannoloni, il talco e le

    cremine, orgogliosa che avessi affidato a lei anche la scelta del

    cambio dei vestitini. Penso che tutto ciò l’abbia messa al riparo da

    ogni forma di gelosia, non avendo mai avuto la sensazione che ne

    fosse stata sfiorata. Vedevo i due fratellini crescere in armonia e

    complicità, sembravano vivere l’uno per l’altra. Ridevano, ridevano

    tanto insieme, si capivano con uno sguardo, specialmente quando

    facevano combutta tra loro nel farci scherzi d’ogni genere. Com’era

    bello guardarli, godere di quella loro rara intesa che non venne mai

    meno, una vera benedizione per noi genitori.

    Dio, quanto eravamo felici, a quel tempo! Ridevamo sempre, di tutto,

    eravamo una famiglia che bastava a se stessa, perché aveva tutto. Il

    lavoro non mancava, avevamo una bella casa, la salute, i nostri figli

    e, soprattutto, l’amore: che mai volere ancora dalla vita? I nostri figli

    crescevano e noi con loro; poi c’erano i miei genitori, mia sorella

    Grazia e il mio adorato nipotino Jamaal: insomma una splendida

    famiglia.

    Le vacanze e i fine settimana li trascorrevamo nella nostra piccola

    casa-museo di montagna, come la chiamavamo noi: il nostro piccolo

    angolo di Paradiso. In giardino avevamo collocato una bellissima

    piscina gonfiabile per i bambini, che vi passavano intere giornate,

    sguazzando, vociando, e a volte litigando, sotto gli occhi vigili di noi

    adulti, che dovevamo sedare le loro piccole risse ed asciugare i pianti

    che queste inevitabilmente provocavano. Poi le passeggiate nei

    boschi, alla ricerca di funghi e ciclamini, e chi arrivava per primo al

    rifugio senza farsi portare in braccio, poteva contare su una razione

    doppia di tutto il ben di Dio che i malgari potevano offrire. Adalberto

    era esonerato da tutto ciò, perché era il più piccolo, ma Tina e Jami si

    guardavano bene dal fare capricci, pur di assicurarsi il maggior

    numero di panini imbottiti e bibite.

    A sera, distrutti, a turno sotto la doccia, poi le immancabili coccole e

    infine a letto, per sprofondare in lunghe e benefiche dormite. Era così

    bello fermarci a guardare i bambini mentre dormivano, così teneri e

    indifesi, momenti di rilassante dolcezza, prima di consegnare le

    nostre stesse stanchezze alla notte ristoratrice.

    Gli anni scorrevano veloci, finché arrivò anche per Adalberto il

    fatidico e tanto atteso primo giorno di scuola.

    Avrebbe frequentato lo stesso prestigioso collegio della sorella, lo

    storico educandato Uccellis, ubicato nel grande chiostro adiacente

    alla seicentesca Chiesa di S. Chiara, uno dei tanti gioielli d’arte della

    città. La scelta era stata dettata anche dalla convinzione che la serena

    autorevolezza di quel bellissimo luogo, riservato e protettivo, avrebbe

    aiutato i nostri bambini ad accostarsi allo studio con rispetto e

    partecipazione.

    Roberta avrebbe iniziato la prima media, Adalberto la prima

    elementare. I preparativi erano stati accuratissimi: la scelta degli

    zainetti, dei diari, degli astucci e tutto il resto.

    All’alba eravamo tutti già svegli. Adalberto era agitatissimo al

    pensiero dell’ignoto che andava ad affrontare, ormai consapevole che

    stava per diventare un ometto, e Tina, che in quel collegio aveva già

    frequentato le elementari, lo copriva di rassicurazioni. Finalmente,

    elegantissimi nei loro vestitini inglesi nuovi, i bambini furono pronti..

    Era il 1992. Per la prima volta il collegio, storicamente riservato alle

    sole fanciulle, aveva aperto la scuola anche ai maschietti e pertanto

    tutte le bambine delle classi superiori scrutavano i nuovi arrivati con

    inevitabile curiosità. Dovetti osservare che non ci misero molto,

    quelle bimbette curiose, a farsi conquistare dai modi educati di

    Adalberto.

    Durante quel primo anno di scuola lo iscrissi ad un corso di judo, al

    quale partecipavano anche i suoi compagni. Adalberto se la cavò

    piuttosto bene, tanto che arrivò in finale, dove, però, si trovò a

    confrontarsi con il più ciccione dei bambini. Ce la mise tutta e stava

    persino per atterrarlo, ma, mentre si volgeva verso di me, per vedere

    se lo stavo guardando, io feci l’errore di mandargli un bacio con la

    mano: lui rispose e… zac…il ciccione ne approfittò e atterrò lui.

    Addio medaglietta d’oro, ma la gioia di quel bacio ricevuto mentre

    stava combattendo, sembrò compensare la delusione per quella che

    non considerò mai una sconfitta.

    Un giorno, eravamo verso la fine dell’anno, arrivò a casa tutto

    sorridente e felice. "Mamma, mi hanno scelto per interpretare una

    parte nella recita di fine anno!", mi disse con aria di trionfo. Inutile

    chiedergli cosa dovesse mai fare lui, così piccolo, in una recita dei

    ragazzi del liceo. Muto come un pesce!

    Arrivò il fatidico giorno. Nell’Aula Magna dell’istituto tutto era

    pronto. Ci accorgemmo subito che i genitori dei compagni di classe

    di Adalberto non erano presenti e la cosa ci stupì molto.

    Ci venne incontro l’insegnante di musica delle superiori e ci ringraziò

    di aver permesso a nostro figlio di partecipare alla recita; ci disse di

    averlo notato, di aver trovato in lui qualcosa di speciale e di averne

    avuta conferma durante le prove. Roberto ed io ci scambiammo uno

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