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I segreti di Mydeklaine
I segreti di Mydeklaine
I segreti di Mydeklaine
E-book612 pagine9 ore

I segreti di Mydeklaine

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Info su questo ebook

Due sorelle divise e in lotta, un grande potere, una terribile leggenda tramandata da secoli e un amore che non conosce tempo. Quello di Axel Leinghton sarà un percorso alla ricerca delle sue radici. Di paura. Di coraggio. Di riscoperta. Di amore. Axel è una diciassettenne di una piccola cittadina del Tennessee che dalla vita non si aspetta altro che un futuro stabile, normale. Tuttavia il suo concetto di normalità viene stravolto dall’arrivo di Chreos e dalle sue rivelazioni. La verità si abbatterà su di lei in maniera talmente prorompente da lasciarla senza fiato e senza certezze.

Cosa succede quando si scopre che tutto ciò che abbiamo sempre considerato normale, in realtà non lo è? Entra in gioco la paura. Paura di non sapere cosa succederà, paura di orientarsi in un nuovo mondo – Mydeklaine –, paura di scoprire la sua storia fin troppo dolorosa. Ecco allora che subentra il coraggio. Il coraggio di accettarsi, di comprendere, di andare avanti, di riscoprirsi. Il lungo cammino che la porterà finalmente ad ambientarsi nella sua nuova vita presenta non pochi intoppi. Ma, alla fine, cosa può fermare una persona veramente decisa ad andare fino in fondo?
LinguaItaliano
EditoregoWare
Data di uscita28 ott 2015
ISBN9788867974368
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    Anteprima del libro

    I segreti di Mydeklaine - Federica Sabatucci

    © goWare 2015, Firenze, prima edizione digitale italiana

    ISBN 978-88-6797-436-8

    Redazione: Donatella Valente

    Copertina: Lorenzo Puliti

    Sviluppo ePub: Elisa Baglioni

    goWare è una startup fiorentina specializzata in digital publishing

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    Questo romanzo lo dedico all’insicura Federica sedicenne, che ha trovato il coraggio di iniziare quel che la Federica ventunenne ha poi portato a termine

    Presentazione

    Due sorelle divise e in lotta, un grande potere, una terribile leggenda tramandata da secoli e un amore che non conosce tempo. Quello di Axel Leinghton sarà un percorso alla ricerca delle sue radici. Di paura. Di coraggio. Di riscoperta. Di amore. Axel è una diciassettenne di una piccola cittadina del Tennessee che dalla vita non si aspetta altro che un futuro stabile, normale. Tuttavia il suo concetto di normalità viene stravolto dall’arrivo di Chreos e dalle sue rivelazioni. La verità si abbatterà su di lei in maniera talmente prorompente da lasciarla senza fiato e senza certezze. Cosa succede quando si scopre che tutto ciò che abbiamo sempre considerato normale, in realtà non lo è? Entra in gioco la paura. Paura di non sapere cosa succederà, paura di orientarsi in un nuovo mondo – Mydeklaine –, paura di scoprire la sua storia fin troppo dolorosa. Ecco allora che subentra il coraggio. Il coraggio di accettarsi, di comprendere, di andare avanti, di riscoprirsi. Il lungo cammino che la porterà finalmente ad ambientarsi nella sua nuova vita presenta non pochi intoppi. Ma, alla fine, cosa può fermare una persona veramente decisa ad andare fino in fondo?

    * * *

    Federica Sabatucci nasce a Roma nel 1994. La sua passione per la scrittura è nata intorno ai 16 anni, quando ha iniziato a buttare giù la prima versione dei Segreti di Mydeklaine. La Federica adolescente non avrebbe mai pensato di poter arrivare a pubblicarlo, né tantomeno che la scrittura potesse diventare un suo hobby, eppure è proprio quello che è successo.

    Prologo

    Mydeklaine, 6 dicembre 1994

    Selene ricade all’indietro sulle lenzuola candide del letto a baldacchino. Si lascia sfuggire una lacrima di dolore che le scorre su una tempia e cade sul cuscino. Il pianto della seconda bambina appena nata le entra violentemente nelle orecchie. Rilassa la mano che è rimasta avvinghiata per un tempo interminabile al lenzuolo e si concede qualche secondo di riposo dopo tutta la fatica delle ultime ore.

    È una sensazione strana quella che prova. Il dolore del parto è stato ovattato da un incantesimo ed è più che altro un fastidio lento e prolungato. Clizia, la sua migliore amica, ha cercato di evitarle almeno quello: il dolore. Quello fisico, se non altro.

    Il sussurro dell’amica indirizzato a una delle sue bambine le dà la forza di scuotersi e di tornare con la mente al presente. A quella casa di campagna decadente e lasciata alle intemperie che odora di muffa e legno bagnato. Al vento che si abbatte con forza sulle deboli impalcature della struttura.

    Con fatica la ragazza alza la testa dal cuscino per guardare Clizia ripulire le bambine in una bacinella di ferro. Un sorriso spontaneo irradia il suo viso pallido. Selene raccoglie le ultime forze che le sono rimaste e si mette seduta, appoggiandosi con la schiena contro la testata di legno massiccia. Guarda la veste bianca macchiata di sangue in più punti e sospira lentamente scansandosi dalla nuca i capelli sudati e arruffati. L’effetto analgesico sta via via scomparendo e il leggero fastidio nel basso ventre comincia a farsi sempre più consistente.

    Selene non sa esattamente cosa dovrebbe provare, se gioia o dolore, felicità o rabbia. Del momento così bello ma allo stesso tempo straziante come quello che sta vivendo avrebbe voluto essere solamente spettatrice e non protagonista.

    Durante le settimane passate a cercare di immedesimarsi in questa situazione non aveva neanche lontanamente immaginato che il dolore sarebbe stato così lacerante. Il suo cuore è totalmente avvolto da un filo spinato che mano a mano sembra affondare sempre più in profondità. E fa male.

    «Cliz» sussurra debolmente allungando le braccia nella sua direzione «Dammele.»

    L’altra ragazza si volta a guardarla ignorando per un momento la piccola che mugola fra le sue mani ancora sporche di sangue.

    «Sei sicura? Sarà più difficile dopo.»

    «Voglio vederle» risponde semplicemente Selene con un filo d’impazienza, tenendo puntati gli occhi sulle figlie appena nate.

    La strega dai lunghi capelli castani raccolti in una treccia annuisce comprensiva.

    «Dammi solo un minuto» risponde finendo di lavarle.

    Clizia attraversa la stanza spoglia e polverosa, fa il giro del letto e adagia le bambine tra le braccia dell’amica.

    All’improvviso la stanchezza e i primi accenni di dolore svaniscono di colpo e l’attenzione di Selene si riversa completamente sulle due creature che la guardano tranquille dal basso. I loro visini sono leggermente arrossati dallo sforzo e i capelli ancora appiccicati sulla testa.

    A lei sembrano senza dubbio le più belle bambine che abbia mai visto. Sangue del suo sangue, carne della sua carne. Sono proprio le due bimbe che ha tenuto dentro di sé per nove lunghi mesi, l’unica cosa che le ha dato la forza di andare avanti, di pianificare un futuro migliore. L’unica cosa che le ha dato speranza anche quando sembrava che non potesse essercene.

    «Sono bellissime» esclama facendosi scappare una lacrima, di felicità questa volta.

    «Già, sono stupende» Clizia sorride con dolcezza e le sfiora una guancia con due dita. «Chi è chi?»

    «Lei è Axel» risponde Selene guardando la bambina che tiene sul braccio destro «e lei invece è Ceylon» conclude guardando quella sul sinistro.

    «Non le riconoscerai mai!» scherza la strega asciugandosi gli occhi lucidi.

    «Certo che le riconoscerò» ribatte Selene sorridendo a sua volta. Quando riabbassa lo sguardo sulle due gemelle gli angoli della bocca tornano a tendere verso il basso. «Ce la faremo, vero? Andrà tutto bene.»

    La giovane accanto a lei rimane in silenzio. Ce l’avrebbero fatta sul serio? Come può dirle di sì quando, in realtà, neanche lei ne è tanto sicura? Vedere la sua migliore amica in quelle condizioni la distrugge, ma quel che è ancora peggio è sapere di non poter fare nulla a riguardo. Anzi, è stata proprio lei a causare questo disastro.

    «Certo, ce la faremo» risponde Clizia sfoderando un falso sorriso rassicurante.

    «Magari le vedrò ancora… un giorno. Magari quando saranno un po’ più grandi.»

    «Sì Sel, magari sarà così.»

    Clizia le volta le spalle per concederle un po’ d’intimità. Si avvia verso la porta con estrema lentezza, quasi volesse guadagnare più tempo possibile. Purtroppo il massimo che può ricavare è una manciata di secondi.

    La donna abbassa la maniglia e mette il viso fuori dalla porta. Un vento gelido le scompiglia i capelli e la fa rabbrividire.

    «Adesso puoi entrare» dice all’uomo che aspetta appoggiato al muro di mattoni.

    Chreos Duveston abbandona il vento freddo di quella notte invernale ed entra nella vecchia villa abbandonata della sua famiglia. Appena accede alla stanza illuminata, disordinata e dall’aspetto malsano – sicuramente poco adatta ad accogliere una donna in travaglio – guarda addolorato la scena che gli appare davanti: una madre appena ventiduenne che deve dire addio alle bambine che non ha avuto il tempo di conoscere.

    Il mantello zuppo dello stregone fa gocciolare un po’ di pioggia sul pavimento. Chreos si abbassa il cappuccio sulle spalle e cerca sconsolato gli occhi di Clizia. Questa risponde al suo sguardo con la stessa intensità. La forza di quel breve contatto visivo li induce a spostare l’attenzione su un punto indefinito della parete di fronte.

    «Myrkus?» chiede la donna nel tentativo di intavolare una conversazione e concedere così ancora qualche secondo all’amica.

    «È con Tanya, stai tranquilla. Thereo e Kouros hanno sparato in aria meno di dieci minuti fa, stanno bene.»

    Clizia annuisce. «Mi chiedo se stiamo facendo la cosa giusta…»

    «Cliz» la interrompe Chreos mettendole le mani sulle spalle «la stiamo facendo, te l’assicuro. Non dubitarne mai.»

    Selene si accorge solo in quel momento della presenza dello stregone e, non appena lo vede, si apre in un largo sorriso.

    «Chreos! Vieni, vieni a vederle.»

    Chreos si sforza di mostrarsi rilassato e le va vicino per osservare meglio le neonate. Piega appena le labbra in un sorriso.

    «Sono meravigliose» dice con gli occhi pieni d’amore.

    «Vero?»

    Chreos si china su di lei, le scansa i capelli sudati dal viso e le lascia un bacio sulla fronte.

    Selene sorride ancora di più, illuminando il suo volto stanco e segnato dalla fatica. Ma lei conosce bene quello stregone e, in tanti anni di amicizia, ha imparato a comprendere ogni piccola sfaccettatura del suo carattere. Per capirlo, infatti, le basta guardarlo in faccia.

    Quello che le sta comunicando adesso è chiaro. La gioia del momento ha fatto passare in secondo piano tutto il resto, così, quando le sovviene quello che deve fare, non può fare a meno di sentire le lacrime salire di nuovo. Dovrebbe essersi abituata ormai all’idea, ma come si può accettare un destino del genere? Perché è toccato proprio alle sue due meravigliose bambine?

    Le stringe ancora più forte contro il petto e lascia un bacio sul nasino di Ceylon.

    «Selene» interviene Chreos tradendo una nota di dolore nella voce, «non c’è tempo.»

    «Chreos, aspetta» lo ammonisce Clizia mettendogli una mano sul braccio. «Anch’io sono una madre e posso solo immaginare come si senta adesso.»

    «Dov’è Stephen?» domanda Selene nel bel mezzo di una crisi di pianto. «Devo fargliele prima vedere. Non posso farle passare senza che lui le abbia conosciute.»

    I suoi due amici si scambiano uno sguardo fugace.

    «Stephen non è venuto» risponde lo stregone guardandosi i piedi. «Gli avevo detto di venire al solito posto per portarlo qui, ma non si è fatto vedere.»

    «Non è possibile. Stephen non lo avrebbe mai fatto, non mi avrebbe mai lasciato così. Ci deve essere stato per forza un imprevisto.»

    «È un umano!» sbotta Chreos impaziente. «È un vigliacco per natura!»

    Clizia si siede sul letto e inizia ad accarezzare i capelli dell’amica, che è tornata a piangere a singhiozzi. Chiude gli occhi e spera di riuscire in qualche modo ad assorbire tutta la sua tristezza per renderle più facile quel momento. Se fosse possibile lo farebbe senza pensarci due volte. Purtroppo, però, l’unica cosa che può fare è stringerla forte a sé, darle tutto l’affetto che può e sperare che possa bastare.

    «Non è giusto Cliz» si dispera Selene stringendo convulsamente le due creature senza dare alcun segno di volerle lasciare. «Che cosa hanno fatto di male? Loro sono innocenti.»

    «Lo so, lo so. Ma pensa al loro futuro, pensa a cosa potrebbero andare incontro. Tu non vuoi condannarle a tutto ciò, non è così? Trova la forza e fallo per il loro bene.»

    «Mi dispiace interrompervi ma stanno arrivando» dice a un tratto lo stregone chiudendo gli occhi per riaprirli subito dopo. «Dobbiamo muoverci o non ce la faremo. Selene, per favore, abbiamo bisogno di te.»

    Per Selene quelle parole sono come un getto d’acqua gelata. Sentire che le sue figlie sono in pericolo è la scintilla che le serve per riprendere la lucidità e seguire il piano che avevano attentamente studiato in tutti quei mesi. Le guarda per l’ultima volta lasciando a ciascuna un bacio sulla fronte. Si tira su e fa cenno all’amica di prenderle.

    «Mi ci vorrà un po’» avverte Clizia prendendo tra le braccia una delle due bambine. «Non posso portarle entrambe nel varco, dovrò farlo una alla volta.»

    Chreos si affianca di nuovo a Selene e le mette una mano sulla spalla con fare protettivo. La strega lo guarda dal basso con i suoi occhi grandi e spaventati.

    «Thereo e Kouros non li fermeranno a lungo, loro sono in tanti.»

    Clizia mette la mano libera sul disegno fatto con il gesso solo qualche ora prima sulla parete di legno. Questo si illumina sotto il suo tocco e fa brillare tutta la stanza con i suoi colori rossastri.

    «Fidati di me Sel, le porterò in un luogo sicuro» dice all’amica con decisione.

    «Spero solo che Thereo e Tanya abbiano ragione sui Leinghton, morirei se sapessi che mia figlia è in una casa dove non è amata.»

    «Stai tranquilla» interviene Chreos. «Non affideremmo mai la tua bambina a qualcuno di cui non ci fidiamo.»

    Selene annuisce con un velo di tristezza. «Lei è Axel» specifica con voce tremante.

    Clizia si asciuga la guancia bagnata con il dorso della mano.

    «Buona fortuna figlia mia, te ne servirà» sussurra la giovane guardando la neonata per l’ultima volta.

    Clizia punta lo sguardo al centro del disegno e inizia a parlare sottovoce in una lingua sconosciuta. Dopo pochi secondi, un turbine di vento freddo fa volare via gli oggetti e i fogli di carta abbandonati sul tavolo. Le tende malconce delle finestre si muovono in maniera spettrale, ricordando vagamente i movimenti di un fantasma.

    Chreos guarda Clizia con preoccupazione. In fondo è solo un’apprendista e usare tutto quel potere può essere pericoloso per chi è ancora alle prime armi. Ma la ragazza ha tutte le potenzialità per diventare anche più forte di sua nonna, una delle streghe più potenti del paese che ha voltato le spalle a sua nipote e all’intero Ordine dei Protettori per vendersi al nemico.

    «Clizia, è tutto ok?» chiede lo stregone vedendola immobile e perplessa davanti a quel fascio di luce.

    «Sì, credo di sì.»

    La strega prende un profondo respiro e sta per fare un passo in avanti per entrare nel portale, quando una porta sbatte e voci estranee invadono il silenzio. Bleikon e i suoi due scagnozzi guardano confusi la scena e, quando capiscono cosa sta facendo la ragazza, iniziano a scagliare incantesimi dove capita.

    Clizia è costretta a fare un salto indietro per evitarne uno, poi un altro e un altro ancora, allontanandosi sempre di più dal varco. In un attimo la stanza si riempie di fulmini rossi e gialli e gli oggetti volano alla rinfusa, andandosi a schiantare contro i muri di legno scuro.

    «Fermi, non vogliamo fare del male a nessuno» fa lo stregone oscuro facendo segno ai suoi di interrompere gli incantesimi. «Dateci le bambine e ce ne andremo senza torcervi un capello.»

    «Mai!» grida Selene cercando di proteggere la bambina che ha in braccio. «State lontani dalle mie figlie. Vi state sbagliando, non sono loro le gemelle che state cercando!»

    Chreos le mette una mano sul braccio e le fa segno di tacere, gli occhi sempre puntati sugli uomini di fronte a lui.

    Un lampo di perfida dolcezza attraversa fugacemente il viso pallido di Bleikon. «Cara, non devi aver paura. Noi vogliamo dare alle tue bellissime figlie un futuro d’oro, abbiamo in mente grandi cose per loro. Non vogliamo fargli del male. Per noi sono il più prezioso tesoro che esista e le tratteremo come tali, te lo prometto.»

    «Andate via, qui non c’è niente di quello che cercate» tuona Chreos.

    «Io dico di sì, invece» risponde uno scagnozzo dalla faccia rugosa e piena di orrende cicatrici.

    «Vi ho detto di andare» insiste lo stregone alzando i palmi delle mani in avanti. «Lasciate stare queste povere creature.»

    «D’accordo, come volete voi» sorride maligno Bleikon.

    Dopo il breve attimo di tregua gli incantesimi ricominciano a schiantarsi in ogni parte della stanza, mentre boati e scosse fanno crollare assi di legno e volare tegole dal tetto. La polvere ormai è dappertutto e la struttura non reggerà ancora per molto. Urla, tonfi, botti ed esplosioni fanno da assordante sottofondo alla lotta.

    Clizia rimane ferma senza sapere cosa fare. Deve aiutare i suoi amici o deve mettere in salvo la neonata come le hanno ordinato di fare? Deve scegliere, sapendo benissimo che, aiutando uno di loro, ne lascerà indietro un altro. Qualunque sarà la sua scelta, questa notte condannerà a morte qualcuno.

    La donna si volta a guardare il volto straziato della sua migliore amica e per poco non torna sui suoi passi per aiutarla.

    «Clizia, sbrigati» le urla Chreos dalla mischia. «Ricordati il piano. Vai!»

    La strega si gira verso il disegno, fa una corsa per raggiungerlo e vi entra dentro.

    «No!» urla uno scagnozzo scrollandosi di dosso Chreos per correre verso di lei.

    Mentre il varco pian piano si chiude, Clizia assiste alla scena che mai avrebbe voluto vedere.

    Selene, nel tentativo di proteggere sua figlia, scende traballante dal letto. Piangendo e gridando disperatamente lancia globi di fuoco. La piccola Ceylon, intanto, muove le gambe e le braccia, spaventata dal frastuono e dal trambusto.

    A un tratto Selene viene colpita al petto da un incantesimo e incurva le spalle in modo del tutto innaturale. Sbarra gli occhi e, senza nemmeno fiatare, cade all’indietro sul pavimento freddo, lasciando scivolare la bambina al suo fianco.

    Chreos grida disperato e arranca verso la neonata per metterla in salvo, un rivolo di sangue gli riga la guancia. Vedendo uno scagnozzo dirigersi verso il varco, lo stregone cambia idea e con un movimento repentino gli afferra la gamba. Con uno strattone lo fa cadere a terra.

    Ceylon piange, dimenandosi accanto al corpo ormai senza vita della madre. Bleikon si abbassa, afferra la bambina con le sue mani lunghe e affusolate sorridendo malignamente. Si volta nella direzione di Clizia spegnendo il sorriso in un’espressione di rabbia: l’altra gemella sta per essere portata via.

    Messo al tappeto lo scagnozzo, Chreos striscia carponi verso Clizia. In preda al panico, la donna allunga una mano per tirarlo a sé nel varco. Bleikon emette un grido lungo e acuto che deforma il suo viso pallido e scheletrico in una smorfia.

    Ma oramai è troppo tardi: il varco è chiuso.

    Capitolo 1

    Jackson, Tennessee, 6 dicembre 2011

    La sveglia si accende come sempre alle sette e si sintonizza automaticamente sul canale radio che dà il buongiorno a tutta la costa orientale degli Stati Uniti. La voce chiara e ben impostata dello speaker radiofonico riempie la cameretta, annunciando un tempo nuvoloso e cupo ma senza precipitazioni.

    Sbuffo, mi rigiro sotto il caldo piumone e allungo svogliatamente un braccio in direzione del tasto di spegnimento della sveglia. Con un colpo poco aggraziato lo premo e l’apparecchio infernale cessa il suo lamento.

    Valuto se ce la faccio a rimanere a letto per qualche altro minuto senza riaddormentarmi – come invece succede quasi sempre costringendomi a fare tutto di fretta – ma sono certa che Morfeo verrebbe a farmi visita nel giro di un minuto. Decido così di tirarmi via il piumone da dosso e mettere i piedi a terra.

    Il mio primo pensiero è un’imprecazione poco femminile riguardo al freddo della camera comparato al calduccio del letto, ma il secondo mi accende l’ombra di un sorriso sulle labbra: è il giorno del mio compleanno. Mi aggrappo a quel pensiero per decidermi ad andare in bagno e prepararmi alla nuova giornata. Prendo lo spazzolino, ci metto sopra il dentifricio e inizio a spazzolare i denti.

    Il giorno del mio compleanno è uno dei pochi in cui sono contenta di andare a scuola visto che, ovviamente, tutti sono carini con me e fanno di tutto per compiacermi. Soprattutto i miei genitori, Mark e Carol.

    Veramente, loro non sono i miei genitori biologici. Me lo hanno detto due anni fa, in una calda sera d’estate, mentre mangiavamo carne arrosto in giardino. Per me è stato un duro colpo, ma dopo quella rivelazione ho capito tante cose, fra tutte perché non ci assomigliamo affatto.

    Mi ero sempre chiesta da chi avessi ripreso gli occhi azzurri, visto che i geni della mia famiglia non lasciavano fraintendimenti: da generazioni nessun bambino era nato con gli occhi chiari, al contrario, tutti avevano ereditato un color cioccolato, quasi nero. Da dove erano usciti, allora, quei due zaffiri brillanti che spiccano sulla mia carnagione chiara? Questo mistero adesso ha una risposta.

    Ho fantasticato molto sull’identità dei miei veri genitori, facendo mille congetture sulla loro provenienza e, soprattutto, sul perché mi avessero abbandonata. Mark e Carol mi hanno detto solo che, in una notte fredda e nebbiosa di un 6 dicembre di diciassette anni fa, una coppia spaventata e senza forze si presentò alla loro porta con una neonata in braccio. Dissero che non erano i genitori della bambina e che dovevano cercarle una famiglia visto che loro non potevano dargliela.

    Mark e Carol mi hanno raccontato che si guardarono e scoppiarono a ridere pensando a uno scherzo. Ma la donna mise improvvisamente la neonata nelle braccia di Carol e, con una smorfia di spavento e chiedendo scusa, scappò via insieme al suo compagno.

    All’epoca poco più che ventenni e sposati da poco, mi hanno confessato che non sapevano cosa fare e che decisero di portarmi l’indomani in un orfanotrofio per darmi a chi davvero fosse stato pronto a crescermi. Ma quel domani non arrivò mai. Gli bastò una notte per affezionarsi a quel piccolo essere appena capace di piangere, così mi hanno tenuto e mi hanno tirato su come se fossi veramente figlia loro.

    Dopo aver finito di lavarmi, indosso un maglioncino verde bottiglia, un paio di leggins, le mie Converse preferite e mi fiondo giù per la colazione. Mmm, ho veramente fame.

    «Tanti auguri tesoro» fa mia madre vedendo entrare la sua bambina ormai diciassettenne in cucina.

    Accetto il suo abbraccio e mi stringo forte a lei ficcando il naso, come al solito, tra il collo e la clavicola. Lei mi prende sempre in giro perché dice che è un gesto che faccio sin da quando ero piccola, ma non posso farne a meno, mi piace annusare il suo odore. Sa di casa, di protezione.

    «Grazie» rispondo prendendo posto accanto a mio padre che come tutte le mattine è intento a sfogliare un quotidiano.

    «Auguri briciola» fa lui staccando gli occhi dal giornale per farmi una carezza dolce su una guancia.

    Alzo automaticamente gli occhi al cielo non appena sento il soprannome che da anni mi ha appioppato e che non riesco più a scollarmi di dosso. Per fortuna Mark ha il buonsenso di non chiamarmi in quel modo davanti ai miei amici.

    «Grazie papà.»

    Mio padre è vestito di tutto punto con il suo completo preferito, quello grigio scuro, che abbina sempre con la cravatta a righe blu e nere e una camicia bianca. Sono talmente abituata a vederlo vestito in quel modo così formale che quando la domenica gira in abiti casual quasi mi sembra strano. Ma in fondo l’abbigliamento formale è un must per il direttore generale di un’importante banca.

    Come da routine, mia madre si destreggia pimpante tra i fornelli canticchiando contenta. Mi sono sempre chiesta come faccia a essere così di buonumore anche dopo un’alzataccia, ma ogni volta che glielo faccio notare lei alza le spalle e continua a cantare vecchie canzoni sprigionando euforia e positività.

    Carol è senz’altro una delle persone più buone e ottimiste che conosco e questo è uno dei principali motivi per cui le voglio così tanto bene. Sa sempre trovare le parole giuste per consolarmi e, nonostante il mio caratteraccio, è una delle poche persone che sa come prendermi.

    «Oggi ho preparato la tua colazione preferita» esclama lei mettendomi sotto il naso un piatto di frittelle accompagnate da un po’ di marmellata alle ciliegie. «Mangia quanto vuoi e poi ti accompagniamo a scuola.»

    «Perché?»

    Mi accompagnano a scuola? Sono per caso impazziti? Di solito mi lasciano prendere la vecchia utilitaria di mio padre che, nonostante gli anni e i numerosi acciacchi, va ancora una meraviglia.

    Mi immobilizzo tenendo la forchetta sospesa in aria. Forse è per tutta quella storia della multa per velocità eccessiva rimediata qualche giorno fa. Ora non si fidano più a lasciarmi guidare? Per una piccola multa, la prima in tutta la mia vita?

    «Il tuo professore di inglese ci ha fatto chiamare per un colloquio, non ti ricordi?» risponde Mark ripiegando accuratamente il giornale.

    Rilasso impercettibilmente le spalle ed esulto interiormente, grata di averla scampata per questa volta.

    «Ah sì, è vero.»

    «Sei sicura di non avere la minima idea di quale sia il motivo, signorina?» chiede mio padre scrutandomi con i suoi occhi scuri e così penetranti che, come al solito, mi fanno rabbrividire.

    Da che mi ricordo è sempre stato così: Mark ordina e io obbedisco senza neanche troppe lamentele. È il padre migliore del mondo, sempre pronto allo scherzo e a ogni tipo di richiesta, ma è sempre meglio non farlo arrabbiare. Ho imparato a mie spese che ogni persona dal carattere buono e arrendevole, una volta arrabbiata, diventa irriconoscibile. Com’è che si dice? Chi vuol vedere un vero cattivo faccia arrabbiare un buono. Ecco, lui ne è un tipico esempio.

    Mi sbrigo a scuotere la testa in segno di diniego rispondendo alla sua domanda. In realtà posso facilmente immaginare perché i miei genitori siano stati convocati. Forse, devo ammetterlo, ho un po’ esagerato con le assenze quest’ultimo trimestre. Però in fondo non è colpa mia ma di Michelle, la mia migliore amica praticamente da sempre, che mi propone sempre attività molto divertenti al posto delle lezioni.

    «Dai Mark, non assillarla anche il giorno del suo compleanno» lo ammonisce mia madre rientrando nella conversazione. Sospira e prende posto sulla sedia di fronte alla mia. «Sarà sicuramente un malinteso.»

    Finisco le frittelle in un sol boccone e mi pulisco le labbra con un fazzoletto di carta.

    «Vado a prendere lo zaino. Ci metterò un secondo.»

    Senza attendere risposta salgo le scale che portano al piano superiore due scalini alla volta e sono di nuovo nella mia camera, accogliente e familiare anche se in disordine.

    Le pareti lilla sono coperte da decine di poster di cantanti e attori famosi che sorridono smaglianti all’obiettivo: il risultato dei miei anni da adolescente, quando andavano di moda band e cantanti che in poco tempo hanno raggiunto il top e altrettanto velocemente sono tornati nell’oblio. Molti di loro sono stati rimpiazzati da alcune foto scattate qua e là negli anni, da quelle che mi ritraggono da piccola a quelle più recenti con i miei amici.

    Afferro la tracolla verde militare e prima di tornare al piano inferiore mi osservo per qualche secondo allo specchio verticale dell’armadio. I capelli biondi mi arrivano sotto le scapole e scendono con grandi boccoli sul maglioncino con lo scollo a V. Accentuo gli occhi azzurri con un filo di eye-liner nero e un po’ di mascara. Valorizzo le labbra carnose e rosee con un po’ di lucidalabbra ripescato velocemente da una tasca della borsa ed esco dalla stanza afferrando il giubbotto con la mano libera. Scendo le scale e mi catapulto fuori casa percorrendo tutto il vialetto per poi montare sull’Audi grigia metallizzata di mio padre.

    Il tragitto da casa mia alla North Side High School è breve e silenzioso. Dopo avermi lasciato davanti al cancello della scuola i miei mi rivolgono un’ultima occhiata e spariscono nell’ingresso principale. Mi chiedo distrattamente perché il professor Berna, il sostituto del mio insegnante di ruolo, voglia vedere i miei genitori. In fondo insegna nella mia scuola da poco più di tre mesi. Cosa diavolo avrà da dirgli? Mi pare un tipo a posto, nonostante tutto. Strano, quello sì, ma in fin dei conti simpatico e fondamentalmente buono. Sembra sempre accigliato e confuso da quello che gli succede intorno e ogni tanto se ne esce con qualche strano proverbio mai sentito prima, ma a suo modo sa essere divertente.

    Le mie riflessioni sono interrotte da un gruppo di studenti che mi distraggono passandomi accanto. Paul, uno di loro, mi viene incontro per farmi gli auguri.

    Il sole ormai è alto nel cielo e mi sto godendo una pausa all’aria aperta tra una lezione e l’altra. Non ho più visto i miei genitori da quando sono entrati nell’ufficio del professore d’inglese. Controllo l’orologio e calcolo che sono passate quasi tre ore. Cosa cavolo gli sta dicendo da impiegare così tanto tempo?

    Mentre sono assorta nei miei pensieri Michelle mi raggiunge in cortile.

    «I tuoi sono ancora lì dentro?» chiede indicando la scuola con un cenno della testa.

    I suoi capelli castani hanno assunto un colore quasi mielato sotto i raggi del sole. La corporatura esile la fa sembrare sempre più piccola dell’età che ha, il che a volte può essere anche una buona cosa, soprattutto quando può fingersi quattordicenne per rimediare a entrambe un buono scontato per l’ingresso al cinema o a teatro.

    «Sì e sinceramente mi sta venendo l’ansia» rispondo facendole posto sul muretto.

    Mi sento osservata e il mio sguardo viene calamitato in direzione di un ragazzo che, in lontananza, mi sta fissando intensamente da ormai dieci minuti.

    «Per caso lo conosci?» chiedo a Michelle.

    «Chi?»

    Distolgo lo sguardo e faccio la vaga parlandole con fare normale, fingendo di trovare interessante un filo scucito del suo giubbotto.

    «Quello appoggiato al muro dell’aula di biologia.»

    «Mmh, no» risponde lei allungando il collo per guardarlo meglio. «Perché?»

    «Mi sta fissando e non l’ho mai visto a scuola prima d’ora. Non so cosa voglia, ma non mi stacca gli occhi da dosso.»

    «Magari è nuovo. Non sembra male da quaggiù…»

    Osservo il ragazzo dai capelli neri che continua a guardarmi e non posso non condividere quel pensiero. No, mi sarei sicuramente ricordata di un tipo del genere, in fondo non ne girano tanti così carini in questa piccola città del Tennessee. Alto, con le spalle larghe e i capelli abbastanza lunghi che gli scendono sul collo e sulla fronte. Il giacchetto di pelle che indossa, poi, gli dona quell’aria da cattivo ragazzo che non guasta mai. È da solo e non parla con nessuno. Non ha uno zaino sulla spalla, non ha il foglio degli orari che si dà agli studenti nuovi e non si guarda intorno come uno di loro. Chi è allora quel ragazzo?

    «Sta continuando a fissarti, credo che tu abbia fatto colpo!» continua Michelle sorridendo.

    «Ma smettila.»

    «Axel Leinghton, tendi sempre a sminuirti, eh?» mi rimprovera affilando lo sguardo.

    «Sono solo realista Mich. Magari mi ha semplicemente scambiato per qualcuna che conosce.»

    Michelle sospira rumorosamente e non risponde per evitare di ricadere nelle nostre solite discussioni sulla mia scarsa autostima.

    «Eccoli» esclama poi dandomi una gomitata sul braccio. «I tuoi stanno uscendo. Mmh, non hanno una faccia molto contenta.»

    Mi alzo e li raggiungo correndo. Spero con tutto il cuore che non siano troppo arrabbiati.

    «Allora? Com’è andata?» chiedo sorridendo per non mostrare la mia ansia.

    Sì, il colloquio deve aver avuto decisamente a che fare con le mie assenze e loro non sembrano averla presa bene.

    Mia madre mi guarda e scoppia a piangere. Mi abbraccia talmente forte che quasi mi fa male, poi apre la portiera dell’Audi con una velocità impressionante e vi si rifugia dentro come se avesse visto una creatura mostruosa. Da dietro il parabrezza la vedo asciugarsi le lacrime con un fazzoletto già stropicciato.

    Guardo mio padre in cerca d’aiuto. È andata così male?

    «Ne parliamo dopo a casa, va bene?» dice lui chiudendo il discorso.

    «Ma è tutto ok? Voglio dire… perché la mamma sta piangendo?»

    «Ne parleremo più tardi, adesso vai o farai tardi alle lezioni» risponde lui evasivo sfiorandomi il mento con un dito. Pare poi ripensarci e mi stringe a sé. «Lo sai che ti vogliamo bene, vero? Sia io che la mamma.»

    «Certo. Anche io vi voglio bene, ma non voglio che siate così arrabbiati con me. Mi dispiace per le assenze, non ne farò più così tante. Lo giuro.»

    Mark si stacca da me e sorride dolcemente. Per qualche strano motivo il suo sorriso mi fa gelare il sangue nelle vene.

    «Stai tranquilla, va tutto bene e andrà tutto bene. Qualsiasi cosa accada. Tieni sempre a mente gli insegnamenti che ti abbiamo dato, mi raccomando. E ricordati, tu sei una persona speciale, molto più forte di quello che credi.»

    Rimango confusa e spiazzata da quelle parole. Mio padre non è mai stato così diretto e sentimentale. E poi cosa c’entrano adesso i loro insegnamenti? Qualcosa non va e di certo non si tratta di una semplice marachella come la multa per la velocità o qualche assenza di troppo a scuola.

    «M-mi state preoccupando» dico provando a fare un risolino per smorzare un po’ la tensione, ma mi esce un po’ strozzato.

    Mark sembra non saper dare una risposta giusta a quell’affermazione, così si limita ad allontanarsi senza dire nulla. Lo guardo salire dalla parte del guidatore e mettere in moto la macchina.

    «Ci vediamo a casa!» urlo per sovrastare il rumore del motore.

    Mark risponde con un cenno della testa e parte a tutto gas.

    Rimango a guardare la macchina finché non sparisce e resto imbambolata in mezzo al parcheggio a cercare di dare un senso a quegli ultimi avvenimenti. Stavolta l’ho combinata grossa e questa è l’unica cosa a cui la mia mente riesce a pensare ora come ora. Non so esattamente cosa, ma deve essere per forza così. Se non mi hanno mai messa in punizione in tutta la mia vita, stasera sarà sicuramente la prima volta. Anzi, quello sarebbe il minimo a giudicare da quanto sembrava sconvolta mia madre.

    Faccio un sospiro e mi torturo nervosamente il labbro inferiore con i denti. Proprio in quel momento suona la campanella. Meno male, almeno le lezioni mi permetteranno di non pensare troppo all’imminente catastrofe.

    Mi volto per rientrare a scuola quando mi ritrovo davanti il bel ragazzo che avevo visto qualche minuto prima. Sbarro gli occhi dallo stupore e per poco non vado a sbattergli contro. Da vicino è anche più carino, noto con piacere.

    «Scusa» dico facendo un passo indietro. Azzardo un sorriso civettuolo.

    «Vieni con me.»

    Mi prende per un polso e mi tira via con poca educazione, portandomi lontano dall’entrata della scuola. Lo sconosciuto inizia a correre e io arranco dietro di lui: la sua mano si chiude senza difficoltà intorno al mio polso.

    «Ma cosa stai facendo?» chiedo provando a ritrarmi. Niente, la sua stretta è troppo forte.

    «Ora non ho tempo di spiegarti» risponde lui guardandosi indietro.

    Continua a girare la testa a destra e a sinistra come se stesse cercando qualcuno. Ha un atteggiamento veramente strano e guardingo. Mi trovo a domandarmi se non si tratti di un maniaco psicopatico che sta tentando di aggredirmi.

    Istintivamente mi guardo anch’io dietro le spalle e noto un gruppetto di persone al di là del cancello. Sono strani, hanno addosso quelli che da quaggiù sembrano… mantelli?

    A un tratto il ragazzo svolta per la piccola parte di giardino alberato che gli studenti chiamano Il Bosco, ma che in realtà non è altro che un’accozzaglia di qualche pianta nel bel mezzo del prato inglese che circonda la struttura. Lui mi spinge contro un albero con tutto il suo peso e si porta un dito sulle labbra facendo segno di tacere.

    «Ma chi sei?» domando cercando di staccarmelo di dosso. Questa cosa comincia a spaventarmi.

    «Sta’ zitta, dopo ti spiegherò tutto.»

    Se il tutto non fosse così inquietante non mi sarebbe dispiaciuto poi così tanto essere inchiodata a un albero da un ragazzo così attraente. Ma, appunto, la situazione sta diventando piuttosto strana e non so se ridere o iniziare a preoccuparmi sul serio. Mi guardo intorno e noto con orrore che quasi tutti sono ormai rientrati. Siamo praticamente soli. Una scintilla di panico si accende nel mio cervello.

    «Il tuo giochetto mi ha stancato e se è uno scherzo non è divertente» provo a ribattere sentendo il petto di lui che si alza e si abbassa velocemente contro il mio.

    «Quale parola della frase «sta’ zitta" non ti è chiara?»

    Mi prende anche in giro? Questo è troppo. Gli do uno strattone e mi scosto da lui quel tanto che basta per mollargli un calcio nel suo punto debole, proprio come mi ha insegnato Simon, il mio istruttore di autodifesa. Lui però è abile e chiude le cosce appena in tempo per difendersi. Allora, senza riflettere, gli mollo un calcio sugli stinchi, lo afferro per la maglietta e lo spintono lontano.

    «Va’ al diavolo!» impreco facendo per tornare sul viale della scuola.

    Mi metto a correre, ma non faccio nemmeno venti metri che mi sento afferrare da dietro. Urlo con tutta la forza ma il grido esce in realtà ovattato dalla mano che lui mi ha appena messo sulla bocca.

    Il mio istinto di sopravvivenza mi spinge a reagire ancora. Gli prendo il pollice e con forza glielo piego verso il polso sentendo tutto il suo braccio irrigidirsi per il dolore, ma mi accorgo che in mano ha qualcosa. Un’ampolla di vetro? Mi divincolo sempre più in preda al panico, ma con l’altro braccio lui mi blocca le spalle mentre, non so come, è riuscito a liberarsi dalla mia presa. Con i talloni colpisco le sue gambe in tutti i modi, ma niente sembra scalfirlo.

    In una frazione di secondo mi lascia andare le braccia e mi obbliga ad alzare il mento tirandomi per i capelli. Mi tappa il naso ma non ci faccio nemmeno caso, impegnata come sono a graffiargli, tirargli, pizzicargli e picchiargli ogni zona del corpo che riesco a trovare. Affamata d’aria, apro la bocca e avverto un liquido freddo scendermi giù per la gola.

    Lotto con tutte le forze contro di lui, ma sono troppo debole, e ogni mio sforzo è vano. In più, la stretta ferrea con cui lui è tornato a stringermi mi impedisce praticamente qualsiasi movimento. Le gambe non reggono più il mio peso e devo lasciarmi andare contro di lui. Le palpebre si fanno pesanti e tutto diventa improvvisamente e spaventosamente buio.

    Capitolo 2

    Mi sveglio con un grande mal di testa, come se qualcuno mi stesse martellando il cervello con una mazza da baseball. Con gli occhi ancora chiusi mi concedo altri dieci minuti di ozio nel letto morbido prima di alzarmi e iniziare una nuova giornata. Prima, però, prenderò qualcosa per avere un po’ di sollievo da questa tortura. Un’aspirina, magari.

    Iniziando a pensare a cosa dovrò affrontare nelle ore successive, gli avvenimenti di ieri mi attraversano la mente all’improvviso. Apro di scatto gli occhi e mi tiro su a sedere aiutandomi con i gomiti. Quello che si apre di fronte ai miei occhi è totalmente inaspettato.

    Mi trovo in una stanza sconosciuta, adagiata su un letto che non è il mio, con indosso dei vestiti che appartengono a chissà chi. Intorno al letto c’è un comò di legno, un armadio a due ante e una scrivania, tutto di legno chiaro e lucente. Alla mia destra c’è una finestrella coperta da una sottile tenda di cotone dalla quale si può scorgere in lontananza un alto e rigoglioso colle verde. Dall’altra parte del letto è stato sistemato un piccolo comodino con un’abat-jour dalle elaborate decorazioni. Questo è l’unico arredamento della spoglia stanzetta dalle alte pareti bianche. 

    Resto immobile con gli occhi sgranati per interminabili secondi, le emozioni che si accavallano una sull’altra non mi fanno ragionare lucidamente. La sola sensazione che riesco a distinguere è quella del terrore, forte e chiaro. Il tipo di terrore che lascia letteralmente senza fiato. E che mi obbliga a tornare alla realtà, come un secchio d’acqua gelata.

    La prima cosa a cui penso è che sono stata rapita. La seconda, più razionale, è che dei rapitori non ti mettono in una stanza piena di candele profumate, non ti fanno indossare una camicia da notte pulita e, soprattutto, non si fanno vedere in faccia.

    Continuo a ispezionare la camera con lo sguardo, scendo dal letto perdendo l’equilibrio e vado a finire per terra. Ho le gambe ancora intorpidite e non ce la fanno a reggere il mio peso.

    Sono spaventata e confusa, la testa mi fa male e la vista è ancora appannata. Dentro il petto il cuore batte forte come mai prima d’ora e la paura mi ha attanagliato lo stomaco chiudendolo in una morsa dolorosa. Dove diavolo mi trovo? Che cosa mi hanno dato per farmi addormentare? Chi sono quelle persone? Tocco la caviglia dolorante che si è storta cedendo sotto il mio peso e scoppio a piangere. Che cosa vogliono da me? Stesa inerme sulla moquette, non so cos’altro fare se non singhiozzare disperatamente.

    Al di là della porta sento dei passi pesanti avvicinarsi alla stanza. Sgrano gli occhi in preda al panico e ogni centimetro del mio corpo si mette in allarme. Facendo forza sulle braccia mi rialzo a fatica e risalgo sul letto. Sguscio velocemente sotto le coperte, mi sdraio dando le spalle alla porta e faccio finta di dormire. Chiudo gli occhi e mi sforzo di rimanere immobile e di respirare regolarmente. Più che una persona addormentata, sembro una statua di marmo. Posso sentire chiaramente ogni battito del mio cuore, talmente forte che ho paura possa scoppiare da un momento all’altro.

    La porta si apre cigolando appena e uno spiraglio di luce entra nella camera in penombra. C’è un attimo di silenzio e io sono talmente tesa e spaventata che quasi mi scordo di respirare.

    Ancora qualche istante e la porta si richiude emettendo un altro lieve cigolio. Rimango ferma ancora pochi secondi poi, pensando che il pericolo ormai sia scampato, mi volto in direzione della porta e strillo. Mi catapulto giù dal letto portando con me tutte le coperte e finisco di nuovo a terra, sbattendo ancora la caviglia già malmessa. Dopo aver frignato per il dolore, indietreggio sulla schiena fino a raggiungere il muro.

    «Calmati Axel, non voglio farti del male» mi dice la donna appoggiata alla porta alzando le mani in segno di resa.

    «Chi sei? Cosa volete da me?» grido guardandomi intorno spaventata.

    La donna mi osserva per un lungo istante e piega gli angoli della bocca all’ingiù. Cosa c’è nella sua espressione? Pena, forse?

    «Mi chiamo Clizia Nidoa e sono qui per aiutarti. Devi fidarti di me, non ho cattive intenzioni» continua facendo un passo avanti.

    «Non ti avvicinare!» grido appiccicandomi ancora di più contro la parete bianca. «Stammi lontana.»

    Studio la stanza alla ricerca di qualcosa da usare come arma. Qualcosa di appuntito o tagliente. Niente, assolutamente niente. Faccio un profondo respiro per placare quel disperato bisogno d’ossigeno che avverto. È troppo stretto qui dentro, troppo chiuso. Mi sento in trappola e io odio sentirmi in trappola.

    Ogni tanto, soprattutto nei periodi in cui sono più vulnerabile, soffro di attacchi di panico. I luoghi angusti mi mettono ansia e cerco di evitarli il più possibile. È da sempre una delle cose che detesto di più del mio carattere perché mi ha sempre fatto sentire debole, indifesa.

    Gli attacchi di panico sono iniziati con la scoperta della mia vera identità e da allora non mi hanno più abbandonata. Con il tempo, però, ho imparato a convivere con questo lato del mio carattere: in quei momenti bastava evitare di prendere l’ascensore, aprire un po’ la finestra della stanza in cui mi trovavo, cercare di fare solo cose che mi mettessero a mio agio.

    Invece ora è diverso, ora non ho scampo. Sono una marionetta nelle loro mani e mi faranno fare qualsiasi cosa vorranno.

    «Che cosa volete da me? Dove sono?» chiedo angosciata.

    «So che è difficile per te cara, soprattutto per il modo brusco con cui ti hanno portata qui, ma non avevamo altra scelta. Non vogliamo ferirti o farti del male, al contrario, vogliamo proteggerti.»

    «Da cosa?» domando continuando a singhiozzare e a prendere aria con lunghi respiri. «Lasciatemi in pace! Voglio tornare a casa!»

    «Come posso spiegartelo in modo semplice?» chiede più a se stessa che a me.

    «Ci penso io Cliz» fa il professor Berna entrando nella stanza. Le mette una mano sulla spalla e le riserva un sorriso veloce. «Grazie.»

    Guardo l’uomo appena entrato dalla porta con un misto tra confusione, stupore, disgusto, rabbia e paura. Sento la morsa allo stomaco farsi ancora più dolorosa. 

    Non posso crederci, dietro a tutto c’è lui: il buffo e strambo sostituto, l’insegnante che per mesi ho incontrato per i corridoi, in classe, nelle attività extra, praticamente tutti i giorni. Magari è proprio in quei momenti che ha pianificato tutto nei minimi dettagli. Mi ha studiata, ha studiato i miei amici e i miei genitori.

    Un attimo… Carol e Mark si sono incontrati proprio con lui e mia madre era distrutta una volta terminato il colloquio. Un’ondata di adrenalina mi pervade. Che cosa gli aveva detto? Probabilmente aveva architettato qualcosa anche per loro due, un contrattempo che li avrebbe tenuti a distanza.

    Il mio pensiero, nonostante la paura e lo shock, va a loro. A quest’ora avrei dovuto essere a casa già da un pezzo. Saranno distrutti, conoscendoli. Il tremendo vizio di mia madre che la porta a esagerare e a catastrofizzare ogni minimo avvenimento starà sicuramente mandando in tilt mio padre. Probabilmente avrà già chiamato l’FBI.

    Clizia attende qualche secondo, ancora indecisa sul da farsi, poi mi sorride per l’ultima volta ed esce velocemente dalla camera.

    Mi stringo le ginocchia al petto e osservo con orrore il professore, o almeno quello che credevo tale, chiudere la porta della stanza. Lui raggiunge il materasso rimasto senza coperte, ci si siede sopra e mi invita a raggiungerlo.

    «Vieni qui, fammi dare un’occhiata a quella caviglia» dice battendo una mano sul letto.

    Io per tutta risposta striscio sui gomiti finché non raggiungo l’angolo della stanza più lontano da lui e ci faccio aderire la schiena. Con due dita mi allargo il colletto della camicia da notte. È come se la mia gola fosse legata a un cappio, e più tempo passa più sembra stringersi.

    «Immagino che tu voglia delle risposte. Ecco, io sono qui per dartene, ma non devi aver paura di me» continua a parlare l’uomo, mantenendo il suo tono pacato.

    Io lo guardo fredda, tentando di nascondere dietro uno sguardo glaciale tutta la mia paura. Mi accorgo solo adesso che le mie mani stanno tremando visibilmente. Anche lui se ne accorge, visto che le sta fissando. Le nascondo dietro la schiena il più velocemente possibile. Non gli darò anche questa soddisfazione, non gli farò vedere quanto, in realtà, ho paura di lui.

    «È un po’ difficile continuare a fidarmi di lei, non crede?» dico con voce tremante. «Mi prende di forza, mi porta qui e poi viene a parlarmi di fiducia?»

    Lui sorride e io sento la rabbia aumentare sempre di più.

    «Hai ragione, messa così in effetti suonerebbe male anche a me. Che ne dici di vederla invece come un’azione brutta, sì, ma obbligata? Non avevo altra scelta, Axel. Io dovevo portarti qui.»

    «Perché?»

    «Ti darò tutte le risposte che vuoi e che ti meriti, ma prima» ribatte lui alzando un dito «mi farai vedere la caviglia. Avanti, so che ti fa male.»

    Rimango immobile contro la parete fredda e approfitto di quella breve

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