Bologna che nessuno conosce
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A breve Bologna saprà se i suoi settanta chilometri di portici entreranno nel Patrimonio Unesco dell’umanità. Ma Bologna, oltre che di luoghi, è fatta di persone. In città sono transitati sovrani, papi, antipapi, santi, eretici, imperatori, sultani, zar e prìncipi. Qui hanno vissuto compositori, cantanti, attori, inventori e scienziati. Tutti, anche coloro che sono rimasti in città solo per pochi giorni, hanno lasciato un segno del loro passaggio. Questo libro ripercorre il cammino dei grandi che a Bologna hanno lavorato, o che l’hanno scelta come tappa del loro viaggio: un modo per vedere con i loro occhi aspetti della città sconosciuti agli stessi bolognesi. Ogni luogo sarà legato al passaggio di un personaggio, in modo da rendere vive quelle pietre e attuali le figure prese in esame. Un viaggio indimenticabile alla scoperta delle strade di Bologna.
I luoghi di Bologna attraverso gli occhi dei grandi personaggi della Storia
Tra gli argomenti trattati:
Il finto Raffaello
Il segreto del conservatorio
Un teatro in fiamme
Michelangelo fuso
Il gioiello del re sole
Il contadino che spaventò napoleone
Giulietta e Romeo bolognesi
Quando Pascoli meditò il suicidio
L’orologio di Dante
Un Casanova a Bologna
Mozart, il “raccomandato”
Willey, ladro galantuomo
Le ciocche di Carducci
Il papa del calendario
Il posto di Lucio
Luca Baccolini
è giornalista e conduttore radiofonico. Collabora con la redazione bolognese di «la Repubblica» ed è redattore del mensile «Classic Voice». Con la Newton Compton ha pubblicato, tra gli altri, Storie segrete della storia di Bologna, I luoghi e i racconti più strani di Bologna e Bologna che nessuno conosce.
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Anteprima del libro
Bologna che nessuno conosce - Luca Baccolini
712
Prima edizione ebook: novembre 2020
© 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma
ISBN 978-88-227-4447-0
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Manuela Carrara per Corpotre
Luca Baccolini
Bologna
che nessuno conosce
Luoghi insoliti e storie curiose
che hanno fatto la storia
della città dei portici
Newton Compton editori
Amo Bologna: per i falli, gli errori, gli spropositi della gioventù che qui lietamente commisi e dei quali non so pentirmi. L’amo per gli amori e i dolori, dei quali essa, la nobile città, mi serba i ricordi nelle sue contrade, mi serba la religione nella sua Certosa. Ma più l’amo perché è bella.
Giosuè Carducci
Indice
Introduzione
Nota dell’autore
BOLOGNA CHE NESSUNO CONOSCE
Animali fantastici
Il finto Raffaello
Lo scultore dell’imperatore
Gli affreschi maledetti
Il segreto del Conservatorio
Il crocifisso che sorride
Il vicolo salvato dal colera
La Secchia asfaltata
La platea magica del Comunale
Un pianoforte ibrido e maledetto
La tomba del primo azzurro
L’altro Compianto
La torre dei telefoni
L’angelo parafulmini
La torre dei macellai
Cartoline dalla peste
Allenatore intelligente cercasi
La carica dei 110
La mina del Baraccano
Diavolo d’un portico
Un teatro in fiamme
Michelangelo fuso
L’atelier dei sogni
Pranzare a cinque centesimi
Le fabbriche di morte
Una città ideale alle porte di Bologna
Il diurno Cobianchi
Il gioiello del Re Sole
La signora dei cappelli
L’amore di Rossini
Il contadino che spaventò Napoleone
Il gigante recintato
L’invasione dei grilli
La battaglia della Polesella
Il catino di re Liutprando
Romeo e Giulietta bolognesi
Il boom delle due ruote
Quando Pascoli meditò il suicidio
Lo chalet in fumo
Il tipografo assassino
L’orologio di Dante
Nudi a teatro
Il tragico carnevale degli etruschi
La beffa a Pio IX
Il medico di Garibaldi
Preti sfrattati
Un orto contro la modernità
Quando i bolognesi veneravano Sant’Ambrogio
Lo sgarbo del cardinale
Bankheraus
Le Fonti di Corticella
Porta Napoleone
Come dissezionare un cadavere
Il correttore di nasi
Un Casanova a Bologna
Il drago di Aldrovandi
Il racket delle porte
Fatale Roxy Bar
Gli accenditori notturni
L’Acqua di Felsina
Il bolognese che faceva ballare i modenesi
Leopardi innamorato
Il pianoforte al cinema
Andare da Brasa
Il terribile 1901
Ascesa e caduta dell’ereditiera Frine
La Cerrito, la Cerrito!
Acconciature indecenti
Il cardinale affarista
Un Savonarola dell’Ottocento
Balli con la condizionale
Lady Otway
Il pianista eterno
Mozart, il raccomandato
L’archeologo dilettante
Dormire in una torre
La paracadutista
La prima piscina
Il disertore e la prostituta
Willey, ladro galantuomo
Scandalo in casa Malvezzi
A me gli occhi
Due monumenti di canne e pedali
Il segugio Reggiani
Febbre da cartolina
Moda a buon mercato
Dal collegio svizzero ai campi da calcio
Miss Bologna
Donne in pantaloni
Come farsi bionde
Le ciocche di Carducci
Polizza sulla bellezza
L’arte di prendere per il naso
Corticella caput mundi
I lottatori della Montagnola
Quando l’asiatica incontrò il Bologna
L’inno scomparso
I litigiosi fratelli Brunetti
Burattini viventi
Poesia estemporanea
Giacca o frac?
Attacco a Puccini
Il riposo degli artisti
Sei carrozze per un dandy
I profumi di D’Annunzio
Felsina Film
Cambio di scena
Falegname e cineasta
Il primo caffè
Tutto esaurito a bordo campo
Il papa del calendario
Vendette coniugali d’inizio Novecento
Il grande rifugio
Le scarpe di Baggio
Baionetta e casqué
L’autostrada navigabile
Il posto di Lucio
Una città costruita sui libri
Bibliografia
Introduzione
«Questi portici bolognesi sono cosa tutta da vedersi e da godersi. Sono la vetrina di questa splendida citt໹. Chi lo scrive è il drammaturgo Alfred de Musset, una delle prime figure emblematiche del romanticismo letterario francese, che in viaggio a Bologna rimane folgorato dalla caratteristica architettonica più lampante della città. Prosegue nel suo elogio:
Più che riparare dalla pioggia o dal sole i portici sono occasione di passeggio e di conversazione, di incontro e di osservazione. E in una città come questa dove i suoi abitanti sanno trovare cento pretesti per fermarsi a discorrere, il portico è una istituzione cittadina irrinunciabile. Qui la gente non ha fretta, è molto civile, è socievole e allegra. Forse parla un po’ troppo a voce alta per il mio gusto ma è pur sempre un popolo amabile, disponibile alla cortesia e all’amicizia. Io penso che tutto ciò sia dovuto a questi portici che permettono d’incontrarsi anche quando piove o fa freddo e così hanno finito per dare ai bolognesi abitudini e costumi così diversi dalle altre città italiane. Ti dirò che ho chiesto di chi sia stata la prima idea dei portici: mi hanno risposto che i portici c’erano qui prima che fosse nata Bologna.²
L’entusiasmo di de Musset, qui integralmente riportato da una sua lettera ad un amico parigino, non trova però unanimi consensi, soprattutto in ambito inglese e tedesco. Il cronista tedesco Johann Wilhelm von Archenholz a fine Settecento scriveva: «Questi portici deturpano le vie e nascondono l’architettura di tanti bei palazzi»³, riecheggiato subito da Walter de Pembroke, viaggiatore inglese dello stesso periodo: «Fanno comodo forse ai nobili per far bastonare di notte dai loro servi i nemici»⁴. Lo stesso Stendhal, instancabile e acuto viaggiatore in Italia, nota come Bologna presenti «un aspetto tetro avendo le sue strade lunghe ed ininterrotte file di portici sui due lati»⁵. È difficile dar completamente torto a queste ultime osservazioni. Simile a una ruota di bicicletta, la pianta urbana del centro storico di Bologna impedisce una visione di ampio respiro a chi vada in cerca di prospettive monumentali. Eppure questa città continua a suscitare le stesse sensazioni che nutrirono l’immaginario dei viaggiatori settecenteschi: non monumentale come Roma, ma più accogliente di Firenze; non magica come Venezia, ma più misteriosa di Milano. Sempre e comunque a misura d’uomo. Ecco perché da Goethe ai giorni nostri è sempre il momento giusto per fingere di perdersi a Bologna, con i propri occhi e con quelli di chi l’ha già conosciuta.
Nota dell’autore
Dov’è stato possibile, ad ogni episodio è sempre stato associato un luogo (nel migliore dei casi l’indirizzo preciso) per poter ricostruire mentalmente fatti, volti e circostanze delle storie raccontate. Per semplicità di consultazione, vie e piazze indicate nel libro fanno riferimento allo stradario attuale, e non a quello storico.
1 Albano Sorbelli, Bologna negli scrittori stranieri, Bononia University Press, Bologna 2007.
2 Ivi.
3 Ivi.
4 Ivi.
5 Ivi.
Bologna
che nessuno conosce
Particolare della pianta di Bologna pubblicata ne La Patria di G. Strafforello.
Animali fantastici
Giardini Margherita, viale Giovanni Gozzadini
Dall’elefantessa che passeggiò indisturbata dentro il Palazzo del Podestà ai leoncini dei Giardini Margherita, ecco come i bolognesi conobbero quadrupedi esotici di ogni specie
Bologna non ha mai avuto uno zoo vero e proprio. La conoscenza degli animali esotici è sempre passata attraverso la privata iniziativa di qualche eccentrico signorotto, la visita occasionale di un forestiero o l’arrivo di un circo. Per più di mille anni i soli esseri viventi che i bolognesi incontrarono nel proprio orizzonte furono animali locali, fin quando nel 1293 il marchese Obizzo d’Este spedì in dono un leone e una leonessa, fatto testimoniato nelle Cose notabili di Giovanni Agostino de Masini. L’incontro con la fauna più strana diventò sempre più frequente con la modernità. Già nel 1654 Giuseppe Gudicini riporta la passeggiata di un’elefantessa nel salone del Palazzo del Podestà. Non era arrivata lì per caso questa erede dell’esercito cartaginese, ma l’avevano condotta alcuni faccendieri tedeschi che si guadagnavano da vivere esponendo al pubblico animai fantastici dotati di qualità eccezionali. Al pachiderma in questione, infatti, sarebbe stata riconosciuta l’abilità di saper sparare con la proboscide. Non si registrarono vittime. Più complicato da trasportare, per indole ed esigenze fisiologiche, il rinoceronte senza corno fatto arrivare da un olandese nel 1750. La tappa bolognese di questo ungulato era solo una delle tante cui era atteso in Italia. Quando l’animale giunse a Venezia, il pittore Pietro Longhi si divertì a ritrarlo nell’intero ciclo digestivo, intento sì a mangiare la sua dose di fieno, ma anche soddisfatto per averla appena espulsa. Gli spettacoli di belve viventi
diventarono invece una costante nel xix secolo, anche grazie a figure come quella del domatore piacentino Upilio Faimali che girò l’Italia e l’Europa non mancando mai di esibirsi a Bologna, dove si fece apprezzare per le sue impareggiabili tecniche di ammaestramento che gli consentivano, vestito da militare, di cavalcare pantere, piroettare sui leoni, giocare con le scimmie e infilare la testa nella bocca dei giaguari (abilità che gli procurò il soprannome di Re dei giaguari
). Leggendari i suoi show in piazza San Francesco. Raccolsero la sua eredità i numerosi serragli disseminati occasionalmente da D’Azeglio a piazza viii agosto, dove nel 1899 s’esibì la centenaria elefantessa Nelly. Ma l’offerta di stupore a buon mercato proseguì per tutto il Novecento: se durante la prima guerra mondiale fu esposto un gigantesco squalo (già passato a miglior vita) catturato nelle acque dell’Adriatico, nel 1939, come dono dei reduci della Decima Legio, venne installata una gabbia ai Giardini Margherita. Ospiti d’onore i leoncini etiopi Remo e Sasha.
Il Palazzo del Podestà, in un’incisione tratta da La Patria di G. Strafforello.
Il finto Raffaello
Chiesa di San Giovanni in Monte, piazza San Giovanni in Monte 3
Uno dei più grandi capolavori dell’Urbinate, commissionato da una famiglia bolognese, non risiede più nel luogo in cui era stato originariamente collocato. Ma oggi se ne possono ammirare due
Al visitatore distratto e poco informato, la Cappella Duglioli di San Giovanni in Monte potrebbe svelare un capolavoro della pittura italiana: l’Estasi di Santa Cecilia dipinta nel 1517 da Raffaello. Peccato però che sia solo la copia di quella esposta a Bologna in Pinacoteca Nazionale. Perché esistono allora due Estasi nella stessa città? L’opera, commissionata per la Cappella Duglioli, era stata trafugata durante le spoliazioni napoleoniche e inviata a Parigi nel 1798. Pensando di migliorarne la conservazione, i malaccorti tecnici del Louvre trasportarono la pellicola pittorica su una tela, distruggendo tutti gli strati del supporto ligneo originale. Quando rientrò in Italia nel 1816 assieme a molti altri capolavori, le sue condizioni conservative erano fortunatamente ancora buone, sebbene fossero visibili alcune tracce di ridipinture dovute ai traumi di quella scellerata operazione. La vera Estasi finì quindi in Pinacoteca, dove ancor oggi è esposta, mentre nella Cappella Duglioli, che ospitava ancora alcune reliquie della santa e i resti della stessa Elena Duglioli (1472-1520), riconosciuta beata da Leone xiii nel 1828, venne collocata una copia del capolavoro raffaelliano dipinta da Cesare Albert in una elegante e preziosa cornice di Andrea da Formigine. Ecco perché a prima vista l’Estasi di San Giovanni in Monte può apparire come l’originale. In realtà, molti altri pittori del xvi e xvii secolo si cimentarono nella copia fedele del capolavoro, compreso il bolognese Guido Reni, che ne approntò diverse copie parziali e una intera. Il percorso avventuroso di questo dipinto non deve però far dimenticare chi ne ha propiziato la creazione, ovvero la beata Elena Duglioli, figlia del notaio Silverio Duglioli e di sua moglie Pentisilea Boccaferri, data in sposa, nonostante la sua volontà di entrare in convento, al più vecchio notaio Benedetto Dall’Olio, con cui non ebbe figli. Le sue opere di carità, la pia vedovanza e il suo mecenatismo artistico (come dimostrò la commissione a Raffaello) fecero nascere spontaneamente un culto popolare attorno a questa mistica mancata, che le malelingue del tempo ritenevano essere discendente non del notaio bolognese ma del sultano turco Maometto ii. Voci a cui non diedero peso né il papa bolognese Benedetto xiv (che la citò nel suo De servorum Dei beatificatione come buon esempio di culto popolare) né Leone xiii che ne autorizzò il culto nel 1828. Ma Raffaello, quello vero, continuò ugualmente a risiedere in Pinacoteca.
Lo scultore dell’imperatore
Cattedrale di San Pietro, Compianto sul Cristo morto, via Indipendenza 7
Il suo estro scultoreo fu ammirato da Carlo
v
. Ma Alfonso Lombardi aveva una tecnica infallibile per farsi notare dai potenti. Stare sempre al fianco di altri geni...
Alfonso Lombardi, noto anche come Alfonso Cittadella o Alfonso da Ferrara, essendoci realmente nato nel 1497, è stato uno dei più geniali scultori transitati a Bologna. Geniale e opportunista, come dimostra un episodio che lo vide protagonista assieme al celebre pittore Tiziano Vecellio. La sua abilità nel farsi trovare al momento giusto e al posto giusto fu dimostrata nel 1530, quando Bologna divenne il teatro del mondo in occasione dell’incoronazione a imperatore di Carlo
v
per mano diretta di papa Clemente
vii
. Essere a Bologna, in quelle settimane, significava avvicinarsi a occasioni di lavoro che difficilmente sarebbero ricapitate così numerose e altrettanto redditizie. Lo capì immediatamente il Lombardi, che già s’era segnalato per lo splendido Compianto sul Cristo morto in San Pietro continuando la tradizione emiliana della scultura in terracotta. Disposto a tutto, pur di entrare in contatto con il futuro imperatore, Lombardi ebbe il merito e la furbizia di accodarsi al carro vincente. Lo scrive Vasari nelle sue Vite:
Venne in questo tempo l’Imperator Carlo
v
a Bologna, perché Tiziano da Cador, pittore eccellentissimo, venne a ritrarre Sua Maestà; onde ebbe Alfonso anch’egli via d’entrare per mezzo di Tiziano, e di rilievo cominciò un ritratto quanto il vivo di quegli stucchi. E tanto con grazia espresse la effigie di quello, che oltre il nome che in quella cosa acquistò, de’ mille scudi che l’imperatore donò a Tiziano, esso n’ebbe in sua parte cinquecento.
L’episodio fa riferimento al 1533, ovvero alla seconda visita di Carlo v a Bologna. In quell’occasione, Tiziano fu convocato per ritrarre l’imperatore. Riuscito a entrare nella stessa stanza, Lombardi cominciò a sbozzare un medaglione in stucco, attirando le attenzioni di Carlo v. Colpito dal lavoro, questi gli ordinò di ricavare una scultura in marmo, che lo scultore ferrarese si prenderà la premura di far recapitare personalmente a Genova. In quegli anni Lombardi ricevette, non casualmente, l’incarico di completare l’arca di San Domenico, realizzando i rilievi in marmo del gradino con l’Adorazione dei Magi e le Storie di San Domenico, che certo non sfigurano vicino ai capolavori del giovane Michelangelo. La scommessa e l’audacia di Lombardi furono poi ricompensate da altre commissioni prestigiose, come quella del cardinale Ippolito de’ Medici, che lo prese sotto la sua ala portandolo a Roma, dove fu realizzato il ritratto dell’altro protagonista dell’incoronazione del 1530, papa Clemente vii, opera trasferita poi a Firenze, in Palazzo Vecchio. Tornato a Bologna nel 1535 dopo la morte del suo protettore, Lombardi morì prematuramente, senza aver toccato i quarant’anni. Ma la sua storia, in cui si mescolano intraprendenza e genialità, mostra bene come Bologna fosse una piccola capitale del mondo, nella quale l’occasione giusta, per chi sapesse sfruttarla, era sempre a portata di mano.
Gli affreschi maledetti
Palazzo del Podestà, Salone dei Quattromila, piazza Maggiore
Se fossero stati completati e si fossero conservati, gli affreschi di Adolfo De Carolis oggi sarebbero la Cappella Sistina novecentesca di Bologna. Ma il loro destino fu segnato dall’inizio...
Piazza Maggiore, in un’incisione tratta da La Patria di G. Strafforello.
Come tutte le città ambiziose, anche Bologna volle celebrare sé stessa attraverso una grande opera monumentale. L’idea prese corpo agli inizi del Novecento, quando nel 1907 si proclamò il vincitore del concorso per la decorazione del grande salone di Palazzo del Podestà, vinto dal pittore marchigiano Adolfo De Carolis. L’immenso spazio al primo piano dell’antico palazzo era infatti uno dei nodi irrisolti di Bologna: utilizzato in origine per le assemblee comunali, nel secondo Cinquecento fu trasformato nel primo teatro pubblico della città, con tre ordini di palchi, dai quali si poteva assistere a giostre di cavalieri, tornei, partite e spettacoli di ogni tipo. La nascita dei teatri veri e propri, unita alla crisi dell’immaginario cavalleresco, archiviò la destinazione ludica del salone, che finì per diventare un granaio, prima di essere utilizzato come palestra per il corpo cittadino dei pompieri. Il concorso indetto dalla società Francesco Francia, che era nata col preciso scopo di «fare qualcosa che fosse di utile ai pittori e scultori e all’arte bolognese in ispecie», partorì il nome del trentatreenne Adolfo De Carolis, ex allievo dell’Accademia di Belle Arti di Bologna. L’artista era già famoso per aver illustrato con successo opere di Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio. All’uscita del verdetto, affermò di voler riassumere in forma d’arte la storia e i fasti della città di Bologna in uno stile eclettico e aulico, che fondesse spunti dell’art nouveau con la tradizione della grande arte del passato. Occorsero però quattro anni per avviare i lavori, e questo ritardo fu uno dei motivi che costarono a De Carolis l’impossibilità di veder terminata la sua opera in vita. Fedele al dettato dei committenti, l’artista affrontò i Fasti di Bologna in sei enormi riquadri storici, mentre sul soffitto si concentrò sulle età della Storia, dal mondo antico al cristianesimo, dai Comuni al Rinascimento, senza omettere le tappe cruciali prettamente bolognesi, dalla battaglia di Fossalta alla Liberazione degli schiavi fino alla posa della prima pietra di San Petronio. De Carolis probabilmente ebbe molta fiducia in sé stesso, ma forse sottovalutò le dimensioni smisurate del lavoro che l’attendeva, circa duemila metri quadri per il salone e altri 1200 per la volta, l’equivalente di tre quarti di un campo da calcio di dimensioni regolari. I lavori preparatori di composizione e stesura dell’intonaco non si svolsero sotto la sua guida, e questo si rivelò un altro ostacolo decisivo nell’avanzamento del progetto e nella sua successiva conservazione (nel 1973, infatti, si dovette procedere al distacco di alcuni affreschi per urgenti lavori di restauro). L’opera impegnò così l’artista dal 1911 fino al 1928, anno in cui morì precocemente di cancro. Furono i suoi collaboratori, i numerosi allievi e persino i suoi parenti più stretti, dal fratello Dante al genero Diego Pettinelli, a incaricarsi di completarla. La vera inaugurazione avverrà solo nel 1934 alla presenza di Vittorio Emanuele iii. Eppure, nonostante la fastosa cerimonia e quasi vent’anni di lavori, il ciclo resistette sulle pareti poco più di un trentennio.