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Il bello e il brutto nella Bibbia - Testamento Primo - Secondo volume: Da Genesi ad Apocalisse kî-tôb/kalós – lo’- tôb/kakós - Ovvero “ESSERE” UMANO nei DUE TESTAMENTI - Primo Testamento
Il bello e il brutto nella Bibbia - Testamento Primo - Secondo volume: Da Genesi ad Apocalisse kî-tôb/kalós – lo’- tôb/kakós - Ovvero “ESSERE” UMANO nei DUE TESTAMENTI - Primo Testamento
Il bello e il brutto nella Bibbia - Testamento Primo - Secondo volume: Da Genesi ad Apocalisse kî-tôb/kalós – lo’- tôb/kakós - Ovvero “ESSERE” UMANO nei DUE TESTAMENTI - Primo Testamento
E-book903 pagine12 ore

Il bello e il brutto nella Bibbia - Testamento Primo - Secondo volume: Da Genesi ad Apocalisse kî-tôb/kalós – lo’- tôb/kakós - Ovvero “ESSERE” UMANO nei DUE TESTAMENTI - Primo Testamento

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Il volume affronta ciò che è comunemente indicato come "Nuovo Testamento" leggendovi in realtà il compimento del Tanach ovvero quest'ultimo compiuto da Gesù di Nazareth. I temi principali sono evidentemente di carattere etico-estetico approfondendo concetti inerenti la beatitudine e non solo, cioè il luogo e la condizione in cui l'uomo è felice e in cui la percezione estetica è piena. Il sostegno bibliografico in questo caso è giunto non solo da filosofi e teologi, ma anche da artisti quali Van Gogh, il quale non a caso prima di iniziare a dipingere mise le sue energie nello studio della teologia.
LinguaItaliano
Data di uscita29 apr 2015
ISBN9788891187741
Il bello e il brutto nella Bibbia - Testamento Primo - Secondo volume: Da Genesi ad Apocalisse kî-tôb/kalós – lo’- tôb/kakós - Ovvero “ESSERE” UMANO nei DUE TESTAMENTI - Primo Testamento

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    Anteprima del libro

    Il bello e il brutto nella Bibbia - Testamento Primo - Secondo volume - Pierluigi Toso

    rinnegato.

    CAPITOLO III

    IL PARADOSSO DI CRISTO

    Fin ch’al Verbo di D-o di scender piacque.

    (Paradiso, Canto VII 30)

    I precedenti capitoli hanno mostrato come l’estetica originaria, nella storia di tutto il Primo Testamento, fosse scomparsa e come fosse sopravvissuta solo escatologicamente nel libro dei Salmi, unitamente alle eccezioni inerenti Mosè ed Ester. Questo terzo capitolo, che inizia la seconda parte di quest’opera articolata, sarà teso ad evidenziare il bello (kalós) presente nel Testamento Primo; una bellezza che il quarto capitolo di questo libro mostrerà come nuovamente percepibile dall’uomo, in una nuova estetica che si estende a tutti i sensi umani. Nel libro della Genesi il senso primario ed unico, senso perduto e sostituito dall’udito, era la vista; ma il Testamento Primo evidenzierà come al vedere genesiaco si affianchino l’olfatto, il gusto, l’udito ed il tatto. In tal senso è importante anticipare fin d’ora come sarà Cristo stesso a guarire i sensi dell’uomo, affinché l’estetica umana possa relazionarsi a lui, al kalós. In tal modo si conferma quell’unità partecipativa vissuta da chi sa accogliere la bellezza, intuita ed espressa in maniera formidabile da Plotino: Così il corpo bello viene ad essere per comunione con una ragione formale che proviene dal divino[1] e ancora: Perché questa stessa che è bellezza al massimo grado, bellezza in sé ed originaria, fa diventare belli i suoi amanti e li rende degni d’amore[2]. È pur vero però che la carne estetica che riceve tale bellezza non è compresa pienamente dal discepolo di Ammonio Sacca, il quale ne conferma la visione incrinata rispetto all’assoluta unità estetica espressa dall’antropologia biblica. A tal proposito le seguenti parole del filosofo divulgatore del neoplatonismo sono emblematiche: Quanto alle bellezze più elevate, che non spetta più al senso vedere, ma che l’anima vede e giudica senza il tramite di organi, bisogna contemplarle salendo in alto, lasciando che il senso rimanga in basso[3].

    Parlando di Gesù Cristo bisogna però evidenziare come vi sia una premessa imprescindibile, per riconoscere il legame tra il kalós evangelico che attraversa il Testamento Primo ed il kî-tôb primotestamentario; infatti, per operare tale sovrapposizione risulterà indispensabile riconoscere Gesù di Nazareth come il Cristo, vale a dire come il Paradosso di D-o che s’incarna descritto in maniera formidabile nelle infanzie di Matteo e Luca e soprattutto nel prologo di Giovanni. Il quarto evangelista inoltre ha anche il merito d’inculturare simboli e linguaggi non cristiani a lui contemporanei, mostrando un’inculturazione strutturale del kalós ed evidenziando come la grecità fosse veramente la cultura più adatta a tradurre la tradizione ebraica; ciò non solo è dimostrato dalla Traduzione dei LXX, ma è confermato da autori come Aristotele e Platone, di cui ho evidenziato ed evidenzierò ancora coincidenze col pensiero biblico. Quanto appena detto non significa che un non cristiano non possa capire il lavoro di questo capitolo, ma credo sia onesto rilevare come sia indispensabile porre quantomeno un’epoché di fronte all’unità delle Scritture, per poterne comprendere le argomentazioni da me riportate.

    Il metodo che seguirò terrà conto dei tre criteri fondamentali inerenti l’esegesi concernente il Testamento Primo. Il primo di tali criteri riguarda l’iniziare ogni analisi dal testo originale, criterio che ho evidentemente osservato anche nell’analisi primotestamentaria. Il secondo criterio concerne invece il rapporto tra il Primo Testamento ed il Testamento Primo, principio che si definisce come criterio di continuità-discontinuità. Ciò significa che, quanto affermato dal Testamento Primo, deve assumere la sostanza del Primo Testamento aggiungendo elementi essenzialmente nuovi. In tal senso, dal mio lavoro, emergerà come la bellezza e l’estetica contenute nel Testamento Primo mostrino visibilmente tali criteri, anche se è incontestabile il fatto che le pagine successive al canone ebraico, che vedono come protagonista assoluto Gesù di Nazareth, siano di fatto l’esplicitazione vivente di quanto contenuto nel Primo Testamento, identificando nella persona di Gesù il Messia profetizzato dalle Scritture[4]. L’ultimo criterio, che rende ragione in parte anche dei primi due, riguarda l’interpretazione della Scrittura mediante la complessità della Scrittura stessa. Tale fatto significa che un singolo versetto va sempre compreso e legato all’ermeneutica complessiva di tutta la Bibbia. In tale contesto ermeneutico credo sia importante infine ricordare come il testo biblico possa subire più interpretazioni, da quella letterale e quella allegorica (ciò è stato evidenziato in relazione all’analisi concernente ad esempio il Cantico dei Cantici). Allo stesso tempo va comunque rilevato come a volte, ma in maniera determinante riguardo all’estetica, le differenti interpretazioni derivino dall’utilizzo di termini diversi che designano azioni apparentemente identiche[5].

    A differenza della prima parte del mio lavoro, sottolineo fin d’ora come non riporterò testi analoghi a quelli dei commentatori rabbinici o delle tradizioni talmudiche, visto che l’interpretazione allegorica siffatta fu utilizzata prevalentemente dai Padri della Chiesa (vedi Agostino); mentre oggi, a seguito dell’influenza filosofica Aristotelica, inculturata e divulgata teologicamente da Tomaso d’Aquino, l’interpretazione dei testi inerenti il Testamento Primo vede prevalere un’analisi storica o un commento filosofico-paradossale (vedi Von Balthasar), sempre comunque alla luce delle Scritture primotestamentarie[6].

    Il paradosso dell’Incarnazione di D-o è immediatamente affrontato nel vangelo di Giovanni, il cui inizio non a caso coincide con l’inizio del libro della Genesi; tale coincidenza significa la consustanzialità tra il D-o Creatore originario e Cristo. Preciso tale coincidenza, perché nel quarto capitolo emergerà chiaramente, per co-incidenze sia etimologiche sia d’azione, come nei vangeli sia descritta una nuova creazione, che io chiamerò ri-creazione. L’azione del verbo incarnato è dunque una nuova creazione con riferimento alla prima[7], ma, in quanto proveniente dall’interno di D-o, eterna e definitiva.

    La vita di cui si parla nel prologo di Giovanni è la vita eterna unita alla luce. Vita e luce, insieme, indicano la pienezza dell’esistenza umana e la rivelazione nel senso più profondo[8]. Come nuova creazione però la luce temporanea e temporale, della creazione iniziale, diviene eterna, coinvolgendo ogni uomo che entra nel regno di D-o, ossia nella bellezza definitiva della Gerusalemme celeste. Proprio per tale motivo a conclusione di questo libro porrò un quinto capitolo, che prenderà in esame il regno di D-o e/o dei cieli. Regno che non solo mostrerà la bontà e la bellezza nella verità, rendendo espliciti due trascendentali dell’Essere, ma che vedrà come premessa l’Unità; un’unità che completa i trascendentali e che fonda l’azione esteticamente unitaria di Cristo. È tale unità che evidenzierò in un momento immediatamente precedente l’analisi della ri-composizione dei sensi operata dal kalós; una ricomposizione insita nel significato stesso della parola greca ora protagonista, la quale indica sia il buono sia il bello e proprio in tale totalità può raccogliere e riunire quei sensi che ora si esprimono nel buono come il gusto e l’olfatto, ora nel bello come la vista e l’udito, ora in entrambi come il senso supremo del tatto.

    In sintesi lo scopo di questo capitolo, ma più in generale dell’intera seconda parte del mio lavoro, sarà quello di mostrare come sia il paradosso, cioè D-o incarnato, a dare la possibilità eterna dell’estetica primordiale, estetica però ampliata in ogni senso in una direzione eterna. Inoltre cercherò di far emergere la via attraverso cui ogni uomo può entrare in tale estetica ed a tal fine analizzerò quanto esprime il vangelo di Giovanni, estraendone la via verso il regno di D-o, via che identificherò come via dell’amore.

    Prima di procedere all’analisi dell’azione di Gesù come kalós ed a quanto affermato nelle righe precedenti, dedicherò alcune righe al significato della parola kalós con riferimento ai termini ebraici cardine dell’analisi estetica compiuta riguardo al Primo Testamento, righe ulteriormente precedute da una riflessione su quanto non è scritto, ma è fondamentale, come le fondamenta di una casa, per lo svolgersi di tutte le Scritture, anche dal punto di vista estetico. Tale riflessione investirà la cosiddetta ‘âzilût compiuta dal Creatore in origine per lasciar spazio alla Creazione, rivisitata nei confronti del protagonista dei vangeli. Terminato il paragrafo dedicato al ritrarsi divino e al significato del termine cardine greco di questa seconda parte di lavoro, inizierà il percorso attraverso i testi del Testamento Primo, cominciando dall’etica che riconosce l’estetica per poi camminare partendo dalle tentazioni di Gesù incontrate nel deserto. Infatti, tale episodio è speculare alla caduta dei progenitori[9], dal momento che, proprio il superamento di tali tentazioni, risulta essere l’elemento essenziale premesso a tutta l’attività del kalós, ossia di Cristo. Il cammino proseguirà giungendo al nocciolo estetico del Testamento Primo ovvero all’episodio della trasfigurazione, osservata unitamente al suo legame col regno dei cieli e agli effetti presenti lungo tutto il vangelo quadriforme, a tal fine riporterò delle analisi inerenti la presenza della bellezza che attraversa vangelo di Matteo, della gioia che abbraccia il vangelo di Luca e dell’amore insieme al paradosso che investe il vangelo di Giovanni. A tali analisi farò precedere una breve sintesi del vangelo di Marco che raccolga gli elementi fondamentali citati, il tutto intervallato dall’accostamento dell’episodio del giovane ricco[10] descritto nel vangelo marciano e di quello di Zaccheo raccontato nel vangelo di Luca. Quest’ultimo accostamento, infatti, evidenzierà la gioia di chi entra nel regno di D-o in antitesi alla tristezza di chi ne resta fuori, in altre parole di chi resta consapevolmente fuori della bellezza eterna. Inoltre, estenderò l’analisi del problema della ricchezza a tutti gli episodi del vangelo quadriforme e del libro dell’Apocalisse.

    0 Il ritrarsi poetico divino ovvero l’’âzilût

    Sulla sovrapposizione d’origine esistente tra il D-o Creatore con cui l’uomo del Tanach dialoga, a cominciare dai progenitori, e il protagonista del Testamento Primo, descritta nel Prologo giovanneo non ci sono dubbi[11]. Il problema maggiore riguarda invece accostare il non detto e il non scritto, che nel caso specifico è da individuarsi nell’’âzilût, cioè in quel ritrarsi di D-o che la tradizione ebraica argomenta come la prima vera azione divina in funzione della Creazione.

    Il termine ’âzilût deriva dalla radice ’zl, che tradotta verbalmente ossia ’âzal esprime una serie di significati quali: andare via, terminare, esaurirsi. Da notare come tale verbo esprima sempre un significato poetico che supera sempre la sua interpretazione letterale. Ancora una volta le Scritture confermano la loro precisione simbolica, con particolare riferimento al Tanach, infatti, ‘âzal fa la sua comparsa per tre volte nella sua forma ebraica (Dt 32,36; 1 Sam 9,7; Gb 14,11) e per sette volte nella sua incarnazione aramaica (Esdra 4,23, 5,8.15; Dan 2,17.24, 6,19-20). Sarebbe sufficiente tale riferimento numerico per cogliere fin da subito l’importanza poetica[12] di tale verbo, ma al suo significato simbolico si aggiungono altre evidenze già viste nella prima parte di questo lavoro. In particolare è assolutamente straordinario notare come nelle tre presenze ebraiche del verbo ‘âzal trovi posto il kî-’âzal (Dt 32,36) che, ancora una volta in coincidenza col kî-tôb d’origine, è unito al vedere di D-o. Tale aspetto è fondamentale perché ribadisce come anche l’’âzilût sia una prerogativa estetica divina, infatti, è D-o che può vederla, in quanto solo Lui l’ha compiuta; non a caso anche la lettura letterale del testo parla in questo caso dell’esaurirsi delle forze dell’uomo, le quali abbracciano certamente parti non visibili all’occhio umano. Nelle altre due volte, in cui il verbo ora in analisi è coniugato, le bocche protagoniste sono quelle di Giobbe e di Saul. Il primo si riferisce all’esaurimento e/o alla possibile evaporazione dei mari, mentre il secondo constata come il pane fosse finito ovvero come si fosse a sua volta esaurito. Perciò emerge chiaramente come l’uomo, seppur in uomini straordinariamente protagonisti delle Scritture come Giobbe e Saul, sia limitato nella sua relazione consapevole con l’’âzilût, tanto che la constatano solo in relazione a mancanze materiali. D’altra parte è altrettanto vero che esiste comunque tale relazione, un fatto che pone gli uomini citati in una posizione privilegiata che, con particolare riferimento a Giobbe, è stata evidenziata anche dal punto di vista estetico nella prima parte di questo lavoro.

    Le sette volte in cui ‘âzal si esprime in aramaico[13] mostra dei significati escatologici evidenti che sono da estrarre dal racconto biblico. Infatti, nel libro di Esdra, i tre riferimenti concernono sempre movimenti diretti verso Gerusalemme e verso il tempio da parte di uomini non ebrei. Ciò denota una universalizzazione escatologica che rende possibile a qualunque uomo il suo camminare verso la città della pace, quella città che escatologicamente è il luogo dove regna la pienezza estetica, luogo traducibile in qualche modo con il regno di D-o. Per quanto concerne le quattro presenze nel libro di Daniele sarebbe necessario un approfondimento mirato, tenendo conto anche di quello che non si sa di tale libro, cioè di quanto di non accessibile all’uomo vi sia descritto, un non accessibile che la tradizione ebraica individua nella rivelazione dei tempi precisi escatologici divini nei confronti della Creazione[14]. Certamente, i quattro passi citati, sono legati tra loro da un andare verso la rivelazione divina, così come visto in maniera geografica evidente nei testi di Esdra e proprio legando questi ultimi alle parole del libro di Daniele è possibile affermare come non solo il luogo di pace e pienezza estetica in modo impreciso o allusivo, ma è chiaramente indicabile il contenuto, seppur parziale ed esemplificativo, del regno di D-o. Infatti, il momento cruciale in tal senso è la mansuetudine dei leoni, che richiama l’escatologica del regno di D-o descritta nel libro di Isaia. Una mansuetudine legata e prodotta dall’innocenza che ha di fronte, quella di Daniele, il quale è descritto come innocente davanti a D-o, ma anche davanti al re, cioè davanti agli uomini. Per quanto concerne la versione greca dei LXX è curioso notare come nei passi di Deuteronomio e del primo libro di Samuele il verbo utilizzato sia ẻkleípô, mentre in Giobbe compaia il verbo spanízô; invece, con riferimento ai passi di Esdra troviamo sempre il verbo poreúomai, utilizzato invece solamente una volta con riferimento ai passi di Daniele (6,20). Negli altri tre casi, infatti, si incontrano altrettanti verbi differenti cioè ảpérchomai (2,17) eỉsérchomai (2,24) e ypostréfô. La varietà presente in Daniele e l’univocità descritta in Esdra, con riferimento ai verbi greci utilizzati, esprimono chiaramente due gradi di difficoltà diversi rispetto all’interpretazione dell’’âzal greco profetico. I movimenti descritti dal testo greco dei LXX sono precisi e disegnano Daniele che esce ed entra, mentre il re ritorna (a casa) e corre nel luogo dove c’era Daniele. In realtà, leggendo attentamente i testi, i primi tre movimenti presenti nel libro di Daniele sono legati alla preghiera e al digiuno, infatti, inizialmente vi è la preghiera verso D-o (2,18) cui segue la richiesta di non uccidere i saggi di Babilonia (2,24), per giungere al digiuno e all’astinenza del re (6,19) che lo portano a correre all’alba da Daniele (6,20). In sintesi ‘âzal, articolato nella traduzione greca, descrive con precisione il percorso che porta ad una situazione messianica, in cui all’uomo è possibile stare con le fiere e non subirne danni. Se aggiungiamo quanto appena affermato alla situazione geografica descritta da ‘azal in Esdra, risulta evidente come l’approdo di tale verbo, dunque la direzione verso cui muove chi investe, sia il regno di D-o. Riportando i verbi greci incontrati all’interno del Testamento Primo, scopriamo come ẻkleípô esista per tre volte e in maniera esclusiva nel vangelo lucano (16,9; 22,32; 23,45), mentre il verbo spanízô esaurisce se stesso nel Tanach[15]. In tali passi l’esaurirsi, il mancare, il ritrarsi enunciato dal verbo d’origine ebraico ‘âzal tocca le ricchezze materiali (16,9), la fede di Pietro (22,32) e l’eclissi, cioè il venir meno del sole (23,45). La progressione sintetica descritta da Luca tocca tre elementi fondamentali per l’uomo che riassumono la sua stessa vita e denunciano l’incapacità umana di raggiungere una ricchezza giusta, una fede senza l’ausilio della preghiera stessa del Maestro e la costruzione solida di un tempio senza la luce guida. Evidentemente quest’ultima affermazione è da interpretarsi in chiave analogica o metaforica, in quanto l’eclissi del sole è legata allo spirare di Gesù sulla croce ed è tale legame che provoca il crollo di ogni possibile muro di preghiera. Certamente nella croce dipinta in modo così vario dagli evangelisti risiede la possibile individuazione dell’’âzilût che lega Gesù al D-o Creatore, infatti, attraverso la croce Gesù si ritrae dal mondo e ritrae sia la sua umanità sia la sua umanità per lasciar lo spazio infinitamente necessario all’umanità presente per poter riconoscere la divinità. La croce quadripartita dei vangeli sinottici unitamente al vangelo di Giovanni narra in maniera perfettamente equilibrata il ritrarsi prima divino e poi umano del protagonista dei vangeli, infatti, se è vero che nel racconto marciano e di Matteo Gesù grida il ritrarsi da sé della presenza divina, dunque un abbandono che ne mette completamente a nudo l’umanità solitaria, è altrettanto vero che Luca descrive un uomo consapevole del suo regno divino, cioè del paradiso, mentre Giovanni raccoglie in maniera formidabile entrambi gli aspetti, infatti, mentre consegna la propria umanità nel discepolo amato alla madre, ritraendola così dal mondo, esprime quel tutto è compiuto che chiude quel principio divino con cui inizia il Prologo giovanneo. Perciò, se Luca mostra un Gesù assolutamente in compagnia del Padre e privo del grido di abbandono descritto nei fratelli sinottici, Giovanni assume il grido umano nella sete del nazareno e la sua divinità in quella consegna consapevole d’umanità fatta a Maria, un gesto certamente in ricordo sia del quarto comandamento sia del significato della povertà biblica, povertà che Gesù colma fino all’ultimo momento della sua storia di terra. Dunque, nel momento della croce si chiude ogni ‘âzilût divina e pienamente umana e da quel tempo in avanti l’uomo ha la possibilità del suo spazio assoluto in cui scegliere quale percorso estetico seguire[16].

    Proseguendo nella disamina del testo greco dei LXX, con riferimento al Testo Masoretico ed estrapolandone gli altri verbi greci che si incontrano anche all’interno del vangelo quadriforme ci imbattiamo in ảpérchomai, termine che indica l’andare di colui che ha il desiderio di seguire il Maestro (Mt 8,19 e Lc 9,57). Un desiderio esplicito che può investire anche chi è già discepolo del Maestro come Pietro (Gv 6,68), ma anche un andare stolto come le donne che vanno a comprare l’olio perdendo l’appuntamento escatologico decisivo (Mt 25,10). In ogni caso tale verbo esprime un andare decisivo ed escatologico, sia esso per il castigo o per la vita eterna (Mt 25,46). Anche il verbo eỉsérchomai descrive un movimento escatologico, infatti, significa un entrare legato al regno dei cieli e/o di D-o ed in tal senso lo troviamo disseminato nel vangelo quadriforme in moltissime occasioni[17]. È interessante notare come mentre l’andare descritto dal verbo ảpérchomai, pur definendo momenti chiaramente escatologici anche riguardo a Gesù stesso[18], non compare mai nel libro ultimo del Testamento Primo, mentre il verbo eỉsérchomai è protagonista per ben quattro volte nel libro della Rivelazione (Ap 3,20; 15,8; 21,27; 22,14). Straordinaria è la perfezione equilibrata positivo-negativa che investe eỉsérchomai proprio nella pagine di libro di chiusura del canone cristiano, un equilibrio che incomincia col bussare divino alla porta di chi lo lascia entrare (3,20), passando per l’impossibilità di entrare nel tempio (15,8), ma soprattutto di entrare nella città di D-o per la falsità e la non limpidezza (21,27), per giungere infine alla beatitudine di chi può entrare per le porte della città in cui regna la pienezza della pace, della bontà, della bellezza e della verità (22,14). Tale, infatti, è l’entrare ultimo presente nelle Scritture, quello decisivo legato a tutto il discorso estetico che ha condotto e che continuerà a condurre ogni pagina di questo lavoro. Ecco dunque il significato ultimo di ‘âzal, di quel ritrarsi poetico divino che accompagna l’uomo fino alle porte della bellezza escatologica[19], una compagnia che il Testamento Primo individua umanamente in Gesù, quell’uomo che come Daniele si mostrò innocente davanti a D-o e davanti agli uomini non avendo compiuto nulla di male e di brutto.

    Ho affermato precedentemente come l’’âzilût fosse una prerogativa divina, anche nella sua percezione, i vangeli però in tal senso ci mostrano una possibilità indiretta per l’uomo di percepirla, rivelando ulteriormente la paradossalità ti tale straordinario movimento compiuto da Gesù tramite la croce, infatti, quando i vangeli descrivono nella croce l’’âzilût divina nei confronti dell’umanità crocifissa, si produce la possibilità per l’uomo di riconoscere nell’umanità che ha di fronte la divinità, in tal senso, infatti, nascono le parole del centurione romano: Veramente quest’uomo era figlio di D-o (Mc 15,39; Mt 27,54). In estrema sintesi si può affermare come il centurione riveli un’indiretta capacità di lettura dell’’âzilût divina, individuando il ritrarsi di quella parte poi definita conciliarmente come natura divina di Gesù e tale andar via lasciò visibile l’assoluta umanità del crocifisso. Luca invece descrive l’’âzilût dell’umanità di Gesù, infatti, lo dipinge come colui che parla direttamente al Padre sulla croce dimostrando un vincolo ancora percepito, in quella frase su cui ci sarebbe molto da scrivere alla luce del pensiero socratico[20]. Però, anche in questo, vi è un uomo che riconosce tale ‘âzilût umana vedendo di fronte a sé quel che resta ossia la divinità del Cristo, tanto da riconoscerlo esplicitamente come il re di un regno che supera la morte. In tale capacità risiede la grandezza del ladrone crocifisso accanto lui, che lo difese con giustizia dalle parole impavide di chi stava al lato opposto delle tre croci, una giustizia che lo portò ad accettare la propria crocifissione e non a protestare quest’ultima, se non nei riguardi del Maestro[21]. Da ultimo un accenno alla croce descritta nel quarto vangelo, dove Gesù si mostra presente nella sua umanità e nella sua divinità, preoccupandosi della madre e del discepolo amato, mentre aveva ben in mente di compiere le Scritture fino alla fine, per testimoniare della propria divinità. In Giovanni l’’âzilût umana e divina giunge non solo col corpo deposto e con lo spirito reso al momento nella morte, ma soprattutto in quel primo giorno dopo il sabato, in cui una donna scopre l’’âzilût del Signore (Gv 20,2), un ritrarsi verso il Padre che lo stesso Gesù spiegherà direttamente a Maria Maddalena (Gv 20,16) quando lei vedrà il Maestro; mentre prima, proprio Giovanni, di fronte all’’âzilût umana di Gesù simboleggiata dalle bende piegate prive del suo corpo, vide e credette (Gv 20,8)[22].

    Le parole spese a riflettere brevemente su cosa significhi l’’âzilût sono evidentemente da comprendere soprattutto in chiave estetica e più precisamente in chiave poetica, perché il ritrarsi dell’umanità di Gesù è funzionale a lasciare lo spazio creativo a uomo di fronte a se stesso, cioè nella comunicazione intra-umanitaria che abbraccia l’intera umanità. Così come il ritrarsi iniziale di D-o ha dato la possibilità all’uomo di cercare una propria creatività imitativa della Creazione, seppur sconsigliata dalle Scritture, perché quando l’egocentrismo conduce l’arte ne nascono solamente proiezioni narcisiste morte cioè prive di vita. L’esempio del protagonista dei vangeli mostra quale sia la vera arte che l’uomo dovrebbe cercare e praticare, cioè la cura estetica del suo simile in modo da poter estendere il più possibile la capacità percettiva dell’uomo di fronte alla bellezza creata da D-o.

    1 Il kalós nella Creazione

    Analizzando il termine tôb ed in particolare il kî-tôb relativo al libro della Genesi, ma anche ai Salmi, ho evidenziato come esso abbia un’innegabile connotazione estetica. Il termine kalós relativo ai libri biblici appena citati, in particolare a Genesi, ha delle risonanze proprie rispetto a tôb; infatti, oltre ai valori funzionali pratici, morali ed estetici già visti, a proposito di kî-tôb, si aggiunge un’idea di bellezza, quindi di valori estetici, che corrisponde in maniera particolare all’idea greca di kosmos (Cf. Platone, Timeo 92c). Proprio in relazione a Gen 1,4, cioè al giudizio sulla luce, ciò si evidenzia in maniera emblematica[23]. Ancora Platone (Cf. Rep. VI, 517 b-c) afferma comunque come sia stata l’idea di Bene, la causa universale di tutto ciò che esiste di buono e di bello, e come proprio tale idea abbia creato la luce ed il dispensatore della luce[24]. Ciò evidenzia come, l’idea estetica greca in questione, potrebbe essere utilizzata per divulgare l’estetica biblica presente in Genesi, in particolare nel quarto versetto del primo capitolo. In tal senso le parole presenti nel giudaismo alessandrino, in cui si afferma che D-o è al principio del bene e dunque del bello, in particolare il pensiero di Filone, il quale afferma che D-o è superiore ai modelli di bene e male cui possiamo ispirarci nel mondo, confermano come la bellezza sia stata creata[25]. Per tale stretta relazione greco-ebraica, evidenziata anche nel passaggio della bellezza ai greci (Cf. Capitolo I), credo si possa affermare come la Traduzione dei LXX leghi in maniera formidabile il Testo Masoretico ed il Testamento Primo, almeno per quanto concerne l’aspetto estetico, oggetto del lavoro presente.

    Proprio in relazione al Testo Masoretico, si è visto come nel secondo giorno manchi il giudizio di bontà-bellezza da parte del Creatore, in tal senso è straordinario notare come la Traduzione dei LXX aggiunga tale giudizio e completi il giudizio estetico relativo ad ogni giorno genesiaco. Infatti, bisogna aggiungere come, ancora nella LXX, non compaia tale giudizio giornaliero proprio nel terzo giorno, quasi a rispettare il testo ebraico da cui proviene[26]. A conferma della corretta traduzione di kalós con bellezza giunge ancora una volta Basilio di Cesarea, il quale riconobbe la bellezza del giudizio di D-o sulla creazione e nel suo commento al testo greco, inerente i due passi di bellezza scrisse: E D-o vide che l’opera era bella che segue le regole d’arte secondo un ordine, così come afferma il pensiero greco[27]; ed ancora: E D-o vide che ciò era bello[28]. Oltre alla differenza inerente la presenza di kalós rispetto al kî-tôb bisogna sottolineare un apporto nuovo del testo greco, il quale riporta, successivamente ai due giudizi già visti, il plurale kalà ai versetti 21, 25 e 31. Tale affermazione estetica plurale, testimonia l’unità dello sguardo unico di D-o sulla Creazione e l’esistenza molteplice delle creature create[29]. In tal senso, in relazione al versetto 21, Didimo afferma come in precedenza fosse stato utilizzato il singolare perché ciò che era stato creato era unico o in un solo luogo; mentre ora le creature occupano sia la terra che l’aria, quindi tutto lo spazio. Basilio vede piuttosto la creazione delle creature marine in funzione della contemplazione della loro meraviglia, mentre Procopo ne sottolinea una funzionalità alimentare in vista della creazione dell’uomo. Infine vi è anche un significato allegorico-escatologico in funzione dell’avvento finale di Cristo[30].

    Riguardo comunque alla creazione di creature mostruose esistono altre spiegazioni legate alle virtù di tali animali ed in tal senso persiste il limite dell’uomo, il quale non comprende tutto ciò che lo circonda; questo è quanto afferma Agostino nella disputa coi Manichei, disputa in cui ammette un’ignoranza ed un’incomprensione umana unita ad un’estetica limitata[31]. Aggiungo come, già ai giorni nostri, tale comprensione si sia ampliata, grazie allo studio ed alla conoscenza delle virtù etiche, ma anche della bellezza di creature, le quali fino a pochi anni o secoli fa incutevano timore e paura in chi le osservava.

    Un ultimo accenno va fatto al giudizio plurale pronunciato da D-o al momento del termine della Sua opera. La LXX riporta lìan kalà, che significa molto belle. È interessante in tal senso vedere come Aquila riporti ảgathon (buono), il che completa e sottolinea la bontà e la bellezza di quanto creato da D-o. Filone e Didimo vedono in tale giudizio l’oggettività della bellezza raggiunta, ossia l’armonia, l’ordine e la proporzione presenti in essa. Giovanni Crisostomo sottolinea come il giudizio di D-o risponda a tutti i perché umani di fronte a cose ed animali, esseri ed oggetti di cui ci si domanda il motivo della loro esistenza[32]. Inoltre in tali testi genesiaci "spesso le idee greche di kosmos, ordine e bellezza, giustificano il plurale kalà, percepito con una connotazione estetica"[33]. Eusebio di Cesarea fa invece riferimento attraverso il termine kalòn al Testo Masoretico sottolineando come ogni cosa creata sia buona/bella. Platone, a confermare il legame estetico greco-ebraico, dice: "Se questo mondo è bello (kalós) e se l’operaio è buono (ảgathós), è chiaro che fissò il suo sguardo sul modello eterno". Infine credo di poter chiudere in maniera proficua, i vari giudizi estetici in questione, riportando quanto disse Giovanni Crisostomo a proposito del superlativo lìan, utilizzato per esaltare la bontà/bellezza della Creazione; tale Padre della Chiesa affermò: Lìan può significare troppo![34].

    Credo che, quanto riportato in questo breve paragrafo introduttivo, abbia messo in evidenza come non sia casuale l’accostamento tra il tôb/kî-tôb ed il kalós; ma che anzi vi sia una correlazione estetica fondante, la quale permette di vedere in maniera unitaria i testi biblici, iniziando dal Testo Masoretico per giungere al Testo greco del Testamento Primo, ovviamente passando attraverso la Traduzione dei LXX.

    1.1 L’etica indispensabile che riconosce l’estetica e l’accettazione umana di D-o

    Mc 1,9: Ora, in quei giorni, Gesù giunse da Nazareth di Galilea e fu battezzato da Giovanni nel Giordano.

    Mt 3,13: Allora Gesù dalla Galilea si recò al Giordano per essere da lui battezzato.

    Lc 3,12.18.21: Vennero anche alcuni pubblicani per farsi battezzare. Gli domandarono: ‘Maestro, che cosa dobbiamo fare?’ Così, con molte e varie esortazioni evangelizzava il popolo. Tutto il popolo si faceva battezzare, e fu battezzato anche Gesù.

    Gv 1,35-37: L’indomani, Giovanni si trovava ancora là con due dei suoi discepoli. Fissando lo sguardo su Gesù che passava, egli dice: ‘Ecco l’agnello di D-o’ I due discepoli lo sentirono parlare così e seguirono Gesù.

    Nel pensiero comune il vangelo è sempre identificato con la parola e l’azione di Gesù, ma, in ogni redazione dei quattro evangelisti, prima di scoprire le facoltà dell’uomo di Nazareth si incontra un altro uomo, un cugino del figlio di Maria e Giuseppe che porta il nome di Giovanni, Giovanni il Battista. Giovanni non compie miracoli, ma richiama l’uomo a quel battesimo di conversione che un buon ebreo chiamerebbe Teshuvà[35]. Gli effetti che Giovanni propone sono effetti d’etica che investono soprattutto atteggiamenti di carattere sociale, dal non esigere più del dovuto a dare ciò che non è necessario a chi è nel bisogno. In realtà, riuscire in tale impresa è già un miracolo, non a caso Giovanni è il passaggio ‘obbligato’ per incontrare la potenza straordinaria e miracolosa di Gesù e, in termini estetici, si può dire che Giovanni è il passaggio etico indispensabile per incontrare l’estetica di Gesù. Ciò è talmente vero che lo stesso Gesù si fece battezzare dal Battista, per dare l’esempio a tutti pur non avendo alcun gesto sociale ed economico da cambiare nella sua vita, inoltre, la necessità del il Battista, evidentemente secondo i vangeli, al percorso etico-estetico legato alla fede in Gesù, è confermato dal fatto che sia riconosciuto come Maestro e che evangelizzi, due rilievi che solamente Gesù possiede nel vangelo quadriforme[36].

    Quanto affermato finora potrebbe confondere la figura del Battista con quella di colui che per primo è risuscitato da morte, per tale motivo gli stessi evangelisti e con una chiarezza forse più evidente degli altri Giovanni precisano a più riprese come questi non fosse il Messia o il Cristo, distinguendone proprio le prerogative, mentre proprio il quarto evangelista evidenzia come sia stato Giovanni il Battista il primo a riconoscere Gesù nelle sue qualità divine, un fatto che può ancora una volta essere letto esteticamente, dove l’etica si rivela indispensabile a riconoscere ed indicare l’estetica e dove l’avvento della salvezza e della misericordia, anche pienamente umana, è preceduta da un percorso di conversione possibile alle forze libere di ogni uomo.

    Oltre al riconoscimento da parte dell’etica dell’estetica divina, vi è un punto fondamentale per tutta l’azione evangelica che investe il Maestro, cioè il battesimo che riceve da Giovanni, un battesimo d’etica di cui non ha apparentemente alcuna necessità[37]. Per comprenderne però l’importanza assoluta che riveste per tutta la storia del figlio di Maria e del cristianesimo bisogna ancora una volta ricordare quelle Scritture che Gesù conosceva bene e all’interno delle quali si muoveva[38]. Infatti, tornando agli inizi e ricordando come Adamo ed Eva non seppero accettare la propria umanità e viverla pienamente negli argini dettatigli dall’azione creativa divina si comprende il perché dell’azione del Battista su Gesù, il quale accetta il riconoscimento d’umanità che il gesto del Battista comportava. È in tale momento che Gesù può iniziare il suo percorso pubblico di testimonianza dell’azione estetica divina, proprio perché ha assunto l’umanità pienamente, senza relegarla in un angolo; tanto che, come vedremo nei paragrafi successivi, tale consapevolezza gli permetterà di rinunciare e respingere la tentazione di Satana, quest’ultima riassumibile in quell’antica dei pro-genitori. Accettare l’umanità, accettare di essere pienamente uomini è il punto decisivo che, se respinto, impedisce alla filosofia di diventare teologia autentica, finendo col produrre dei pensatori narcisisti. La storia del cristianesimo ha mostrato quanto si sia cercato di raggiungere un compromesso e una fusione tra filosofia e teologia, raggiungendo il solo scopo di non riuscire a ricevere quella capacità etica-estetica che solamente la teologia autentica raggiunge[39]. Il quarto vangelo, rispetto ai sinottici, opera una riflessione rovesciata e nel contempo sovrapposta alle Scritture, specialmente al libro della Genesi. Per tale motivo Gesù è individuato immediatamente come proveniente da D-o, senza la necessità di alcuna riflessione ulteriore, mentre come vedremo le tentazioni saranno sintetizzate in quell’episodio di rovesciamento d’origine incarnato nelle nozze di Cana.

    2 Le tentazioni di Gesù e Satana

    2.1 Le tentazioni di Gesù

    Mc 1,12-13: "E subito lo Spirito lo spinge nel deserto. Ed era nel deserto quaranta giorni, tentato (peirázô, nsh[40]) da Satana[41] (satanâs, sâtân); ed era con le fiere[42], e gli angeli lo servivano".

    Mt 4,1-11: "Allora Gesù fu condotto su nel deserto dallo Spirito, per essere tentato (peirázô, nsh) dal diavolo (diábolos, sâtân). E avendo digiunato quaranta giorni e quaranta notti, infine ebbe fame. E, essendosi avvicinato il tentatore (peirázô, nsh), gli disse: ‘Se sei figlio di D-o[43], dì che queste pietre diventino pani’. Ma egli, rispondendo, disse: ‘Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di D-o’ (Dt 8,3). Allora il diavolo (diábolos, sâtân) lo prende con (sé) nella Città Santa, e lo pose sul pinnacolo del tempio, e gli dice: ‘Se sei figlio di D-o, gettati giù, perché sta scritto che comanderà ai suoi angeli per te e ti porteranno sulle mani, affinché il tuo piede non urti contro una pietra’ (Sal 91,11-12). Gesù gli dichiarò: ‘Di nuovo, sta scritto: Non tenterai (ekpeirázô, nsh) il Signore D-o tuo’ (Dt 6,16). Di nuovo il diavolo (diábolos, sâtân) lo prende con (sé) su di un monte assai alto, e gli mostra tutti i regni del mondo, e la loro gloria, e gli disse: ‘Tutto questo ti darò, se prostrandoti, mi adorerai’. Allora gli dice Gesù: ‘Va via, Satana (satanâs, sâtân); perché sta scritto: Il Signore D-o tuo adorerai e a lui solo renderai culto’ (Dt 6,13). Allora il diavolo (diábolos, sâtân) lo lascia, ed ecco, degli angeli si avvicinarono e lo servivano".

    Lc 4,1-13: "Ora, Gesù pieno di Spirito Santo, ritornò dal Giordano, ed era condotto nello Spirito nel deserto, per quaranta giorni tentato (peirázô, nsh) dal diavolo (diábolos, sâtân). E non mangiò nulla in quei giorni, e quando furono terminati, ebbe fame. Ora, gli disse il diavolo (diábolos, sâtân): ‘Se sei figlio di D-o, dì a questa pietra che diventi pane’. E Gesù gli rispose: ‘Sta scritto che non di solo pane vivrà l’uomo’ (Dt 8,3). E, avendolo condotto su (in alto), gli mostrò tutti i regni della (terra) abitata in un attimo di tempo. E gli disse il diavolo (diábolos, sâtân): ‘Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, poiché è stata consegnata a me e la do a chi voglio; se tu dunque mi adorerai, sarà tutta tua’. E Gesù, rispondendo, gli disse: ‘Sta scritto: Adorerai il Signore D-o tuo e a lui solo renderai culto’ (Dt 6,13). Ora, lo condusse a Gerusalemme e lo pose sul pinnacolo del tempio, e gli disse: ‘Se sei figlio di D-o, gettati giù di qui; perché sta scritto che comanderà ai suoi angeli per te di custodirti e che ti porteranno sulle mani, affinché il tuo piede non urti contro una pietra’ (Sal 91,11-12). E, rispondendo, Gesù gli disse: ‘È stato detto: Non tenterai (peirázô, nsh) il Signore D-o tuo’ (Dt 6,16). E terminata ogni tentazione (peirasmós), il diavolo (diábolos, sâtân) si allontanò da lui, fino al tempo (opportuno)".

    Gv 8,6: "Dicevano questo per metterlo alla prova (peirázô), per poterlo accusare. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere con il dito in terra".

    La tentazione non è una novità del Testamento Primo, infatti, essa compare, seppur molto raramente, anche nel Primo Testamento, laddove è riferita sia a D-o che mette alla prova l’uomo (Dt 13,4) sia come ammonimento riferito al popolo di D-o, che tenta il Signore mettendone in dubbio la presenza (Es 17,2). La radice verbale ebraica, poi tradotta dalla LXX e ripresa dal testo greco del Testamento Primo attraverso il verbo peirázô, è nsh. Tale radice compare molto raramente in tutto il Primo Testamento, oltre a quelle citate sono da ricordare un passo del libro di Qoelet, in cui è utilizzato col significato di mettere alla prova, e un altro versetto del libro del Deuteronomio, citato sia da Matteo sia da Luca dove invece è usato col significato più vicino all’atto del tentare. È interessante notare come Marco, in maniera unica ed assoluta, e Matteo, nell’unica parola con cui Gesù si rivolge al tentatore, il diavolo è chiamato per nome e indicato come Satana, cioè come lo stesso attore tentatore presente nel libro di Giobbe. Ciò aiuta in maniera formidabile la comprensione dell’origine della tentazione, quella che giunge mossa da un attore esterno e non da una semplice entropia, come invece potrebbe lasciar trasparire quanto accaduto ad Adamo ed Eva grazie ad un serpente che altro non sarebbe se non la proiezione di quanto già esiste all’interno di ogni uomo[44]. A questo punto è facile comprendere come nel libro dell’Apocalisse vi sia una chiara identificazione tra Satana, il diavolo e il serpente (Ap 12,9 e 20,2).

    Il passo di Marco mostra l’essenzialità delle tentazioni superate da Gesù, tentazioni che, da un punto di vista estetico, mirano a rompere l’unità della bellezza e dei sensi che esiste in Gesù e non a caso, dopo aver corrotto l’intera umanità impedendole di vedere la bellezza (il kî-tôb perduto con la caduta originale), il diavolo tenta di corrompere lo stesso D-o incarnato in Gesù Cristo. Marco descrive l’essenzialità del fatto, ossia che Gesù non cade, anzi dall’essenzialità marciana si può chiaramente dedurre come il tentatore non si riveli assolutamente in grado di poter avere un confronto alla pari col Maestro, del quale non è precisata alcuna debolezza né fisica né spirituale in cui il tentatore potrebbe insinuarsi. Ciò è talmente vero che la situazione paradisiaca escatologica, che vede Gesù insieme alle fiere ed agli angeli che lo servono, è praticamente contemporanea alla presenza di Satana. Subito dopo tale evento Gesù incomincia ad annunciare il regno di D-o con quella situazione Maestrale e armoniosa indicata dalla presenza delle fiere e dagli angeli che lo servono, i quali simboleggiano chiaramente un’unità profonda tra cielo e terra. La precisazione inerente il paradiso escatologico è figlia della comprensione di come in origine l’uomo non avesse il dominio sulle fiere, perciò la situazione descritta da Marco è oltre ogni origine, anche paradisiaca. Tale risultato è da comprendersi anche alla luce della tentazione esponenziale cui è sottoposto Gesù, infatti, il testo dice in maniera evidente come fosse tentato da Satana, cioè tentato dal tentatore, una ripetizione che rende in maniera assoluta il confronto tra l’umanità di Gesù e l’azione del tentatore[45].

    I vangeli di Matteo e di Luca sono molto più ampi nel descrivere l’evento in questione. Tali descrizioni non lasciano dubbi sui contenuti delle tentazioni, le quali nel complesso mirano a rompere l’obbedienza del Figlio di D-o al Padre. In tal senso riporto le parole di alcuni commentatori: Gesù, il secondo Adamo, rimane integro di fronte a molteplici tentazioni[46] e La tentazione consistette nel proporre a Gesù di utilizzare il potere messianico per un fine egoista: soddisfacimento della fame, della vanità, dell’ambizione di comando, ma Gesù dimostra come il regno del Messia non è di questo mondo e che i poteri messianici sono unicamente in funzione del regno di D-o[47].

    L’obbedienza di Gesù è ribadita citando la Legge del Primo Testamento, Legge contenuta nel libro del Deuteronomio. Tale titolo significa in greco seconda Legge e ciò diviene ora emblematico, infatti, Gesù è il secondo uomo che è messo di fronte alla tentazione del diavolo dopo Adamo. In realtà però bisognerebbe risalire al titolo ebraico del Deuteronomio ovvero Debarim, che tradotto significa Parole o Leggi. Tale sottolineatura è fondamentale perché evita gli equivoci di una seconda Legge data al popolo ebraico, infatti, Debarim va compreso come una ripetizione della Legge rivelata al popolo ebraico tramite la mediazione di Mosè; non a caso il termine utilizzato per definire ogni legge iscritta nelle tavole date a Mosè è Dâbâr. In sintesi, si può affermare come Gesù sia in realtà il vero primo uomo, quello pensato ab eterno da D-o e riconosciuto, forse in maniera inconscia, dalle parole pronunciate da Pilato di fronte alla folla indicando il figlio di Maria ovvero: "Ecce homo[48] (Gv 19,5). In tale atto, riguardante la passione di Cristo, l’ironia giovannea è presente con tutta la sua forza, rilevando come inconsapevolmente Gesù sia riconosciuto come l’Uomo", ossia come colui che incarna il massimo esempio possibile di umanità. Gesù infatti, in continuità con la genealogia lucana, vive la sua realtà di figlio di D-o da uomo autentico, senza cercare di sfuggire alla condizione umana comune a tutti i figli di Adamo[49]. Quanto appena detto è fondamentale perché, come la perdita del kî-tôb colpì ogni uomo successivo a Adamo, così la possibilità del kalós sarà accessibile ad ogni uomo che segua Gesù.

    La prima tentazione riguarda quel bisogno essenziale che colpisce ogni uomo, ma in generale ogni essere vivente, ossia il pane che serve a sfamare il corpo; situazione riconducibile alla fame patita dal popolo d’Israele nel deserto (Dt 8,3)[50]. I significati di tale tentazione sono molteplici, i due principali riguardano il pane fisico ed il pane eucaristico. Gesù rinuncia a tramutare le pietre in pane perché sa che così romperebbe la sua obbedienza come uomo di fronte a D-o. Se avesse agito con la potenza di D-o in tale situazione, non avrebbe saldato la rottura operata da Adamo e quindi dall’intera umanità. Gesù ha dunque liberamente obbedito con la sua umanità, ancor prima che con la sua divinità[51]. La parola di D-o, citata da Gesù e di cui ogni uomo si ciba, è non solo la Scrittura, ma Gesù stesso; il quale nell’eucarestia rende possibile che la parola incarnata di D-o sia gustabile da ogni uomo. Inoltre, la parola di D-o è la forza creatrice dell’Universo, tratto grazie ad essa dal nulla. È parola che crea bellezza, bellezza vera, dunque il richiamo di Gesù è ancora una volta agli inizi ed alla capacità creatrice estetica di D-o; la quale va ricordata periodicamente, perché è grazie ad essa che si risolve anche il problema del pane, inaugurando un Giubileo autentico che l’uomo, per la sua scelta di natura d’ego, non ha saputo affermare nella storia, rifugiandosi nella sola azione egocentrica che illuda nella possibilità di un nuovo inizio, cioè la guerra contro gli altri uomini.

    Oltre ai due significati teologici rilevati è possibile riflettere sull’importanza del superamento della fame da parte di Gesù in relazione al suo essere artista, cioè alla sua relazione intrinseca con la possibilità di creare la bellezza. Quando un uomo crea, infatti, può dimenticare il cibo, perché in quel momento è afferrato da una forza ben superiore a quella che invade il corpo fatto di carne ed ossa. Una forza che abbraccia tutta l’antropologia umana descritta biblicamente, cioè il corpo, l’anima e lo spirito. Non a caso i veri produttori di icone sono monaci che sanno digiunare, oltre che pregare, perché la creazione della bellezza necessita della libertà dal limite costituito dai bisogni fisici. In tal senso si può dire che D-o all’inizio, cioè dall’eternità, non poteva che creare essendo privo di un corpo umano, dimostrando successivamente di essere libero anche da tale limite, tramite l’acquisizione di un corpo umano ovvero tramite l’incarnazione. Attraverso l’incarnazione ed il superamento della fame D-o stesso ha mostrato la sua libertà nella bellezza, una libertà cui ogni artista vero non può non guardare.

    La seconda e la terza tentazione colpiscono quanto vi è di più profondo nell’ego di ogni uomo, cioè la sete di gloria ed il desiderio di essere come D-o. Tali tentazioni possono dunque essere viste come una sola, ossia come la tentazione politica che mira a servire il principe del mondo e non D-o[52]. All’assalto del diavolo, operato attraverso l’offerta del potere assolutamente egocentrico, un potere che tende al dominio sugli altri uomini, Gesù risponde con la preghiera recitata da ogni giudeo tre volte il giorno; una risposta che mostra sia l’impotenza del re dell’egocentrismo, di fronte a colui che porta il regno di D-o, sia l’incompatibilità tra il regno del dominio ed il regno della bellezza, ovvero del kalós[53]. Paradossalmente dunque Gesù, che è D-o, rifiuta l’offerta del diavolo, mostrando come la sua umanità riconosca il proprio limite e come sia necessario accettare tale limite senza tentare D-o; ma, al contrario, rendendo a Lui grazie per la straordinarietà e la bellezza della natura umana. Proprio in relazione alla bellezza, va sottolineato come le tentazioni lucane si concludano a Gerusalemme, tramite l’ultima tentazione nella casa del Padre[54], un luogo che, come dimostrerò nel seguito di questo libro, si rivelerà la dimora della bellezza escatologica, confermando quanto analizzato nei salmi rispetto alla stupenda (yâfêh) dimora di D-o. Lo stesso Luca confermerà nel suo vangelo l’importanza sostanziale di tale luogo di bellezza, sinonimo del regno di D-o, luogo in cui Gesù respingerà nuovamente le tentazioni anestetiche, per rendere definitivamente incorruttibile la possibilità per ogni uomo di accedere al luogo della bellezza eterna.

    In sintesi le tentazioni di Cristo, speculari alla tentazione di Adamo, mostrano cosa sia il peccato, ovvero l’errore fatto da ogni uomo dopo Adamo, errore che consiste nel non accettare di essere uomo, accettazione compiuta fino in fondo da Gesù. È tale umanità assoluta di Cristo che permetterà a tale uomo di ri-comporre l’estetica umana e di ri-creare l’intera umanità. Dal punto di vista estetico le tentazioni a cui è stato sottoposto Gesù sono parziali, infatti, abbracciano in maniera esplicita solamente il senso del gusto-olfatto (rappresentato dal pane) e della vista (in relazione ai regni della terra). In realtà, alla luce di quanto visto analizzando i Salmi, in particolare di un’espressione salmodica che recita: "Gustate e vedete quanto buono-bello (kî-tôb) è il Signore (Sal 34,9)", l’estetica con cui il diavolo tenta Gesù è la tentazione massima possibile, nei confronti di chi, essendo Il Verbo di D-o, non può essere tentato nell’aspetto uditivo. Inoltre, la tentazione uditiva soggiace gli altri sensi, infatti, la caduta di fronte alla tentazione avrebbe presupposto l’ascolto della parola del Diavolo.

    Resterebbe da definire la tentazione tattile, ma se si pone attenzione alla sfida degli angeli ovvero alla seconda tentazione di Matteo ed alla terza di Luca, si vedrà come le mani degli angeli possano rappresentare quel sostegno tattile che completa esteticamente la prova a cui Gesù viene sottoposto. In tal senso si esprime ancora una volta la dimostrazione della paradossalità di Gesù e del vangelo, infatti, l’uomo di Nazareth rinuncia all’intera estetica per avere quella perfezione etica indispensabile all’azione di ri-composizione estetica che Gesù compirà nei vangeli. Un paradosso che diviene esponenziale, se si riflette sul rifiuto anestetico che opererà sulla croce, rifiuto coerente con la perfezione etica di cui Gesù è stato capace, una perfezione che rende perfetta la percezione della bellezza del regno di D-o e/o dei cieli.

    Per quanto concerne il quarto vangelo, attribuito alla mano del fratello di Giacomo, è profondamente errato credere che non siano descritte le tentazioni, infatti, Giovanni si rivela molto profondo e acuto nel proseguire l’identificazione del suo Prologo col libro della Genesi ed in tal senso è assolutamente evidente come l’episodio di Cana, in cui Maria tenta Gesù forzandone l’intervento, sia paragonabile al gesto accompagnato da parole prodotto in origine da Eva, solo che la differenza degli attori ora presenti, cioè Gesù e sua madre, spegne restituendo al mittente tale tentazione grazie, non a caso, ad un gesto finale di bontà e bellezza. In questo caso però ho preferito riproporre il passo giovanneo in cui Gesù è esplicitamente tentato attraverso il verbo utilizzato anche dagli altri evangelisti, un episodio in cui il protagonista assoluto dei vangeli è descritto mentre scrive per terra per due volte. Ciò potrebbe apparire un’azione assolutamente marginale, ma la possibilità di scrivere all’interno delle Scritture è una prerogativa divina cui l’uomo è bene che si sottragga. In tal senso Gesù dimostra sia un’origine divina, pur scrivendo su una superficie che non lascerà alcuna traccia ed evidenziando in tal modo un’altra differenza rispetto al Padre, sia un’estrema esposizione alla critica di coloro che ha di fronte, i quali cercano di farlo cadere rispetto al significato stesso del nome che porta ossia salvezza[55]. Infatti, è evidente come gli interlocutori di Gesù si aspettino che giudichi la peccatrice che ha di fronte, mentre invece, ancora una volta, il Maestro riesce a coniugare giustizia e misericordia, facendo precedere la prima dalla seconda. Chiudo questo breve commento ricordando come il gesto di Adamo ed Eva diede inizio alla storia dell’umanità, intesa esteticamente come la possibilità concreta di incontrare il male ed il brutto e di cominciare una vita di riflessione libera verso un cammino di risalita indirizzato alla bontà ed alla bellezza o una strada, che le Scritture descrivono come caduta, rivolta al male ed al brutto. In realtà, il più deciso tra i progenitori fu Eva, Adamo la ascoltò e fece quanto suggeritogli da quest’ultima, dunque Adamo dimostra fin dagli inizi la propria fragilità e la propria incertezza. Se Gesù poté rifiutare le tentazioni utilizzando le Scritture, fu proprio perché nato senza la fragilità che Adamo tramandò alla sua discendenza, dunque all’umanità intera, precisando come tale fragilità fu creata dallo stesso Adamo nella sua libera decisione, così come Gesù creò la perfezione della volontà libera potendo così dialogare dialetticamente col tentatore, colui che cerca di gettare divisione nell’unità della bellezza e che in tal senso ha fatto un gran bel lavoro alla luce della storia dell’umanità.

    Chiudo con un’annotazione che avrebbe forse dovuto essere iniziale, cioè col richiamo al confronto alla presenza di Satana nel Primo testamento (Cf. Capitolo II par. 7.1 e 7.2). Nel Tanach, infatti, Satana appare direttamente come tentatore personificato dialogante, dunque confrontabile coi passi evangelici ora in analisi, solamente nel libro di Giobbe. È in tale libro che Satana mostra tutta la sua arguzia e il suo acume, un acume permesso e suggerito dallo stesso Creatore; infatti, è D-o che pone chiaramente i limiti toccabili nei confronti di Giobbe. Un’occhiata superficiale ai testi biblici potrebbe porre fianco a fianco Giobbe e Gesù, ma mentre il primo non è tentato direttamente e quanto gli capita è subito con sopportazione e con una fede che alla fine si piega alla ragione reagendo di fronte a D-o stesso, il secondo, cioè il protagonista dei vangeli, è tentato direttamente nel dialogo. Satana, infatti, gli parla direttamente come fece con D-o, riconoscendo di fatto un’origine divina anche a Gesù o meglio, un’umanità originale che rende ulteriore ragione dell’accostamento di Satana al serpente da parte di Giovanni nel libro dell’Apocalisse. Dunque Satana riconosce in Gesù un secondo Adamo operando, come già precisato in precedenza, dei tentativi analoghi, i quali non a caso non sono precisati in Marco, infatti, era chiaro per l’evangelista, che conosceva certamente bene le Scritture, a quale e a quali tentazioni si riferiva quella frase così lapidaria utilizzata tentato da Satana. È certo che Giobbe mostrò probabilmente il limite della fede umana di fronte alla potenza di Satana, un potere concessogli da D-o, che rende ragione anche del potere concesso dall’alto a Pilato nei confronti di Gesù e precisato, ancora una volta non casualmente, nel quarto vangelo (Gv 19,11). Dopo il limite però a Giobbe è concesso di confrontarsi con D-o stesso, un confronto impari che si spegne dopo un inizio che mostra tale disparità e che non poteva aver seguito, perché di fatto esiste ed esisterà sempre una differenza ontologica, anche gnoseologica, tra D-o e l’uomo, tra il Creatore e il creato. Questo è il punto, il nodo che impedisce all’uomo, in particolare a un filosofo, di diventare credente, perché in tale orizzonte dovrebbe riconoscere la propria impotenza e la propria dipendenza da un radicalmente Altro, come forse direbbe K. Barth. Digerire tale verità è difficile, è una verità amara cui l’uomo preferisce sostituire un’epoché, cioè una sospensione di giudizio che definisce come agnosticismo, come non conoscenza. In tale orizzonte, infatti, si può rimandare all’infinito, ma non ad aeternum, il problema e cercare l’origine di se in se stesso, cadendo in tale impossibilità ancora una volta per infinite volte. Gesù, mostra un uomo cui è permesso il confronto diretto con Satana e che grazie alle conoscenza delle Scritture sa rispondere da credente, accettando pienamente la propria origine umana di terra e riuscendo con essa a trattenere quello spirito divino d’origine di cui ogni uomo fu dotato nella Creazione. Utilizzo il passato remoto conscio del significato del tempo verbale ebraico utilizzato che fu un futuro, cioè un tempo che abbraccia ogni direzione. La tentazione per un uomo, quella di sempre, da Adamo in poi, è non accettare di essere creatura e la scelta di tale non accettazione non è una caduta banale, come una lettura superficiale del passo incriminato del libro della Genesi potrebbe far supporre, ma è La Caduta. Quella che tocca il significato più profondo dell’umanità, la propria esistenza e con essa il proprio orgoglio, la propria volontà di potenza come forse direbbe Nietsche, una volontà che approdi a un superuomo, cioè ad un uomo che abbia in se la propria origine. Se è vero che tale uomo il Testamento Primo lo individua in Gesù di Nazareth, è pur vero che persino la tradizione cristiana, quella che conciliarmente attribuisce a tale uomo un’origine divina, non riesce a porlo alla stregua di D-o Padre, che rimane il Solo e l’Unico ad essere ingenerato e increato, mentre il Figlio è generato dal Padre. Dunque, anche la tentazione superata da Gesù non esclude un’accettazione d’origine umana di creatura, quantunque fosse forse un giorno equiparata in qualche modo ad una generazione grazie ad un’assunzione eterna come la tradizione cattolica afferma per Maria la madre di Gesù. Il nodo dunque resta, perché se è vero che la ragione in qualche modo si sacrifica nella bellezza di cui è, è stato e sarà pieno il regno dei cieli, è anche vero che il confronto con D-o Padre sarà sempre impari. D’altronde, è chiaro ed evidente, almeno ai miei occhi, che di fronte alla consapevolezza di tale disparità pochi raggiungono la fede e che Giobbe in tal senso raggiunge un oltre della sua fede precedente possibile proprio grazie a tale pre-esistenza. Infatti, molto spesso la fede confessata e manifestata di fronte agli altri uomini è solamente un rifugio d’impotenza, utilizzato per giudicare gli altri e l’altro[56]; perché grazie a tale atto, utilizzando termini di dialettica hegeliana, si passa dalla condizione di servo a quella di padrone, pur non avendone l’origine ontologica. La vera fede si mostra nella consapevolezza di finitezza in una situazione di solitudine autentica, che si verifica laddove anche la solitudine è conscia e radicale, percepita come un’essenza che mette a nudo la verità umana, perché la verità è sempre nuda. Bisogna dif-fidare di chi mostra una fede pubblica dialettica, perché questa si regge sull’incredulità altrui che produce come riflesso la fede inautentica che altro non è se non falsità priva di qualunque ontologia autosussistente. Questo è il motivo, forse il più vero, almeno umanamente, per cui nessuno può individuare la fede altrui e giudicarla, anche se la non fede si vede molto bene. Ed è lo stesso motivo per cui la storia di Giobbe è vera, anche se forse non reale, perché Giobbe fu lasciato solo e incitato alla morte persino dalla moglie, ma continuò a credere fino a dove la terra da cui proveniva glielo permise e fino a quando la ragione non chiese ragione di se stessa, perché la crisi della ragione consiste nell’essere invasa dall’irragionevolezza vedendo incrinata la propria unità logica. Dunque, è chiaro che nessuna ragione poteva opporsi alla tentazione, perché ne sarebbe stata vinta e conquistata, era necessario un paradosso che potesse rispondere all’assurdo, all’irragionevolezza, alla tentazione di chi offriva l’illusione di un potere che non ha un futuro escatologico e che è destinato perciò alla morte. In tal senso la vicenda di Gesù nel deserto rivela la sua origine paradossale e lo ri-veste, dopo il vestito umano ricevuto come ogni uomo, di un’essenza divina che si ri-vela nuovamente nel momento della morte di croce, perché in tale momento le Scritture d’urlo che cita[57] sono quelle di un uomo di fede che va oltre lo stesso oltre di Giobbe, ma che si ri-vela nella verità della nudità umana originaria, nascondendo in qualche modo la sua divinità.

    2.2 Altri passi di tentazione di Gesù e non solo…

    Mc 8,11: "Allora si fecero avanti i farisei e incominciarono a discutere con lui, chiedendogli un segno dal cielo per metterlo alla prova (peirázô)".

    Mc 10,2: "E avvicinatisi alcuni farisei, per metterlo alla prova (peirázô) gli domandarono se fosse lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie".

    Mc 12,15: "Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: ‘Perché mi tentate (peirázô)? Portatemi un denaro, ché io lo veda’".

    Mt 16,1: "Gli si avvicinarono i farisei e i sadducei per metterlo alla prova (peirázô), e chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo".

    Mt 19,3: "Si avvicinarono a lui alcuni farisei per metterlo alla prova (peirázô) e gli domandarono: ‘È lecito ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?’.

    Mt 22,18: "Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, disse: ‘Perché mi tentate (peirázô), ipocriti?’"

    Mt 22,35: "E uno di loro, dottore della legge, gli domandò, per metterlo alla prova (peirázô): ‘Maestro, qual è il precetto più grande della legge?’"

    Lc 11,16: "Altri, per metterlo alla prova (peirázô), gli chiedevano un segno dal cielo".

    Gv 6,5-6: "Gesù dunque, alzati gli occhi e vedendo che una gran folla veniva verso di lui, disse a Filippo: ‘Dove compreremo del pane perché questa gente abbia da mangiare?’ Questo lo diceva per metterlo alla prova (peirázô); egli infatti ben sapeva quello che stava per fare.

    At 15,10: "Or dunque, perché tentate (peirázô) D-o imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i padri nostri né noi abbiamo potuto portare?"

    1Ts 3,5: "Perciò anch’io, non potendo più resistere, mandai a informarmi della vostra fede, temendo che il tentatore (peirázô) vi avesse tentati (peirázô), e la nostra fatica fosse risultata vana".

    Gc 1,13: "Nessuno mentre è tentato (peirázô) dica: ‘Vengo tentato (peirázô) da D-o!’. D-o è infatti immune dal male ed egli non tenta (peirázô) nessuno. Ciascuno invece è tentato (peirázô), adescato e sedotto dalla sua concupiscenza".

    1Cr 7,5: "Non privatevi l’un l’altro, se non di comune accordo, temporaneamente, per attendere alla preghiera, e poi ritornate a stare insieme, perché Satana (Satanâs) non vi tenti (peirázô) per la vostra incontinenza.

    2Cr 13,5: "Esaminatevi per vedere se siete nella fede; mettetevi alla prova (peirázô). Non riconoscete che Gesù Cristo è in voi? A meno che l’esito della prova sia negativo".

    Eb 2,18: "Infatti, poiché egli stesso ha sofferto la tentazione (peirázô), può venire in aiuto di quelli che sono tentati (peirázô)".

    Eb 11,17: "Per fede Abraamo, quando fu messo alla prova (peirázô), offrì Isacco; egli, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito".

    La tentazione nei confronti di Gesù non si ferma nel deserto, ma attraversa i nodi cruciali anticipati nel luogo dove il Maestro ebbe fame e rispose a Satana con la Scrittura. Leggendo attentamente i passi in cui l’uomo dei vangeli viene tentato e/o messo alla prova emerge chiaramente la continuità nei confronti dell’incontro avvenuto con Satana, infatti, Gesù è posto di fronte a domande riguardanti il denaro e il potere politico, all’unità tra moglie e marito simboleggiante evidentemente la sessualità più completa tra uomo e donna e alla sfida nei confronti del Padre, laddove gli è chiesto un segno dal cielo. A contorno di dialogo su tali domande cui Gesù risponde puntualmente vi è la Scrittura, la quale risulta sempre essere l’arma a doppio taglio che i tentatori del Maestro scoprono rivolgersi verso loro stessi.

    I passi di memoria che investono le lettere di Paolo ed

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