La musica delle scritture - Testi biblici
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La musica delle scritture - Testi biblici - Pierluigi Toso
CAPITOLO IV
LA MUSICA DELLE SCRITTURE
(Testi Biblici)
Ho scelto un’altra opera di Giorgione per iniziare questa seconda parte del lavoro dedicata al significato musicale delle Scritture, cioè dello scritto direttamente letto con occhi di musicista. La scelta è caduta a cascata, infatti, essa è chiaramente legata alla foto che ricopre la copertina della prima parte dedicata alla musica nella Tradizione. Ancora una volta vi sono tre personaggi cui ancor oggi nessuno ha saputo dare un’interpretazione chiara ed univoca. Io leggo tali personaggi, che sono chiaramente in atto di scrivere e riflettere sullo scritto, come un’analogia di quei tre personaggi che fecero visita ad Abramo e che Rubliëv ovvero il più noto iconografo russo della storia immortalò come analogia della Trinità. Tale quadro di Giorgione mi aiuta a rendere il mistero delle Scritture, ad assumere un atteggiamento di indagine sempre aperta, la quale nella musica trova a mio giudizio il suo domandare più elevato e, come argomentato nella prima parte, può significare l’espressione stessa, seppur analogica, del Creatore. Inoltre, anche restando ad uno dei titoli più accettati
del dipinto ovvero I tre filosofi
, non si può non pensare a come la teologia cristiana, ma non solo, si sia lasciata impregnare dalla filosofia, in primis greca; però in tal senso preferirei riappropriarmi del significato etimologico del filosofo
, cioè di colui che è amico della sapienza, che la cerca ad ogni costo e con tutta la sua vita. Tale richiamo rende maggior ragione della mia scelta, perché ripropone la relazione con le Scritture in una direzione conoscitiva e rivelativa libera da categorie logiche pre-concette o pre-concettualizzate quali sono quelle greche. Dunque, osservo il dipinto e cerco di mettermi alla stregua di tali uomini che ricercano la sapienza delle Scritture, trovandone forse la bellezza della musica.
0 Il canto di Gesù e la sinfonia di D-o
Nei libri del Testamento Primo, in particolare nei vangeli, la musica esplicita, quella indicata da verbi che non lasciano alcun dubbio a riguardo della loro musicalità, è rarissima. Essa, infatti, compare solamente una volta in quel passo sinottico (Mc 14,26; Mt 26,30) che narra l’episodio dell’ultima cena seguito dal canto dell’inno pasquale ỷmnéo da parte dei Tredici
, Gesù più i Dodici apostoli. Tale versetto di canto riassume tutto lo spirito musicale presente nel Primo Testamento, infatti, il canto è un’espressione di gioia che viene sempre indirizzata verso D-o ed il momento pasquale è il cardine di tutta la fede sia ebraica sia cristiana. Nei libri che seguono il vangelo il canto si ripete più spesso, anche se non risulta essere frequentissimo, un canto che in alcuni casi, ma non a caso, viene affiancata in maniera inscindibile dalla preghiera (At 16,25), ribadendo come esso sia una salita di voce verso l’Altissimo.
Quanto detto finora non aggiunge nulla alla musica rivelata nei libri che precedono l’avvento di Gesù, ciò invece che sorprende è l’altro versetto in cui compare della musica esplicita, apparizione che si incarna in passo sinottico negativo
(Mt 11,17; Lc 7,32). In tali righe gli evangelisti utilizzano il suono del flauto come impotente
, cioè come incapace a produrre la danza, anche se tale uso è propedeutico al significato proverbiale, specificato da Luca, che serve a sottolineare un uso strumentale
della musica che non può ottenere l’effetto che dovrebbe essergli proprio. Un effetto di flauto presente maestosamente nel solo precedente primotestamentario esistente (1Re 1,40), accompagnato da una lezione acustica
da parte di Paolo ai Corinzi nel Testamento Primo (1Cor 14,7). In realtà, non c’è da stupirsi se la danza non prenda corpo dal flauto, infatti, nei vangeli la danza è legata a fatti negativi, riconducibili ad esempio alla figlia di Erodiade che tramuta la propria danza nella testa del Battista (Mt 14,6 e ss). Per assumere un significato musicale buono e bello, la danza dev’essere dunque associata ad un altro tipo di musica, anzi alla musica stessa, cioè alla symfonía che il figlio maggiore del Padre Buono sente al suo ritorno a casa a causa della festa in atto per il ritorno di suo fratello (Lc 15,25). Quest’ultima è la vera musica, quella che trova posto nel regno dei cieli insieme alla danza come espressione di gioia. Ciò è talmente vero che il versetto di Luca è apax nel Testamento Primo e la musica siffatta compare solamente in tale epilogo di felicità per il figlio ritrovato. È interessante anche notare come la stessa radice greca significhi anche essere d’accordo
o essere in armonia
, in altre parole cantare insieme senza creare dissonanze, ma armonicamente, come i componenti di un coro. Ecco allora che il canto di Gesù è la voce che muove verso la sinfonia del regno dei cieli e la preghiera cantata va letta in tal senso, attribuendole quel valore musicale senza cui non giunge alla vera bellezza.
L’armonia musicale appena citata compare nella traduzione greca dei LXX solamente in due passi, uno riguarda la conclusione dei quattro libri dei Maccabei (4Mac 14,3) e l’altro concerne una visione escatologica narrata nel libro di Daniele (Dn 3,5). Per un confronto col testo masoretico dobbiamo affidarci dunque al versetto di Daniele, in quanto nel canone ebraico non è presente il quarto libro dei Maccabei. Per quanto concerne Daniele possiamo dire che il termine ebraico soggiacente alla sinfonia
greca, cioè qeren, riguarda esclusivamente gli strumenti musicali, tutti gli strumenti musicali, dunque il suono di una sinfonia moderna, quella che nasce strutturata grazie a J. Haydn e che si perfeziona in Beethoven, raggiungendo la presenza corale nella Nona Sinfonia. Ciò non è biblicamente casuale, infatti, proprio il passo di Luca, cui ho accennato, riassume la sinfonia più piena che, unita al canto citato a proposito dell’ultima cena vissuta da Gesù, esprime biblicamente quanto espresso molti secoli più tardi dall’indagine musicale occidentale. Un’altra precisazione importante, con riferimento al discorso dell’unicità della musica polifonica cristiana, riguarda il contesto escatologico in cui la sinfonia
compare nel Primo Testamento, così come nel Testamento Primo. Un’escatologia che in qualche modo conferma l’escatologia stessa della musica cristiana, attribuendo a quest’ultima un punto di arrivo insuperabile, almeno per quanto concerne la relazione con le Scritture, essendo nel contempo consapevoli che anche le Scritture passeranno quando giungerà il nuovo inizio con l’avvento definitivo del regno della Bellezza di D-o.
0.1 L’altro canto
Nel paragrafo precedente ho speso delle parole riguardo al canto di Gesù, un canto inscindibile dalla preghiera, un canto che nel suo significato greco ỷmnéo è di fatto una preghiera in musica. Esiste però un altro verbo che indica esplicitamente il cantare nel Testamento Primo, un verbo che si trova solamente nel libro che chiude la biblioteca costituita dall’insieme di libri che compongono la Bibbia. Tale libro è l’Apocalisse e nei capitoli che formano il libro della Rivelazione troviamo comparire tre volte il verbo ádo (Ap 5,9; 14,3; 15,3), il quale trova la sua espressione nel canto prodotto da tale azione ovvero ỏdé. È curioso notare come anche in quest’ultimo caso tale canto resti di esclusiva apocalittica
e non si riveli afferrabile dagli altri testi del Testamento Primo. In realtà però Giovanni, il discepolo amato di Gesù, non fa altro che raccogliere il canto presente nei libri che incardinano la fede da cui anche lui proviene, tanto che il verbo in questione, corrispondente al greco ádo, altro non è che il verbo con cui la LXX traduce il cantare ebraico espresso dalla radice shyr, la stessa radice che regge il Cantico dei Cantici. Evidentemente esistono diversi modi di cantare e diversi significati biblici ad essi legati, tra questi è molto importante l’azione definita dal verbo psalô, cioè dal verbo che sostiene il libro dei Salmi, il libro maestro del cantare pregante rivolto a D-o; un verbo che nel suo significato di nome traduce l’ebraico mizemor che significa melodia. Tale traduzione è fondamentale, perché indica un aspetto musicale orizzontale della musica, che però non include quell’armonia rivelativa di cui ho trattato nelle pagine dei capitoli precedenti. È interessante notare anche a questo proposito come il verbo psalô, insieme ai nomi che da esso derivano, è presente nei vangeli solamente in Luca ed esclusivamente come citazione del libro dei Salmi, cioè come rimando a tale libro riguardo al nesso profetico espressovi con riferimento a Gesù (Lc 20,42; 24,44); mentre è usato come verbo di canto diretto solamente da Paolo (Ef 5,19; Col 3,16; Cor 14,15). Se estendiamo i vangeli agli Atti degli Apostoli, considerando quest’ultimo come seconda parte del medesimo vangelo lucano, vi sono ulteriori conferme a quanto affermato derivanti da due episodi (At 1,20 e 13,33). In altre parole sembra proprio che gli evangelisti conoscano bene la musica nuova rivelata da Gesù, tanto da utilizzare e distinguere perfettamente i verbi che indicano una semplice
melodia rispetto ad una più perfetta armonia. Chiudo questo breve paragrafo tornando all’inizio del discorso sul canto per aggiungere qualche parola riguardo al verbo ỷmnéo. Quest’ultimo, infatti, è il verbo di canto che segna momenti di giustizia escatologica per il popolo ebraico, momenti in cui la presenza di D-o è evidente nell’epilogo di una storia che sembrava impossibile da capovolgere nei suoi esiti negativi. Un inneggiare che segue l’azione di Giuditta (Gdt 15,3 e 16,13) o una vittoria presente nel libro dei Giudici (Gd 16,24) e che traduce dall’ebraico sia shyr sia hll, dunque sia il cantare sia il pregare in momenti che determinano l’escatologia del popolo d’Israele. Un’escatologia che si spinge fino a tradurre persino il verbo rnn, che significa gridare, così come avviene nel libro dei Proverbi (Pv 1,20) e in maniera massiccia nel libro di Daniele dove compare 32 volte in altrettanti versetti del terzo capitolo. D’altronde, proprio il nome Israele, anagrammato nelle sue componenti, si può schyr ’el, cioè quel canto di D-o che produce
la stessa Tôráh[1]. A questo punto il singolo canto di Gesù, apax nei vangeli, acquisisce tutta la sua forza ed il suo significato, un canto che potrebbe identificarsi persino con quell’urlo di croce che chiude la passione marciana di Gesù, una passione che si traduce in un urlo e non in un canto perché tale canto era già stato espresso precedentemente.
1 I Verbi Musicali
Individuando il percorso tonale, insieme alla rappresentazione delle Triadi insite nei testi delle Scritture ed in particolare nel Quarto Vangelo, credevo di aver scoperto la sostanza della musica di cui questo libro si è occupato finora; ma, ancora una volta le Scritture mi hanno stupito, rivelandomi un percorso verbale che spiega gli esatti movimenti dei protagonisti musicali della Bibbia. Il primo di tali verbi in analisi sarà quello che accompagna la Sensibile, cioè Gesù nella sua umanità. Verbo che descrive i movimenti di salita e discesa, ma anche di passaggio, dell’uomo dei vangeli nel suo peregrinare
musicale all’interno dei vangeli. Tale verbo sarà seguito da analisi di altri fratelli
musicali quali ad esempio (krázo), che significa gridare, ma che ha un significato molto più musicale di quello che appare nel suo etimo nudo. Successivamente analizzerò altri verbi, i quali possono essere interpretati musicalmente, ma abbracciano significati molteplici e non sono quindi traducibili con quella precisione chirurgica musicale che i verbi analizzati per primi mostreranno. Ciò non toglie che si rivelino fondamentali per esprimere quelle peculiarità umane, divine ed estetiche, dunque anche musicali, che permettono alla stessa musica delle Scritture di esprimersi compiutamente.
1.0 Ascoltare[2]
Per quanto concerne l’udito, dunque l’azione ascoltatrice presente nelle Scritture[3] che, le quali utilizzano sia nella versione ebraica sia in quella greca un solo verbo atto a descriverla[4], credo non vi sia riflessione migliore delle parole che citano e commentano lo Shema‘ nella tradizione ebraica. Per tale motivo, prima di procedere ad un’analisi della presenza del verbo shm‘ all’interno del Primo Testamento, dedicheremo alcune righe ad una riflessione sulla preghiera cardine di tutta la liturgia
personale e di popolo della quotidianità ebraica. Preghiera che esprime quelle Parole di ricordo vivo trasmesse al popolo ebraico che non possono essere ignorate da chi si accosta al Testamento Primo o anche da chi cerca semplicemente di comprendere qualcosa della fede, anche estetica, dei figli di Abramo.
2.2.1 Shema‘ Ysera’el
Lo Shema‘ è composto dall’insieme di due pericopi contenute nel libro del Deuteronomio (6,4-9 e 11,13-21) e una riportata nel libro dei Numeri (15,37-41). È interessante rilevare come esso consti di 245 parole cui sono aggiunte tre parole preliminari, quando manca il minyan durante la sua recita, corrispondenti a ’el melech ne’eman – D-o, Re degno di fede oppure, nel caso in cui minyan sia presente, sono aggiunte tre parole conclusive ’h ’eloheychem ’emet traducibili con HASHEM il vostro vero D-o. Con le tre parole citate si giunge ad un totale di 248, un numero che corrisponde sia al totale dei comandamenti positivi rivolti al popolo d’Israele, sia al totale delle componenti delle parti umane, a significare che lo Shema‘ investa sia la visibile sia la parte invisibile della vita umana[5]. Come sottolineato precedentemente la recita dello Shema‘ richiama D-o come Re ovvero il ruolo del Creatore nel Suo regno. A tal proposito è interessante sottolineare come in ebraico esistano due termini per indicare il capo di un regno, che sono moshel e melech. Nei confronti di D-o, ma anche nei confronti di re come David e Salomone, è utilizzato melech, un sostantivo che indica colui che regna col consenso consapevole e convinto dei sudditi e proprio per giungere a tale consapevolezza è necessario lo studio della Tôráh, altrimenti, è evidente come D-o stesso possa essere percepito dall’uomo come un moshel, cioè come un despota, anche perché l’esperienza umana