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Il sonno, la morte e la risurrezione
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Il sonno, la morte e la risurrezione
E-book364 pagine4 ore

Il sonno, la morte e la risurrezione

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Info su questo ebook

Una raccolta di passi inerenti la morte e la risurrezione descritti nella Bibbia, toccando i differente termini ebraici e greci che li descrivono e appoggiandosi alla tradizione ebraica costituita da commentatori, dai Midrash e dal Talmud e da commentatori di tradizione cristiana.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2015
ISBN9788891180438
Il sonno, la morte e la risurrezione

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    Anteprima del libro

    Il sonno, la morte e la risurrezione - Pierluigi Toso

    RISURREZIONE

    NELLA BIBBIA

    INTRODUZIONE

    L’ESPERIENZA DEL MORIRE OGGI

    Vi sono molte reazioni dell’uomo di fronte alla morte, evidentemente però per poterle analizzare bisogna incontrare situazioni in cui l’uomo si trovi realmente di fronte alla morte. Oggi si cerca di non parlarne in maniera approfondita, la si nomina nei mass-media, ma solo in via indiretta e solo quando essa investe persone sconosciute a chi ascolta. Di fronte a tali notizie di morte ci si può commuovere, ma è una commozione passeggera che non può mettere radici laddove non vi sia un terreno di autenticità di vita; quest’ultima è la verità da cui si cerca di fuggire nascondendo la morte. Heidegger descrivendo la sua concezione di essere nel mondo, o meglio di esserci, in uno dei suoi libri fondamentali quale è Essere e Tempo, scrisse che l’uomo dovrebbe uscire dalla condizione inautentica di chiacchiera quotidiana in cui è immerso per entrare in una condizione più autentica, ma ciò comporta il riappropriarsi, da parte dell’umanità, del rapporto con la morte. Probabilmente ciò non avviene perché come scrisse Pascal: Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso, per vivere felici, di non pensarci[1]

    [2] Bl. Pascal, Pensieri, Newton Compton editori, Roma 1993, p. 66.

    . E lo stesso filosofo di lingua francese scrive: È più facile sopportare la morte senza pensarci che il pensiero della morte senza pericolo[2].

    Il mondo contemporaneo nasconde ancora la morte, sia nei paesi occidentali sia in quelli orientali di matrice socialista, alcuni dei quali, come la Cina, stanno subendo in tal senso il contemporaneo attacco da parte dell’economia capitalista. Ciò spiega come mai, pur essendo caduto il socialismo reale, non sia stato intaccato il silenzio sulla morte. Una morte che non si lascia giustificare e che perciò è rimossa dalla parola quotidiana di ogni dove, soprattutto in quei luoghi in cui essa riporterebbe l’uomo alla sua naturalità, rifiutando di essere quel temporaneo ingranaggio d’economia e di consumo che Charlie Chaplin esemplificò in maniera formidabile nel suo film Tempi moderni.

    Le pagine di questo libro saranno dunque rivolte inizialmente ad una breve lettura della reazione alla morte dell’uomo contemporaneo, sia esso immerso nel mondo capitalista o provenga come formazione ideologica dal mondo che si richiama a Marx; per poi immergersi nell’esperienza biblica, dove l’uomo deve confrontarsi col sonno e con la morte consapevole che è in tale momento di verità che l’umanità trova se stessa, la terra da cui proviene ed il cielo cui ambisce.

    1 L’uomo contemporaneo marxista di fronte alla morte

    Il disagio dell’uomo marxista di fronte alla morte è scritto nelle parole del fondatore del marxismo, il quale evitò di argomentare rispetto a tale fenomeno, giudicandolo un evento che colpisce l’individuo, ma che si rivela necessario alla sopravvivenza della specie, ossia alla società.

    In tutta la sua opera Marx ha riservato soltanto tre righe per descrivere la morte, le quali recitano: La morte appare come una dura vittoria della specie sull’individuo[3]. Il silenzio del teorizzatore della dottrina che fonderà il socialismo reale di fronte alla morte è dovuto chiaramente all’inadeguatezza del sistema da lui ideato, il quale si preoccupò di dare una risposta economica alla società, ma non si attrezzò per individuare una direzione, anche escatologica, nei confronti del singolo uomo. Le parole di Vittorio Strada confermano quest’ultima affermazione, egli scrive: Bisogna pur riconoscere che, davanti al problema della morte, il marxismo è disarmato, non offre alcuna risposta autentica[4].

    Un’ulteriore misura, di come la morte sia un tabù all’interno dell’architettura marxista, è data dall’utilizzo di alcuni sinonimi atti a non pronunciare la fatidica parola, la parola morte. Emblematica a tal proposito l’affermazione di Moravia: La morte? Non esiste. Non è che la trasformazione di certe forme di vita[5]. È evidente che attraverso tale impostazione lessicale non solo ci si nasconde di fronte alla morte, ma si cerca di spegnerla nel suo nascere per mezzo di giochi di parole che escludano dalla lingua la stessa parola morte.

    Il disagio di fronte alla morte del sistema marxista non è solamente un fatto teorizzato nei suoi postulati, infatti, molti avvenimenti storici ne hanno confermato tale impostazione teorica. Un esempio può essere chiaramente identificato in quanto successe ad una scrittrice tedesca che viveva in tale sistema, Christa Wolf, alla quale fu sequestrato il romanzo di cui era autrice, intitolato Riflessioni su Christa T., perché la protagonista era una donna che moriva di leucemia a trent’anni. Evidentemente tale libro toccava uno dei tabù principali del marxismo-leninismo, la morte[6]. A tale fatto possono essere accostate le parole di Michel Verret: Solo il borghese muore, il rivoluzionario è eterno[7]. Parole che rendono in maniera lapidaria come la morte possa essere elusa da una lotta sociale continua, la quale di fatto distrae la mente dell’uomo dal doversi occupare della propria fine storica, della propria morte. In realtà il giudizio sulla borghesia che muore in seguito alla propria inermità può essere condiviso, perché esiste una fuga inerme dal pensiero dalla morte che rende quest’ultima anestetica nei confronti dell’uomo che si è immerso in un’inautenticità quotidiana che sembra proteggerlo dalla morte, ma che in realtà lo ha già colpito mortalmente. Borghese e rivoluzionario possono dunque ben rientrare nelle parole di Sartre, il quale disse: La rivoluzione e la politica possono togliere all’uomo la paura di vivere, ma non lo liberano dalla paura di morire[8]. Una paura che il marxismo tende a non far emergere, anche perché ciò coinvolgerebbe inevitabilmente l’intera società marxista e non solo il singolo individuo; in tal senso mi sembrano emblematiche le parole pronunciate da Joseph Gevaert: Per i pensatori marxisti, non solo la fine dell’uomo, ma anche la prospettiva di una fine dell’umanità è tabù[9].

    2 L’uomo contemporaneo occidentale di fronte alla morte

    L’occidente, inteso come l’area geografica in cui il sistema economico fondato sul capitalismo è predominante, presenta lo stesso disagio di fronte alla morte visto nella cultura marxista. Per dimostrare quanto appena affermato, mi sembra utile partire dall’analisi di un fatto che apparentemente sembra marginale, ma che in realtà è simbolico della cultura consumistica occidentale.

    C’è un giornale molto venduto in America che s’intitola Play-boy, titolo che tradotto letteralmente significa ragazzo che si diverte e che nei contenuti risale oramai a quel rapporto di divertimento che investe la sessualità maschile e femminile. È importante notare che il fondatore di tale giornale, Hugo Hafner, ha imposto uno stile book dove ha elencato ciò che non doveva apparire in tale opera editoriale. Così scrisse Hafner: È proibito parlare di bambini, di prigioni, di disgrazie, di vecchi, di malattie. Ma, soprattutto è rigorosamente vietato parlare di morte[10]. Da tale fatto e dai contenuti oramai stabili di tale rivista si può cogliere come il divertimento nel mondo occidentale corrisponda in modo preciso al significato etimologico che incarna, cioè sviarsi. L’oggetto di tale divertimento è chiaro e corrisponde a quanto elencato nelle parole citate, a tal proposito sarebbe interessante riflettere sugli effetti di tale impronta sulla rivista che Hafner ha fondato, infatti, non è un caso se il rapporto uomo-donna, dunque il rapporto che investe il fondamento dell’umanità intera, sia stato superficializzato in tali pagine. Una superficie che rifiuta qualunque approfondimento e che, per difendersi da qualsiasi intrusione che indaghi la terra di cui ogni uomo è costituito, tuffa il mondo occidentale in un rumore continuo che impedisca la riflessione. A ragione dunque scrive Konrad Lorenz: Questo dilagante bisogno di rumore si può spiegare soltanto col bisogno di soffocare qualcosa[11].

    Anche il soffocamento del rumore però non riesce nella sua impresa e quando questi fallisce subentra la fuga, fuga chiamata viaggio, tanto che il verbo travel (viaggiare) è divenuto l’imperativo dell’uomo occidentale. Anche tale viaggio però non fa altro che confermare il disagio di fronte al pensiero della morte ed in tal senso sono illuminanti le parole di Heidegger: Fuggire è sempre confermare che ci si rende conto di un pericolo imminente e di una minaccia[12]; minaccia che in questo caso è rappresentata dal confronto con la morte.

    La forma occidentale che più si è contrapposta al mondo marxista, almeno nelle intenzioni e nella propaganda, fu l’ideologia nazista. Che tale contrapposizione fosse fittizia, soprattutto per quanto concerne la riflessione oggetto di queste pagine, lo rivela l’impianto propagandistico del sistema propugnato da Hitler, il quale, eludeva la morte fisica alla radice, spegnendo ogni autorità della vecchiaia. A tal proposito le parole del ministro della propaganda nazista risultano ancora una volta emblematiche, questi scrisse nel suo libro Gioventù in marcia: I giovani hanno sempre ragione. Gli anziani non hanno alcun diritto di influire su di loro[13]. A completare il quadro di specularità esistente tra il mondo marxista ed il mondo occidentale giungono gli episodi di censura che investono anche quest’ultimo, di cui un esempio è Feifel (psicologo nordamericano), il quale fu licenziato dall’università per aver pubblicato un libro sul comportamento psicologico dei morenti e di chi in qualche modo è a contatto con la morte[14]. Come già detto in precedenza, anche la lingua non si è sottratta da tale censura nei confronti della morte, infatti, sono stati coniati parecchi eufemismi per indicare la morte senza doverla nominare. Per tale motivo i medici inglesi tendono oramai a chiamare un morto a patient, allo stesso modo in cui chiamano qualsiasi persona in cura da loro. La lingua evidentemente esprime dei fatti che gli soggiacciono, come scrisse L. Wittgenstein, dei fatti atomici. Non bisogna dunque stupirsi se i moribondi vengono nascosti in ali protette degli ospedali e se i cimiteri hanno trovato una collocazione silente distante dai centri abitati, almeno nelle intenzioni di chi li ha concepiti[15]. La realtà è che ogni sistema economico concepito dall’uomo, perché di questo si tratta in ultima analisi, ha dovuto produrre ogni sforzo per cancellare la morte, perché questa ricorda l’origine vera dell’uomo è spegne le illusioni di autosufficienza dell’umanità intera. Non potendola cancellare realmente, perché ciò avrebbe significato cancellare l’umanità intera, l’uomo moderno ha cercato altre vie, ben sintetizzate dalle parole di Pierre Chaunu, un uomo cristiano e un famoso storico delle culture all’università di Parigi, Chaunu scrive: A oriente come a occidente, non potendo cacciare la morte dalla vita, si è decretato che è vergognosa, che è indegna di noi, che bisogna farla sloggiare dai nostri pensieri. Le hanno lanciato contro la scomunica perché mette in crisi tutte le culture egemoni del nostro tempo. Non potendo darle un posto l’hanno occultata, bandita, proibita. Ma non si illudano, questi per ora potenti padroni del pensiero: non è così facile far morire la morte[16].

    3 Il disagio della morte come problema esistenziale

    Una volta liberati da un’impostazione apologetica nei confronti della morte, sia essa rivolta al mondo marxista o al mondo occidentale, è possibile riflettere filosoficamente sulla morte, cercando l’essenza. Un punto di partenza sostanziale mi sembra in tal senso costituito dalle parole di Voltaire che così scrisse: Solo la specie umana sa di dover morire e lo sa solamente tramite l’esperienza[17]. Per quanto affermato nei primi due paragrafi di questo capitolo introduttivo, le parole di Voltaire sembrano riguardare pochi uomini e di fatto è così, ma non bisogna dimenticare che quella vecchiaia espulsa a parole dalla cultura dominante in cui viviamo esiste e sta ampliando esponenzialmente la sua presenza, tanto da moltiplicare il numero di coloro che non possono non dedicare momenti essenziali della loro giornata alla riflessione sulla morte. Una riflessione che non abbracciava l’uomo primitivo, perché questi temeva il morto infinitamente più della morte; era dunque la presenza del morto, la sua fisicità a suscitare la reazione di timore nei confronti della morte, una reazione ancora non codificata, ma che credo non si distanzi molto da quel pianto scomposto che investe le folle presenti nei racconti evangelici. È utile comunque riflettere sulla differenza esistente tra la morte e il morire, perché, sebbene molti uomini presentano la loro morte e tali percezioni possano essere innumerevoli, persiste una differenza essenziale tra il morire e la morte, tra il subire come atto e ciò che si subisce[18]. Per tale motivo l’unica via per poter comprendere la reazione esistenziale nei confronti della morte è partire dalla morte di chi ci è di fronte, in particolare di quel chi che consideriamo nostro prossimo. Il prossimo è colui che ci è vicino, colui che amiamo, non è la morte degli altri, la quale non ci riguarda direttamente e passa come un numero anonimo da notizia di telegiornale. La morte del prossimo fa si che la morte si tramuti da presenza assente ad assenza presente ed il cadavere testimonia tale assenza di fronte a noi, rendendo presente la necessità del morire. Nel momento della morte di un colui che amiamo la nostra relazione con quest’ultimo si spezza ed è proprio tale rottura che apre la comprensione alla stessa morte; dimostrando nel contempo l’unicità di tale relazione e con essa l’unicità di ogni morte[19]. Quando un uomo compie l’esperienza cui ho appena accennato, comprende come la necessità della morte di chi amiamo non sia più vaga, ma si riveli tragicamente è reale. Un’esperienza che trasfigura se stessa, oggettivandosi, compiendo il passo decisivo che investe ogni indeterminatezza, indicata dall’articolo una, che giunge a determinarsi, divenendo nel caso presente la esperienza della morte. È in tale passaggio che si può comprendere anche la morte degli altri, di coloro che prima erano lontani ed anonimi. In tal senso si può affermare come nell’esperienza della morte sia presente una parte ontologica che vale per ogni morte. A tale affermazione si è obiettato ponendo come esempio i soldati ed affermando che questi non hanno tale esperienza, in quanto vedono morire altri senza comprendere tale visione nella propria esistenza. In realtà però tale comprensione è solo differita, perché una volta ripresa la vita civile dovranno affrontare l’impatto esistenziale della morte che hanno incontrato, la stessa che i parenti delle vittime subiscono immediatamente dopo la fine posta ai loro cari[20].

    Un altro effetto comprensivo indiretto che nasce dall’esperienza diretta della morte è la lontananza, infatti, quando non si vive l’esperienza della morte subita da coloro che si ama, l’immaginazione continua a farceli pensare vivi e lontani, anche se scomparsi. In un certo senso tale non esperienza produce una specie di immortalità. Immortalità che ogni uomo non può che escludere dalla propria natura considerata solamente da un punto di vista fisico e storico, a causa di quanto ho cercato di spiegare nelle pagine precedenti. Però, esiste un’ulteriore differenza all’interno del morire, a seconda che ciò interrompa o meno il normale evolversi di un’esistenza, di un percorso di vita. Con tale affermazione intendo dire che pochi uomini trovano la morte all’apice della loro vita, forse solo gli eroi e agli occhi altrui, infatti, per la maggioranza dell’umanità, la morte tronca i progetti fatti e lascia spesso inconclusa la stessa vita[21]. Quanto appena descritto può mutare radicalmente se l’uomo muta il proprio orizzonte, individuando un’escatologica possibile in cui sperare, tanto da poter vivere un’esistenza per la morte, sperando in una vita ulteriore che finisce col mutare ontologicamente la stessa vita terrena[22]. Questa è la vera conversione che rivela l’uomo dei vangeli proprio di fronte alla morte incontrata, sia altrui sia la propria. Una conversione che muta il pianto di disperazione in lacrime di speranza, non tramite interpretazioni ottimistiche dei testi evangelici, ma semplicemente grazie alla lettura attenta dei testi nella lingua originale greca, la quale non lascia alcun dubbio riguardo a quanto affermato finora.

    4 Le parole di sonno e di morte nelle Scritture

    Nella Bibbia esistono molti modi, in altre parole molti termini e diversi verbi, per tradurre il sonno e la morte. I testi ebraici, inerenti l’Antico Testamento, utilizzano in maniera quasi esclusiva la radice mvt[23] per indicare il morire ed i suoi derivati[24], mentre la traduzione dei LXX amplia e specifica in maniera più moderna l’incontro dell’uomo, ma non solo dell’uomo, con la morte. Per quanto concerne il sonno ed il suo significato sia nel testo masoretico sia nel testo greco i termini si moltiplicano, a dimostrazione che l’utilizzazione quasi esclusiva di mvt, per indicare la morte, è una scelta non di certo dovuta ad una presunta povertà terminologica della lingua ebraica, ma più probabilmente alla consapevolezza biblica che la morte è una e abbraccia ogni essere vivente. Il Nuovo Testamento eredita le parole greche innovandole, mantenendo dunque quel legame di continuità-discontinuità che caratterizza la relazione tra i libri veterotestamentari e i libri neotestamentari.

    4.1 Analisi dei termini inerenti il sonno e la morte

    Il verbo katheydó ha un significato negativo nel pensiero greco, ad esempio per Platone, di cui si è ritrovata una sveglia che si era fatto costruire per non dormire durante tutte le ore della notte ed utilizzare parte di tali ore per la riflessione. Per contro lo stesso verbo viene utilizzato per descrivere la grandezza d’animo di Socrate, il quale riusciva a dormire serenamente anche alla vigilia della propria morte[25]. Nell’A.T. il significato sembra coincidere con quello visto riguardo a Socrate, infatti il dormire bene è visto come benevolenza da parte di Dio; allo stesso il dormire troppo è visto negativamente, ancora una volta in continuità col pensiero greco. Esiste inoltre un sonno di stordimento, il quale spesso proviene da Dio e prelude ad una rivelazione. Esempi in tal senso sono le rivelazioni fatte in sogno a Giacobbe e Giuseppe narrate in Genesi o quelle rivolte al re Nabucodonosor ed interpretate da Daniele[26]. Il derivato katheýdin è usato spesso nell’A.T. in relazione alla morte e si connota per non essere mai attribuito a Dio, mentre viene utilizzato per descrivere la non vita degli idoli; proprio tale differenza è una delle distinzioni fondamentali tra la religione biblica ed il paganesimo[27]. Nel N.T. tale atto prende importanza in relazione alla capacità di vegliare, in particolare a quella di Gesù, la quale permette la preghiera e la relazione col Padre che soggiace al sonno sereno di Gesù sulla barca. Inoltre compare lo stesso significato già visto per l’A.T., infatti, l’utilizzo rivelativo di tale verbo è chiaro in episodi riguardanti Giuseppe, i magi e la moglie di Pilato.

    Il termine ékstasis denota un cambiamento di luogo, un turbamento dello spirito oppure del timore e/o della meraviglia. Tale situazione viene spesso associata alla follia, non a caso il termine ebraico sottostante quello greco è la radice nb’ che significa parlare con ira. Nell’A.T. ékstasis interpreta situazioni analoghe a quelle descritte dal verbo katheydó, infatti, descrive momenti in cui si manifesta una conoscenza sovrumana e/o una rivelazione divina[28].

    Il verbo ýpnosen, che nei LXX traduce l’ebraico hãlôm, è usato per indicare una situazione che occorre nel sonno[29]. La mitologia greca ha finito col legare tale sonno alla morte, tanto che Hýpnos e Thanatós compaiono nell’iconografia insieme, a significare come vi sia un reciproco confine che viene compenetrato dalle due divinità[30]. Oltre alla traduzione appena vista, i LXX usano ýpnosen per tradurre l’ebraico šènâ e l’aramaico šenâ ed anche per il verbo ‘šn, in tali casi è usato spesso per indicare il sonno in cui avviene una rivelazione e più precisamente si lega anche ad immagini che evocano l’annientamento escatologico[31].

    Nel N.T. ýpnosen descrive un evento naturale, ma ancora una volta legato ad apparizioni divine, come narra il vangelo di Matteo a proposito di Giuseppe (Mt 1,24). Tale fatto viene confermato anche dal sonno di Gesù, il quale dorme mentre gli eventi naturali impauriscono i discepoli, rivelando in tal modo la sua superiorità rispetto alla natura, natura che gli obbedisce quando le impone la sua pace. Per contro l’ipnosi descrive anche la cecità dei discepoli di fronte alla verità e non a caso proprio dei discepoli più vicini a Gesù, i quali sia al momento della Trasfigurazione sia al Getsemani, dunque nei momenti rivelativi di Gesù come Dio e come Uomo, mostrano di non capire cosa accada. Nel quarto vangelo i significati finora visti si sommano e nell’episodio della risurrezione di Lazzaro (Gv 11,11-13) il sonno è legato alla morte ed assume un significato apocalittico ed escatologico[32].

    Il verbo teleytào sembra essere il verbo greco che domina il significato della morte nell’A.T. Un verbo utilizzato per descrivere la morte di Mosé (Gs 1,1-2), ma anche quella di Davide (1Cr 29,28) e Giobbe (Gb 42,17), anche se per quest’ultimo la traduzione dei LXX riserva anche verbi più divini (isthèmi). Con lo stesso verbo vengono descritte le morti di Geroboamo (2 Cr 13,20) e della moglie di Aronne Maria (Nm 20,1), così come dei figli dello stesso Aronne (Nm 3,4 e Lv 16,1 e Gs 24,33). Giuseppe e Giosuè non riescono a sottrarsi alla medesima fine mortale (Es 1,6 e Gdc 2,8) ed anche Isacco vede con tale verbo la propria morte (Gn 27,2). Libri interi si aprono e si chiudono con tale morte, come ad esempio il libro di Giosuè e la stessa morte sembra espandersi universalmente se pensiamo alle profezie narrate nel libro di Geremia (Ger 11,22) o Amos (Am 9,10). La morte sembra dunque inevitabile e personaggi come Giobbe arrivano persino ad agognarla con una volontà retroattiva (Gb 3,11). Resta comunque una prerogativa di Dio il decidere la morte, infatti, nessuno tra i profeti ed i personaggi biblici osa decidere in tal senso, vi è un’unica eccezione e riguarda una donna, ovvero la moglie di Giobbe che invita il marito a benedire Dio ed a morire (Gb 2,9).

    Un discorso particolare, in prospettiva neo-testamentaria, va fatto per Mosé, il quale ascolta dal Signore come chi volesse attentare alla sua vita fosse morto (Es 4,19) ovvero il re d’Egitto (Es 2,23); va anche però ricordata la triste coincidenza della moria dei primogeniti (Es 11,5), comparabile alla strage dei bambini pensati coetanei di Gesù.

    Al verbo teleytào si accompagna ảpothnésko, il quale indica quasi esclusivamente il processo del morire, pur apparendo anche in momenti definiti in cui indica uno stato raggiunto[33]; mentre il verbo thánatoo può indicare sia

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