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E-book452 pagine5 ore

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Info su questo ebook

Secoli prima della Commedia dantesca, Giovanni Scoto Eriugena, monaco, teologo, insigne traduttore e filosofo irlandese alla corte di Carlo il Calvo, produsse uno sforzo simile per esprimere «la delicata relazione tra Creatore e creatura attraverso l’impiego dell’immagine poetica». Nasce così questa raccolta di carmi intensi, complessi e spesso di non agevole interpretazione, dove incontriamo erudite interpolazioni nel tessuto linguistico latino di termini filosofici e teologici in greco. Si tratta di un'opera importante ma fino a oggi poco nota anche agli storici della letteratura medievale, proposta nell'elegante traduzione in lingua italiana, con testo originale a fronte, di Filippo Colnago, arricchita dall'indispensabile commento storico-filologico e teoretico.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita25 giu 2021
ISBN9788816802872
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    Anteprima del libro

    Carmi - Scoto Eriugena

    Biblioteca di Cultura Medievale

    diretta da

    INOS BIFFI E COSTANTE MARABELLI

    © 2014

    Editoriale Jaca Book SpA, Milano

    tutti i diritti riservati

    Prima edizione italiana

    settembre 2014

    Introduzione, traduzione e note

    a cura di Filippo Colnago

    Copertina e grafica

    Break Point / Jaca Book

    Redazione e impaginazione

    Elisabetta Gioanola / Jaca Book

    Stampa e confezione

    Litogì srl, Milano

    settembre 2014

    ISBN 978-88-16-80287-2

    Editoriale Jaca Book

    via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520

    libreria@jacabook.it; www.jacabook.it

    Seguici su

    INDICE

    Prefazione: La teologia poetica di Giovanni Scoto, di Giulio d’Onofrio

    INTRODUZIONE

    1) Il contesto culturale

    1.1) La ‘rinascita carolingia’

    1.2) Aspetti culturali del regno di Carlo il Calvo

    2) Il contesto teologico

    3) La figura di Giovanni Scoto Eriugena

    3.1) La vita e i primi scritti

    3.2) L’incontro con la patristica greca (opere di traduzione e commentari)

    3.3) L’Eriugena inteprete delle Scritture

    3.4) Il vertice speculativo eriugeniano: il Periphyseon

    3.4.1) Il genere natura e le sue divisioni (quadripartita e bipartita)

    3.4.2) La prima natura (quae creat et non creatur): la conoscibilità di Dio

    3.4.3) La seconda natura (quae creat et creatur): la conoscibilità delle creature (la triade sostanziale e le cause primordiali)

    3.4.4) La terza natura (quae creatur et non creat): l’Esamerone e l’antropologia

    3.4.5) La quarta natura (quae non creatur et non creat): l’escatologia

    4) Il corpus poetico eriugeniano

    4.1) Tradizione del testo, problemi di autenticità ed edizioni critiche

    4.2) Datazione e suddivisione contenutistica dei carmi

    4.3) La lingua dei carmi

    4.4) La metrica dei carmi

    CARMI

    Carmen 1: De Christo crucifixo

    Carme 1: Cristo crocifisso

    Carmen 2: De cruce

    Carme 2 La croce

    Carmen 3: De Paschate

    Carme 3: La Pasqua

    Carmen 4: Laudes Yrmindrudis Caroli Calvi uxoris

    Carme 4: Elogio di Ermentrude, moglie di Carlo il Calvo

    Carmen 5: De Christi resurrectione

    Carme 5: La resurrezione di Cristo

    Carmen 6: Christi descensus ad inferos et resurrectio

    Carme 6: La discesa agli inferi e la resurrezione di Cristo

    Carmen 7: Adhuc de Christi resurrectione

    Carme 7: Ancora la risurrezione di Cristo

    Carmen 8: De Verbo incarnato

    Carme 8: Il Verbo incarnato

    Carmen 9: Christi triumphus de morte ac diabolo

    Carme 9: Il trionfo di Cristo sulla morte e sul diavolo

    Carmen 10: Preces pro Karolo rege

    Carme 10: Preghiere per il re Carlo

    Carmen 11

    Carme 11

    Carmen 12a

    Carme 12a

    Carmen 12b

    Carme 12b

    Carmen 13

    Carme 13

    Carmen 14

    Carme 14

    Carmen 15

    Carme 15

    Carmen 16

    Carme 16

    Carmen 17

    Carme 17

    Carmen 18

    Carme 18

    Carmen 19

    Carme 19

    Fr. 1

    Fr. 1

    Fr. 2

    Fr. 2

    Fr. 3

    Fr. 3

    Fr. 4

    Fr. 4

    Carmen 20: Oblatio operis dionysiani Karolo regi

    Carme 20: Offerta della traduzione di Dionigi al re Carlo

    Carmen 21: De magno Dionysio areopagita

    Carme 21: Il grande Dionigi l’Areopagita

    Carmen 22

    Carme 22

    Carmen 23

    Carme 23

    Carmen 24

    Carme 24

    Carmen 25

    Carme 25

    Appendix

    App. 1: Ad Karolum Calvum de secta Gothescalci

    Appendice

    App. 1: A Carlo il Calvo riguardo alla setta di Godescalco

    App. 2

    App. 2

    App. 3

    App. 3

    App. 4

    App. 4

    App. 5

    App. 5

    App. 6

    App. 6

    App. 7

    App. 7

    App. 8

    App. 8

    App. 9

    App. 9

    App. 10

    App. 10

    App. 11

    App. 11

    App. 12

    App. 12

    App. 13

    App. 13

    App. 14

    App. 14

    App. 15

    App. 15

    App. 16

    App. 16

    Abbreviazioni e simboli

    Bibliografia

    Indice scritturistico

    Indice onomastico

    Prefazione

    LA TEOLOGIA POETICA DI GIOVANNI SCOTO

    di

    Giulio d’Onofrio

    Nel suo profondo vidi che s’interna,

    legato con amore in un volume,

    ciò che per l’universo si squaderna. (…)

    La forma universal di questo nodo

    credo ch’i’ vidi, perché più di largo,

    dicendo questo, mi sento ch’i’ godo¹.

    Giunto, nell’ultimo canto della Commedia, a un passo dall’«ultima salute», la finale visione del divino, Dante racconta di avere potuto contemplare per un attimo senza tempo la compresenza di tutta la realtà creata nella Mente creatrice. Prima di vedere Dio, e per poterlo vedere, gli viene infatti concesso di partecipare della visione che Dio stesso ha dell’universo creato. Ma per descrivere, anche impropriamente, l’evento di tale sguardo superiore, l’intelligenza umana non può fare ricorso alle metodologie delle scienze razionali, elaborate dai filosofi dell’antichità e poi, nei secoli medievali, applicate ai dati della fede da una affollata schiera di teologi. Comunicare a un lettore con parole significanti la sussistenza in Dio di ogni cosa, dalla più immensa alla più minuscola, dalla più spirituale alla più corporea, dalla più degna alla più bassa, nell’armonica coralità di tutto il reale riflessa dalla luce eterna che a tutto dà vita, è impresa che supera e nullifica le competenze dottrinali anche del più sottile scienziato. Giunto all’esito massimo, non ulteriormente estendibile, della ricerca filosofica, il sapiente che si lascia informare e dirigere dai contenuti della Rivelazione si trova però nelle condizioni di potersi servire di uno strumento conoscitivo ulteriore e di una via di comunicazione in più nei confronti del suo pubblico: l’immaginazione poetica, che sa rappresentare con concretezza formale ciò che concetti e regole della logica non sono più in grado di determinare.

    Poeta-teologo per eccellenza, Dante ricorre sapientemente allo strumento della metafora per far intendere al lettore come la verità di ciò che i cristiani credono per fede gli sia apparsa ‘visibile’, con l’immediatezza e l’evidenza stesse con cui la ragione intuisce i princìpi primi della logica²: la creazione intera gli è sembrata raccolta come «in un volume», la cui «legatura» era cucita «con» l’«amore» che congiunge all’intimità insondabile della Mente di Dio («nel suo profondo») tutto ciò che si apre alle variazioni dell’esistenza spazio-temporale, proprio come «si squaderna» nella diversità delle attuazioni particolari l’insieme dei fascicoli (o ‘quaderni’) che formano il grande libro della creazione.

    Ma c’è, in questi versi, qualcosa di più recondito e di ancora più intensamente espressivo. La fede insegna che la presenza della realtà creata nel Creatore è frutto della disponibilità amorosa della seconda persona trinitaria, il Figlio o Verbo, o Pensiero, Sapienza, Arte del Padre, nella cui eterna progettualità trovano il loro luogo inalterabile, in forma di ‘idee’ o ‘cause’ o ‘forme’ primordiali, i princìpi archetipici di tutto il reale: perché nel Verbo e per mezzo del Verbo «omnia facta sunt» (Gv 1,3). Il poeta-teologo riesce a figurare, con maggiore libertà descrittiva del filosofo (il cui linguaggio è condizionato dai rigori tecnici delle arti), l’impossibile pittura del pensare eccelso con cui il Verbo ‘vede’, ‘pensa’, ‘dice’ in se stesso la verità di tutto ciò che è. E, con parole che solo alla poesia è consentito usare, riferisce di avere visto la «forma universale» del «nodo» che congiunge tutto a Dio, affermando di avere provato, in tale vedere («credo ch’i’ vidi»), il massimo appagamento possibile alla creatura umana («più di largo /…i’ godo»). Perché se la sua mente ricorre d’abitudine all’utilizzo di ‘forme’ intelligibili, mai sarà capace per natura, come invece lo è per grazia in questa visione, di cogliere la «forma» che racchiude in sé tutte le forme (e quindi «universale»): l’immagine del libro aiuta, dunque, a intendere come tale «forma» suprema sia la parola divina, o il pensiero divino, ossia il Verbo, nel quale è fatto ‘leggibile’ e ‘intelligibile’ l’intero creato.

    E allora lo «squadernarsi» delle cose finite è il fuoriuscire dell’essere finito dalla perfezione originaria del Verbo divino che lo ‘dice’, perché il quattro è la cifra del diversificato, del molteplice che si irradia, come lungo le diagonali di un quadrato, distribuendosi in insistenti quaternità: le quattro misure dello spazio (alto, basso, destra, sinistra), le quattro stagioni dell’anno, i punti cardinali, le fasi del giorno, gli elementi primordiali e le loro qualità, e così via. Ma ancora, l’«internarsi» di ogni cosa «nel profondo» della «forma universale», che è la seconda persona trinitaria, non sarà solo allusione al farsi ‘interiore’ («s’interna») del creato nel suo Principio, ma, con il ricorso tacito, quanto intenzionale, a un’ispirata ambiguità linguistica, significherà piuttosto il ‘farsi tre’ («s’in-terna») del Principio stesso, nella triadicità delle persone divine e delle loro diverse relazioni con la potenzialità delle creature³. E infine, in piena armonia con le esigenze della dottrina, la poesia insinua anche, con un accenno rapido ma determinante, il modo in cui la relazione del tre con il quattro non sia possibile se non si incardina sulla inalterabile e sempre vera unità suprema del Principio («in un volume»). La lirica evocazione, dunque, della congiunzione tra creatura e Creatore è scandita da tre limpidi versi nei quali tre numeri sacri (il tre, l’uno, il quattro) esercitano il loro misterioso potere simbolico, assicurando insieme la trascendenza della Causa e il manifestarsi della sua potenza nell’essere finito dell’effetto.

    * * *

    Alcuni secoli prima di Dante, un non dissimile sforzo per esprimere la delicata relazione tra Creatore e creatura attraverso l’impiego dell’immagine poetica è stato compiuto, con raffinata capacità artistica e profondità teoretica insieme, dal filosofo della corte di Carlo il Calvo, Giovanni Scoto Eriugena, in alcuni passaggi intensi e complessi della sua importante raccolta di carmi, raffinati e di non facile interpretazione e sovente caratterizzati dall’erudito inserimento, nel tessuto linguistico latino, di termini filosofici e teologici in greco: un’opera importante, fino ad oggi non molto nota e raramente presa in considerazione dagli storici della letteratura medievale (in quanto, spesso, ritenuta troppo ‘concettuosa’), che vede finalmente la luce nella elegante traduzione in lingua italiana – supportata da un indispensabile commento storico-filologico e teoretico, documentato e attento alla giusta contestualizzazione del prodotto letterario – di Filippo Colnago. Sarà compito del lettore valutare quanto questa pubblicazione sia preziosa per colmare una grave lacuna nella conoscenza media, anche presso gli specialisti del settore, di una importante pagina di storia del pensiero medievale, nonché per avviare un primo chiarimento, o forse aprire una discussione, sulla complessa nozione di teologia poetica.

    In quello che oggi figura come primo componimento della raccolta, dedicato alla glorificazione del Cristo crocifisso, Giovanni Scoto, prima di Dante, celebra con le espressioni immaginifiche della poesia la conciliazione del molteplice nell’uno resa possibile dal diaframma dinamico della distinzione trinitaria fra le persone divine e dalla congiunzione di divino e umano nell’incarnazione:

    Ecce crucis lignum quadratum continet orbem,

    in quo pendebat sponte sua dominus,

    et Verbum Patris dignatum sumere carnem,

    in qua pro nobis hostia grata fuit⁴.

    Solo una generazione prima, una simile esposizione della dottrina cristiana imperniata sulla celebrazione poetica del simbolo della croce era stata affidata da Rabano Mauro all’affascinante composizione di un altro complesso capolavoro teologico-poetico, il Liber sanctae crucis (o In honorem sanctae crucis): un altissimo prodotto dell’arte carolingia, anch’esso poco conosciuto nonostante il suo difficile ma straordinario fascino, consistente in una raccolta di 28 carmi figurati racchiusi in griglie di lettere che formano stupende immagini miniate, nella cui composizione viene affidata a un vertiginoso gioco di incastri tra lingua latina, scrittura, disegni, metrica e simbologia biblica, la glorificazione della redenzione operata sulla croce, signum che riassume in un’unica visione il convergere armonioso di tutte le realtà volute e amate da Dio⁵.

    Rispetto però al particolarissimo – e ineguagliabile – congegno poetico di Rabano, nella cui composizione tutti gli strumenti espressivi escogitati dalla sapienza letteraria della civiltà occidentale sono messi in campo al servizio di una sublime devozione, molti fra i carmi di Giovanni Scoto assolvono al ben diverso compito di tradurre nel linguaggio immaginifico e formalizzato dell’arte poetica i contenuti di un pensiero teoreticamente consolidato: del medesimo sistema speculativo, cioè, che soggiace alla complessa articolazione argomentativa del dialogo tra un Maestro e un Discepolo nella sua opera principale, il Periphyseon in cinque libri. In aderenza a tale programma, nel primo, ma anche nel secondo carme della raccolta, la convergenza in unità dei quattro bracci della croce diventa il cardine che accorda e sostiene i fondamenti della dottrina cristiana, dalla creazione alla redenzione e salvezza eterna dell’universo.

    Distesa nelle quattro dimensioni dello spazio ad accogliere in sé, riepilogandone le diversità, l’intera finitudine e molteplicità del creato, la croce è per Giovanni Scoto, sul prolungamento di un’idea di Paolo (Ef 3,18), il segno e, insieme, il principio della ricongiunzione in uno dell’intera realtà: con l’efficacia del vero sacramentum, realtà creata e visibile che media l’attuazione dell’increato potere divino, l’incrocio di due linee perpendicolari congiunge simbolicamente le dimensioni dello spazio e del tempo, la pluralità della finitudine con l’unità dell’infinito. L’albero («lignum») della croce ricompone in coesione armonica tutte le esistenze particolari e divergenti che un altro, antico albero, occasione del peccato originale, aveva precipitato agli angoli estremi del mondo ‘quadrato’ («quadratum continet orbem»), ossia del molteplice e del diverso: perché la libera assunzione della carne da parte del Figlio, seconda persona della Trinità divina, è l’esito della disponibilità dell’eterno a farsi nel tempo («fuit») pegno sacrificale («hostia grata»), atto ad appagare l’amore di unità e di ordine del Padre.

    Veramente, dunque, il sacramentum appare non essere solo una evocativa figura simbolica, perché è, nella storia e nell’eternità insieme, la causa operante dell’azione del Redentore. Aggirando con impeto lirico le lentezze argomentative della razionalità discorsiva, il poeta rende percepibile, attuando una possibilità di espressione diretta, intensamente sintetica, l’esito del lavacro di acqua e sangue sgorgato dalle ferite di Cristo (Gv 19,34), che deterge il cosmo da ogni macchia di peccato e rinnova il legame di umano e divino. Tolta la causa che separa il creato dal Creatore e il mortale dalla vita, l’uomo, creatura che riepiloga in sé ogni altro essere che Dio governa nell’universo, si fa identico a Dio, così da poter diventare Dio egli stesso:

    Unda lavat totum veteri peccamine mundum,

    sanguis mortales nos facit esse deos⁶.

    Realizzazione della promessa antica di sussistenza nella pace con Dio, l’impossibile essere deificato del finito, del corruttibile e transeunte umano, nulla toglie alla perfezione e trascendenza eterna del Principio creatore, ma ne incrementa, semmai, il trionfo nella realtà del sussistere universale. Con un rapido tratto formale, fatto di onda metrica e ordine sonoro delle parole, il poeta-teologo insinua l’altissima verità del mistero conclusivo della fede cristiana, attinto ai vertici speculativi della tradizione teologica orientale: «il sangue» del sacrificio «fa noi mortali essere dei». E si compie qui, mi sembra, uno dei più sorprendenti effetti della poesia, spintasi fino a ‘dire’ il più ‘indicibile’ dato della fede: con una forzatura delle leggi logiche e grammaticali che solo all’arte è lecita, il puro ‘divenire’ («facit») si predica del puro ‘essere’ («esse»), e il ‘mortale’ («mortales») si predica del ‘divino’ («dei»). Cosicché, con un capovolgimento assoluto di causa ed esito della caduta dei progenitori, attratti dalla falsa lusinga del poter essere «sicut dei»⁷, la poesia può ora attingere la verità all’albero della ‘vita’, e finalmente declinare al plurale («facit esse deos») un termine («deus») il cui impiego significante è lecito, per la limitata logica umana, rubata all’albero della ‘scienza’ e della distinzione e mescolanza del bene e del male, soltanto al singolare.

    La ragione creata è così invitata, dalla stringatezza formale di un solo, quanto mai denso verso, a fronteggiare il mistero della conoscenza beatifica, che porta il soggetto conoscente a farsi identico all’oggetto conosciuto senza con-fondersi con esso, ma partecipando della sua capacità di essere e di essere vero. È propriamente, questa, la stessa celebrazione del vedere dell’apostolo Giovanni, di cui lo stesso Eriugena parla – con il linguaggio, intermedio tra il teologico e il poetico, della predica ispirata – in un altro suo, certamente più famoso testo, l’Omelia sul prologo del quarto Vangelo⁸. Lì, infatti, l’aquila che vola verso le altezze supreme della verità e, unico tra gli esseri viventi, guarda direttamente il sole, è assunta a simbolo dell’intelligenza dell’evangelista, portata dalle ali della fede a superare i limiti della sua stessa natura: dove l’uomo si fa «plus quam homo» e reso simile a Dio, «deificatum», penetra «in Deum deificantem», nel divino che lo rende divino⁹. In entrambe queste occasioni, il carme per Cristo crocifisso e l’Omelia, l’Eriugena narra dunque (anticipando Dante) il vedere umano della «forma universale» di ogni cosa in Dio; in entrambe non entra nel dettaglio di una impossibile giustificazione ‘tecnica’ di questo conoscere, ma, semplicemente, lo enuncia, alludendo al mistero della risoluzione del molteplice nell’uno per mezzo di chiare immagini piene di senso (la convergenza dei bracci della croce nel carme, il volo dell’aquila nell’omelia).

    * * *

    La possibilità di dare espressione al contenuto di tali vertici di contemplazione teologica mediante la poesia è fondata, per l’Eriugena, su un aspetto molto importante della dottrina platonica dell’anima umana: la teoria della molteplicità ascensiva delle facoltà e del diverso ruolo che ad esse compete nel progressivo relazionarsi del soggetto conoscente con le forme via via più alte e più adeguate in cui si manifesta la realtà delle cose conosciute¹⁰. La conoscenza umana, secondo la formalizzazione tardo-neoplatonica di questa concezione, è assicurata dall’operatività di tre facoltà distinte. La prima, in ordine ascensivo, è il sensus, o senso interno, che recepisce passivamente le informazioni provenienti dai sensi esterni, rielaborandole secondo i processi, ancora legati alla singolarità corporea, dell’immaginazione, ossia producendo rappresentazioni apparenti, soggettive e imperfette dell’essenza, che si chiamano phantasiae: è questa la sfera della quotidianità pratica e dell’accidentalità, secondo cui l’uomo considera le cose nella loro mutevole superficie corporea per poterle usare e finalizzare ai propri scopi più immediati. La seconda è la ratio o ragione discorsiva e argomentativa, che astrae dai dati sensibili la nozione intelligibile, la consolida assicurandole una definizione e dividendola nelle sue componenti formali, per introdurla nelle concatenazioni dimostrative: questa è la sfera in cui operano le arti liberali, dal cui insieme è costituita la scientia. La terza è l’intellectus, facoltà della contemplazione intuitiva, immediata e onnicomprensiva, che ascende direttamente alle ragioni ultime delle cose: è dunque orientata verso la verità universale delle cause primordiali e ne considera l’efficacia guardando complessivamente alla coerenza e all’armonia del piano provvidenziale divino.

    Proprio esortandolo ad abbandonare il piano soggettivo del conoscere sensibile e razionale e ad assumere il punto di vista dell’intelligentia (o intellectus), la Filosofia consolatrice schiudeva a Boezio, imprigionato e sofferente, la via per superare i limiti dell’individualismo soggettivo a vantaggio di una migliore comprensione della costante bontà e provvidenzialità dell’universo¹¹. Con una simile ascesa all’intuitività superiore dell’intellectus, l’Eriugena si sforza di cogliere conoscitivamente le nozioni più alte e pure, a partire dalla cui contemplazione la ratio discorsiva prende poi le mosse per organizzare in indagini mediate e dettagliate, regolate dai criteri delle arti, l’esplorazione delle verità particolari. Così, per esempio, all’inizio del Periphyseon il Maestro e il Discepolo dialoganti concordano sulla formulazione intuitiva del concetto natura, atto a riassumere nel proprio significato ogni realtà, divina e creata, pensabile e non pensabile; e ne propongono – con un’operazione mentale che appare anch’essa anteriore rispetto ai procedimenti della logica formale – una prima divisione in due latitudini costitutive complementari, che distinguono nominandole, con termini caratterizzati dal più ampio significato possibile, come le cose che sono e le cose che non sono («quae sunt et quae non sunt»). Dopodiché, constatando che questi due membri della prima e universale divisione di natura non sono determinabili in base ai consueti procedimenti logico-definitori della mente, riconoscono l’opportunità di trasferirsi sul piano della razionalità discorsiva, sottoponendo nuovamente il concetto indefinibile di natura a una divisione, ma questa volta logicamente rigorosa e sostenuta da distinzioni simmetriche: ossia alla famosa quadripartizione ottenuta combinando a coppie i quattro contraddittori che scaturiscono dall’affermazione e dalla negazione della predicazione attiva e di quella passiva del verbo creare (la «natura che crea e non è creata», quella «che è creata e crea», quella «che è creata e non crea» e quella «che non è creata e non crea»)¹². Di qui in poi, la ragione, tornata a essere operante in seguito a tale discesa dai superiori livelli della contemplazione intellettuale, può avviare le proprie elucubrazioni, induzioni, deduzioni e concatenazioni sillogistiche, perseguendo per la lunga avventura dei cinque libri del Periphyseon il significato e la dicibilità logico-scientifica dell’intera quadripartizione, lungo gli sviluppi diametralmente inversi della discesa del molteplice dall’uno e del ritorno finale alla stabilità finale nell’uno di tutto ciò che ne era distinto e differenziato.

    Questi sono dunque i principali percorsi possibili alla mente del filosofo secondo l’Eriugena, diffusi attraverso le sinuose onde della ragione ma diretti, a un livello superiore, dalla luminosa intuitività dell’intelletto. E tuttavia qualcosa di ulteriore si profila, anche al di là di questi straordinari risultati conoscitivi del vero, pur sempre creaturali: permane infatti la possibilità di una conoscenza ancora più alta, onnicomprensiva e inalterabile, che non comporta in sé il permanere di alcuna distinzione o contraddizione, e che ha Dio, a un tempo, quale oggetto e quale soggetto. Tale è, infatti, la visione che del divino può avere solo il pensiero divino medesimo, e che si puntualizza e, insieme, si dilata ben al di là della stessa contemplazione intellettuale della sussistenza eterna di tutte le cose nelle loro cause primordiali. Il soggetto umano potrà raggiungere tale ultimo grado del vero solo ottenendo, per grazia, di potersi congiungere all’Intelletto o Verbo divino, facendosi simile ad esso. Solo in tale ultima visione beatificante la mente creata potrà cogliere, con la fine dei tempi storici, la verità di ciò che fino a quel momento avrà potuto soltanto credere, senza mai intenderla. Spingendosi più in là del falso obbligato del filosofo e del silenzio contemplativo del teologo, il poeta può provarsi a raccontarla:

    Si vis OYPANIAC sursum volitare per auras

    EMPYRIOCque polos mentis sulcare meatu,

    OMMATE glaucivido lustrabis templa sophiae,

    quorum summa tegit condensa nube caligo,

    omnes quae superat sensus NOEPOCque LOΓOCque¹³.

    Volare al di sopra delle stesse aure celesti, toccare l’empireo increato lungo i percorsi della mente creata, significa poter purificare l’occhio del pensiero lasciandolo penetrare nella Sapienza in sé, che è appunto il Verbo o Intelletto divino, nascosto dalla tenebra mistica che nega e invera insieme ogni grado inferiore di conoscenza. Le distinte sfere conoscitive naturali (sensus, ratio o λóγoς, intellectus o νoερóς), non sono in effetti tra loro distinte e ciascuna dotata (aristotelicamente) di autonomia di competenze per diversità di ambito o di oggetto, ma si sviluppano (platonicamente) in relazione a successivi gradi di elaborazione e perfezionamento della medesima relazione tra il conoscente e il conosciuto, corrispondenti a diverse forme di vita e di sapere operanti nel creato; delle quali, tutte, l’uomo partecipa e che, tutte, riassume nella propria mente: la vita animale, che condivide con i bruti; quella razionale, che è propria della sua specie; e quella intellettuale, che si accende in lui quale raro esito di studio e impegno nella ricerca e che gli angeli possiedono stabilmente. I risultati di ogni conoscenza inferiore devono essere dunque nell’uomo trasferiti, semplificati e inverati negli esiti di quella immediatamente superiore. Al di sopra di tutte, la conoscenza che è propria di Dio, ossia la divina Sapienza, comprende in sé ogni grado subalterno, sublimandone le capacità rappresentative oltre ogni limite e parzialità.

    Ebbene, se il linguaggio della ragione logica, che sarà sempre quello ordinario e consueto per l’uomo nella sua vita temporale, deve arrestarsi dinanzi a questa variegata organizzazione verticale dei gradi del conoscere, resta tuttavia aperta al filosofo la possibilità di incaricare la poesia – per l’efficacia del suo linguaggio evocativo, della sua sonorità penetrante e delle sue immagini significanti – di spingersi oltre i limiti ordinari della razionalità, fino a dire qualcosa, sottraendosi alle regole della scienza e abusando liberamente della loro funzionalità, sulle indicibili verità dell’eterno. Così, per esempio, l’ispirazione lirica e l’abile versificazione, combinate insieme, pervengono a cucire in una sintetica pittura, incardinata su ordinate simmetrie numerologiche, la densità della disposizione complessiva del cosmo visibile che l’Eriugena propone di decifrare nelle simboliche architetture della cappella di Compiègne («aula siderea», o ‘corte delle stelle’); dove, riflettendo ancora sulla capacità evocativa della figura quadrangolare («tetragonus mundus»), l’intelligenza è invitata a muovere gli occhi della conoscenza sensibile e i concetti della determinazione razionale entro il perimetro del sacro edificio, per elevarli a una superiore percezione intellettuale, riepilogativa delle divisioni spaziali e temporali, dei movimenti e delle stasi cosmiche che animano l’immensità del cielo, ineffabile per l’animo umano perché fatta di infinite finitudini e di innumerevoli misurabilità:

    Aulae sidereae paralelos undique circos

    crinibus auratis nectit Titania lampas.

    Umbram bis luci parilem bis lance staterans

    sese bis tropicos ambarum vertit in auctus,

    ac sic distinguens binis bis motibus annum

    regnat tetragonum pulcro discrimine mundum¹⁴.

    L’ordine della corporeità, che è luogo di dispersione e disorientamento teoretico ed etico quando prevale l’impulso disordinato delle passioni, può dunque – secondo gli insegnamenti di Paolo, di Agostino, dello pseudo-Dionigi e di Massimo il Confessore – diventare strumento di ascesa conoscitiva, purché la debole passività dell’attrazione sensuale venga corretta dall’esercizio frequente della ragione e assorbita dalla finale uniformità della visione intellettuale, dove svaniscono le ingannevoli superfetazioni accidentali della crosta materiale e si manifesta la verità delle essenze eterne. La razionalità filosofica postula con i suoi schemi formali questo trascendimento della coltre delle phantasiae, malate e ingannevoli; ma solo la poesia lo racconta apertamente, traducendolo con le sue immagini in una comunicazione veridica, efficace e consolatoria. Cosicché nella felice percezione visionaria del poeta, lo schermo della pluralità diversificata incombe sulla realtà essenziale delle cose come l’esercito del Faraone perseguita il popolo eletto nell’attraversamento del mare delle diversità, mentre il fango delle false immagini corporee impedisce il procedere intermedio («iter medium») della razionalità dianoetica e della virtù etica verso lo stabile approdo del vero immutabile:

    Quid, Pharao, sequeris populum? Fuge mersus in ima

    carceris aeterni, te tegat atra palus.

    Nos virtutis iter medium dum carpimus, altae

    instant phantasiae nequitiaeque toli,

    quas vincens animus laeta potitur harena

    et peccata procul mersa subacta videt¹⁵.

    Ma è soprattutto quando l’intuizione intellettuale è costretta ad affidare all’aggressione dei termini costrittivi del linguaggio razionale la complessità delle nozioni primordiali che si fa più evidente, e prezioso, il contributo dell’espressione poetica. Per correggere gli effetti riduttivi della sua programmatica logicizzazione e numerificazione di ciò che è vero solo se resta indeterminato e indeterminabile, la ragione filosofica è costretta, per ogni passo che riesce a compiere nel suo accostarsi agli orizzonti metafisici più alti, a richiamare – obbedendo alle prescrizioni della duplice via teologica, affermativa e negativa, insegnata dallo pseudo-Dionigi – una inevitabile correzione in

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