Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'eredità della spada
L'eredità della spada
L'eredità della spada
E-book867 pagine12 ore

L'eredità della spada

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Nei Quattro grandi Regni del continente di Eryon impazza la guerra. Un conflitto sanguinoso, che non risparmia nemmeno i villaggi più sperduti, come Ivennon, dove Lenya Dalen vive con suo figlio Arthur e la piccola Ethel. Quando alcuni guerriglieri invadono la loro dimora, è Arthur, ancora piccolo ma con un sacro fuoco che gli arde dentro, a trarre in salvo sua madre e sua sorella grazie a una misteriosa spada lasciatagli dal defunto padre. Anni dopo, con la pace nel frattempo sopraggiunta, Arthur sarà impegnato a dover trovare il suo posto nel mondo, e le sue avventure si intrecceranno a quelle di maghi, divinatrici, banditi e spadaccine.

L'eredità della spada è un romanzo articolato, scritto con una prosa che fa del dettaglio e della cura descrittiva la sua peculiarità più visibile. Una storia che narra di un mondo d'altri tempi ma raccontando sentimenti, emozioni e umanità che non hanno età.
Al confine tra il fantasy e l'opera di ambientazione storica, è un libro per chi ha voglia di immergersi completamente in un'avventura davvero avvincente.

Dunque, il rito prevedeva che uno dei due piatti si muovesse... il fatto che niente di tutto ciò fosse avvenuto era la dimostrazione che Arthur possedeva la libertà di decidere del proprio destino; ma, anche messo di fronte a possibilità infinite, il desiderio del giovane non era che uno.
“Io voglio che le cose cambino.”
LinguaItaliano
Data di uscita1 set 2015
ISBN9788867931767
L'eredità della spada

Correlato a L'eredità della spada

Ebook correlati

Fantasy per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su L'eredità della spada

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'eredità della spada - Cristina Azzali

    © Edizioni SENSOINVERSO

    Collana SenzaTregua

    www.edizionisensoinverso.it

    ufficiostampa@edizionisensoinverso.it

    Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA)

    ISBN 9788867931767

    1° edizione cartaceo – Luglio 2015

    © 2015 - Copyright | Tutti i diritti riservati

    Sensoinverso - P.I. 02360700393

    http://creoebook.blogspot.com

    Cristina Azzali

    L’EREDITÀ

    DELLA SPADA

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

    Prologo

    Era una notte piuttosto temperata per il mese di Marzo, con la luna ridotta a uno spicchio opaco, stagliato sul limpido cielo; la temperatura si era abbassata di pochi gradi appena rispetto al giorno e non tirava vento. Tuttavia, Lenya Dalen voleva che il camino nella sua casa restasse acceso, quasi che la sua luce rossastra e rassicurante potesse proteggere quelle mura dal buio e dagli oscuri presagi che incombevano all’esterno.

    Ella si chinò, appoggiando il ginocchio destro a terra e sollevando, con una grazia del tutto estranea a quei tempi, l’orlo della veste, per non sgualcirlo. L’altra mano raggiunse l’attizzatoio, che pendeva da un chiodo sull’esterno del caminetto in pietra e cominciò a rimestare le braci ardenti. Un grosso ciocco venne gettato un attimo dopo in quel letto pulsante, dove una lingua di fuoco, dapprima timida, iniziò a lambirlo, innalzandosi sempre più, crepitando e mandando qualche scintilla. La donna nascose il volto con la manica, riparandosi dalla nuova vampata di calore e radunò altre braci intorno al tronco, per alimentare la fiamma. Quando fu certa che il focolare fosse ben vivo, posò l’attizzatoio e si rimise in piedi, lentamente.

    La sua attenzione venne allora richiamata dai vagiti provenienti da una piccola culla posta alla sua destra; si avvicinò, sollevando delicatamente tra le braccia la neonata al suo interno, che agitò le minuscole e paffute mani in direzione della madre, afferrando una ciocca dei suoi lunghi capelli scuri. La donna si sistemò la creaturina sul petto, intiepidito dal calore del fuoco, sostenendola e cullandola dolcemente, mentre intonava una melodia con un filo di voce.

    Ho appena visto l’ombra di un altro uomo a cavallo.

    La voce del ragazzino alla finestra la distrasse, facendole ruotare leggermente la testa in quella direzione.

    Dev’essere un messaggero; non agitarti troppo. E allontanati da quella finestra, ti aiuterà a calmarti.

    Il ragazzino sbuffò e, ignorando il consiglio materno, tornò a controllare la situazione all’esterno.

    In verità, Arthur Dalen aveva molte ragioni per essere inquieto. Persino un giovinetto come lui era consapevole di quanto oscuri fossero quei tempi di guerra e morte, in cui la vita di un uomo poteva mutare da un momento all’altro e quasi mai per il meglio. Molti dei suoi ricordi erano nebulosi: era piuttosto sicuro che la guerra non infuriasse durante la sua infanzia, ma che i fuochi della battaglia fossero divampati non appena il concetto stesso di guerra gli fu comprensibile.

    I quattro grandi regni del Continente di Eryon, spinti da un’insanabile sete di conquista e dalla smania di prevalere, per instaurare il proprio dominio sul territorio più vasto, avevano dato inizio a una violenta campagna di espansione a danno dei piccoli villaggi come quello in cui Arthur viveva. Per quegli insediamenti esistevano soltanto due possibilità: arrendersi o soccombere. Tuttavia, non tutti erano disposti né a piegare i propri animi, né tantomeno a farsi schiacciare; numerosi gruppi armati si erano così creati, ma ben pochi tra questi potevano nutrire qualche speranza di rivaleggiare con i poderosi eserciti dei quattro regni. Le sconfitte erano amare e le perdite frequenti. Soltanto poche settimane prima, un’aspra battaglia era costata la vita al padre di Arthur e a oltre la metà delle forze del più numeroso tra i gruppi, divenuto il simbolo della lotta contro un nemico immensamente potente e chiamato perciò la Resistenza. In seguito a quella grave disfatta, molti villaggi erano stati evacuati e donne, vecchi e bambini trasferiti in terre ritenute più sicure, ma sua madre si era rifiutata di partire; troppi i ricordi che la legavano a quella casa: una casa che aveva costruito insieme al suo sposo, nella quale avevano trascorso anni sereni, dove avevano cresciuto un figlio e dove ora, sola, avrebbe allevato Ethel, la bambina che il padre non aveva mai avuto occasione di vedere.

    Arthur aguzzò la vista, scrutando nella notte buia e minacciosa e scorse un movimento nel viale antistante l’abitazione: qualcuno si stava avvicinando a passo spedito.

    Madre, arriva qualcuno! esclamò, sollevandosi sulle punte dei piedi per vedere meglio.

    Lenya adagiò la piccola Ethel nella culla e restò in piedi, ferma in mezzo alla stanza.

    Arthur disse allontanati subito dalla finestra.

    Di nuovo il ragazzino la ignorò, continuando a puntellarsi con il palmo delle mani al davanzale. Lenya mosse qualche passo, lo sguardo fisso sull’assito del pavimento, cercando di rammentare quale fosse il punto esatto in cui si nascondeva ciò che stava cercando. Uno scricchiolio bastò a farla sussultare; premette col piede sulla tavola del pavimento, prima con la punta, poi con il tallone e il rumore si fece più intenso. Allora, levò lo sguardo sul figlio.

    Ti ho detto di toglierti da quella finestra! ripeté, il tono di voce che non riusciva a mascherare una crescente apprensione.

    Ma io voglio vedere! rispose Arthur, pieno di curiosità.

    La donna deglutì; le apparve chiaro che non sarebbe riuscita a farlo allontanare da lì con le sole parole. Si piegò sul pavimento, cercando con le dita una scanalatura nell’asse che aveva calpestato. Allo stesso tempo, Arthur unì le mani a formare un cerchio e le posizionò nello spazio tra il vetro e i suoi occhi, per impedire alle luci della casa di limitare la sua visuale sull’esterno. Osservò, fino a quando i tratti della figura che avanzava furono riconoscibili.

    Wald! È zio Wald!

    In seguito a quell’esclamazione, Lenya si tirò su di scatto, raggiunse velocemente l’uscio e lo spalancò.

    Wald Dalen apparve nel vano della porta con il braccio ancora alzato e il pugno chiuso, pronto per bussare. Arthur avrebbe desiderato correre ad abbracciarlo, ma il suo sguardo carico di timore e sgomento frenò ogni suo slancio.

    Wald, cosa succede? domandò Lenya. L’uomo abbassò il braccio e annunciò, con voce greve:

    Stanno arrivando.

    Com’è possibile? fece la donna, sgranando gli occhi cerulei per un istante. Non sono stati fermati a Rayden?

    Wald scosse mesto il capo.

    Non sono mai giunti a Rayden; eravamo tutti convinti che i loro piani prevedessero di attaccare la città, ma sembra che non sia così.

    Il silenzio calò su di loro come nevischio, imbiancando e congelando ogni cosa. Senza dire nulla, Arthur osservò il volto di sua madre farsi sempre più pallido.

    Sono stati avvistati al confine Sud circa un’ora fa. continuò Wald. Un gruppo non troppo numeroso, due dozzine al massimo, tutti a cavallo e armati. Saranno al villaggio molto presto, potrebbe essere questione di minuti. Quando l’ho saputo, sono corso qui più in fretta che ho potuto.

    Dove sono i cavalieri della Resistenza? chiese Lenya, con un moto d’entusiasmo.

    Erano diretti a Rayden; abbiamo inviato dei messaggeri subito dopo l’avvistamento. La nostra sola speranza è che li abbiano raggiunti lungo la via.

    Ella abbassò lo sguardo, ogni traccia di fervore svanita dal volto. Wald le si avvicinò.

    Lenya, ascoltami, ti prego. Dovete andarvene finché siete ancora in tempo. Mio fratello non ti avrebbe mai permesso di rimanere, di correre questo rischio!

    Non parlare di lui ora. lo fermò la donna; la sua voce tremava, ma lo sguardo era sorprendentemente calmo e risoluto. Se, come hai detto, questi cavalieri sono così vicini, scappare non servirebbe a nulla. Come pensi che potrei mai riuscire a fuggire portando una bambina ancora in fasce? No... è mio dovere restare qui e fare ciò che posso per proteggere questa casa.

    Wald ascoltò quelle parole come si ascolta una sentenza di morte; si allontanò di qualche passo dall’uscio, una mano poggiata sul fianco, l’altra premuta contro la bocca, quasi a soffocare una risposta dettata dall’istinto.

    Almeno hai pensato a un luogo dove nascondere i bambini? chiese, in quello che suonò simile a un lamento. Lenya annuì;

    Non preoccuparti troppo per noi; cercheremo di difenderci fino all’arrivo della Resistenza.

    E se non dovessero arrivare in tempo?

    Ella dischiuse le labbra per rispondere, ma dalla sua gola non uscì alcun suono, solo un lieve sibilo spezzato. La realtà era più che evidente e lasciava ben poco spazio alla speranza: senza l’intervento della cavalleria della Resistenza, non avrebbero avuto alcuna possibilità di salvezza. Lenya lo sapeva, così come Wald; persino Arthur poteva intuire come la situazione stesse precipitando ogni secondo di più. In quell’istante, il desiderio che suo padre fosse lì divenne ardente; egli non avrebbe avuto un solo attimo di esitazione e anche sua madre si sarebbe sentita più forte al suo fianco. Ma Thomas Dalen era morto e, per quanto fosse duro ammetterlo, la sua scomparsa rappresentava il vero motivo per il quale quella casa non era mai stata abbandonata.

    All’improvviso, dei rumori concitati in lontananza interruppero bruscamente il filo dei pensieri del ragazzo. Subito dopo, la campana del villaggio venne liberata e cominciò a suonare, dando l’allarme. Gli uomini rimasti a difesa delle loro terre uscirono in fretta dalle dimore nelle campagne, diretti verso le mura del villaggio. Uno sparuto corteo sfilò a poca distanza dalla casa di Arthur; nessuno di coloro che riuscì a scorgere indossava elmo o armatura, qualcuno era armato di pugnali o coltellacci, ma i più portavano forconi, martelli o altri strumenti da lavoro. Lo stesso Wald non possedeva altro se non un’accetta arrugginita; era un semplice falegname. Egli si voltò, l’orecchio richiamato dai rintocchi frenetici della campana; uno degli uomini con i forconi lo riconobbe e gridò:

    Sbrigati, Wald! Quei cani maledetti sono già al villaggio!

    Questi gli fece segno di attendere, alzando un braccio, poi si rivolse un’ultima volta a Lenya, guardandola dritto negli occhi.

    Noi cercheremo di tenerli impegnati il più a lungo possibile. Tu nascondi i bambini e, se le cose dovessero volgere al peggio, scappate! Non è tempo per l’eroismo, questo, solo per il buonsenso!

    Lenya annuì debolmente, mentre i suoi lineamenti cominciavano a fremere e a contrarsi. Con un movimento fulmineo, Arthur superò sua madre, che non si era mai mossa dall’entrata, e uscì, chiamando a gran voce lo zio.

    Zio Wald! Zio Wald, aspetta!

    Mi raccomando, Arthur, fai tutto quello che dice tua madre. disse l’uomo, voltandosi appena senza smettere di allontanarsi.

    Arthur rimase fermo a guardarlo, fino a che la madre non lo afferrò per un braccio, facendolo rientrare e chiudendo la porta dietro di sé.

    Sbarra le finestre, presto! ordinò.

    Il ragazzo si affrettò a obbedire, mentre Lenya sistemava una pesante trave di legno davanti alla porta, bloccandola con un grosso lucchetto. Poi camminò a passo svelto verso la culla, prese in braccio la piccola e le posò un delicato bacio sulla fronte.

    Arthur, vieni qui. chiamò.

    Il ragazzino terminò di chiudere anche l’ultima finestra e corse dalla madre.

    Devi prendere tua sorella e andare a nasconderti nella mia stanza da letto. spiegò. Se senti avvicinarsi qualcuno o hai timore che la casa non sia più un luogo sicuro, devi uscire dalla finestra e correre più veloce che puoi verso il bosco. Voglio che non ti fermi mai, hai capito? Vedrai che troverai qualcuno a cui chiedere aiuto. Sai distinguere gli amici dai nemici, vero? Arthur annuì, deciso. Bravo. Dovrai occuparti anche di tua sorella; ecco, prendila. disse, posando delicatamente la bambina tra le sue braccia. Arthur cercò di reggerla nel migliore dei modi.

    Fa’ attenzione alla testa! esclamò Lenya, tendendo istintivamente le braccia per aiutarlo; ma il figlio era già riuscito a sistemare la neonata, appoggiandola alla sua spalla e sostenendole la testa con una mano.

    Lo so, madre, state tranquilla.

    La donna sorrise, orgogliosa; provò lo slancio di abbracciarlo e tenerlo stretto a sé, ma il tempo era contro di loro.

    Ora andate disse e ricorda, Arthur: se il tuo istinto ti dice che il pericolo è vicino, non pensare e scappa.

    Arthur annuì ancora, correndo poi verso le stanze più interne della casa. Lenya, invece, tornò in fretta all’asse del pavimento che era intenta a esaminare prima dell’arrivo di Wald. Questa volta impiegò pochi secondi a trovare la fessura, vi infilò le dita e sollevò la tavola senza difficoltà. Frugò in quell’incavo e ne estrasse un lungo pugnale. Rimise il legno al proprio posto, si rialzò in piedi e attese.

    Raggiunta la stanza di sua madre, Arthur si appoggiò alla parete a lato del letto e si lasciò scivolare fino al pavimento. Da quella posizione godeva di un’ottima visuale sulla porta della camera e, allo stesso tempo, chiunque fosse entrato non avrebbe potuto accorgersi della sua presenza, per via del letto che la nascondeva. Non appena furono fermi, Ethel iniziò ad agitarsi, scuotendo braccia e gambe, nel tentativo di divincolarsi dalla presa del fratello, che si fece pertanto ancora più forte. Cercò di calmarla dandole dei leggeri colpetti sulla schiena, senza mai distogliere lo sguardo dalla porta.

    In lontananza, poteva udire distintamente il fragore di una battaglia; le grida concitate, il clangore del metallo delle spade che venivano a scontrarsi con gli attrezzi dei contadini, il nitrito di un cavallo lanciato al galoppo. Inquietanti suoni che, constatò, col passare dei minuti erano sempre più vicini al suo orecchio. Ethel ne era terrorizzata; i suoi lamenti si trasformarono presto in un pianto acuto e disperato.

    Smettila, Ethel, devi fare silenzio! implorò Arthur, ma fu del tutto inutile.

    Pensò che avrebbe fatto meglio a metterla sdraiata, così allungò una mano ad afferrare un angolo del guanciale di sua madre, lo tirò giù sul pavimento e vi adagiò sopra la neonata con delicatezza, carezzandole la pancia per qualche istante. Ethel continuò a piangere, ma senza più emettere strilli e il suo viso perse un poco del rossore accumulato. Arthur, allora, si lasciò andare, poggiando il capo alla parete e sospirando per quel minimo sollievo. Fu proprio da quella posizione che si accorse che sotto al letto era nascosto qualcosa. Si chiese cosa potesse essere quella sagoma scura, mentre con un colpo del piede cercava di farla muovere, riuscendo a spostarla solo di poco. Spinto dalla curiosità, infilò allora entrambe le mani sotto al letto, tirando a sé a fatica quella che scoprì essere una pesante teca di legno, lunga e stretta. Essa recava delle finissime intagliature e su tutte spiccavano il profilo di un maestoso cavallo e due iniziali: T. D.

    Gli parve di riconoscere, in quei leggeri colpi di scalpello, la mano dello zio. Esaminò l’oggetto ancora per qualche secondo, prima di sollevarne il coperchio e scoprirne il contenuto.

    Avvolto in un panno leggero, giaceva un tesoro che Arthur credeva perduto e che riconobbe senza indugi: la spada di suo padre. L’arma era assai diversa da come la ricordava: la lama aveva perduto la sua affilatura, l’elsa era sporca di terra, fango e forse anche sangue rappreso, ma il danno più ingente riguardava una parte della guardia crociata che era stata tranciata di netto. Quelle erano le condizioni in cui la spada era tornata dal campo di battaglia, adagiata sul corpo inerte di suo padre, l’elsa posta tra le mani fredde e livide. Aveva avuto pochi istanti per catturare quell’immagine, prima che la madre gli facesse nascondere il volto nell’incavo morbido del suo fianco, ma ricordava perfettamente quel particolare, poiché l’aveva profondamente colpito. Si era domandato spesso chi fosse stato a mettere la spada tra le mani del cavaliere, che non poteva più stringerla: forse un amico, o un compagno che aveva combattuto accanto a lui sino alla fine? La sua mente, ancora pura, preferiva, anzi, aveva bisogno di credere che quello fosse stato un gesto compiuto da qualcuno che aveva voluto bene a suo padre, piuttosto che da un estraneo.

    Rimirò a lungo la spada che credeva sepolta insieme al padre, non avendo idea che sua madre, invece, avesse deciso di conservarla, ma, all’improvviso, venne distratto da un rumore che gli fece ruotare la testa di scatto.

    La porta della sua casa era appena stata sfondata.

    Il ragazzo balzò istintivamente in piedi. Quello era il segnale che il pericolo era vicino, anzi, vicinissimo; avrebbe dovuto prendere in braccio la sorella e scappare con tutta la rapidità che le sue gambe gli avrebbero consentito, proprio come sua madre aveva ordinato. Ma ella aveva aggiunto anche un’altra frase: segui il tuo istinto, aveva detto e, secondo l’istinto di Arthur, la fuga non era una soluzione.

    Lenya non seppe ricordare quanto tempo fosse trascorso dal momento in cui aveva trovato il pugnale, a quello in cui sentì il rumore cadenzato degli zoccoli di un cavallo smorzarsi proprio davanti alla sua casa. Capì, dalla frequenza dei passi che seguirono, che il cavaliere era solo; strinse le dita con forza intorno alla corta elsa del pugnale, mentre una goccia di sudore gelato le scivolava dalla tempia destra, giù fin sotto al mento, ragionando sulle sue possibilità di vincere un nemico solitario. I passi si fermarono in corrispondenza della porta, dove il cavaliere indugiò. Le assi di legno si piegarono impercettibilmente e scricchiolarono, sotto la pressione di una spinta. Poi, più nulla e, per un fugace istante, Lenya Dalen nutrì la timida quanto ingenua speranza che il nemico potesse non essere interessato alla sua casa.

    Fu costretta a ricredersi.

    Il colpo seguente la fece sobbalzare, riecheggiando in tutta la stanza; seguirono un altro e un altro ancora, fino a quello che mandò in pezzi il lucchetto e fece precipitare l’asse di legno con un tonfo sordo. Bastò un ultimo calcio ben assestato per scardinare la porta e farla crollare.

    Il cavaliere dal volto scuro che apparve sulla soglia portava una spada legata alla cinta e non indossava altro se non una semplice cotta di maglia, sopra a una veste leggera e stivali in cuoio. Di certo il nemico non era equipaggiato per andare incontro a una forte resistenza armata, o, almeno, quello fu il primo pensiero che affiorò dall’oceano in tempesta che era la mente di Lenya, mentre fissava l’uomo, immobile dinanzi a lei; l’espressione del suo volto tradiva un certo stupore.

    Non mi aspettavo di trovare ancora donne qui. disse, sfilandosi i guanti, un dito alla volta. Devo ammettere che è una piacevole sorpresa.

    Sulle sue labbra andò a formarsi un ghigno che la fece rabbrividire, ma cercò, come meglio poté, di mascherare la tensione e mantenere la lucidità. Nell’istante in cui il cavaliere mosse il primo passo verso di lei, tentò di sferrare un fendente, ma quello che aveva di fronte era un abile guerriero. Con un gesto fulmineo, estrasse la spada dal fodero e smorzò l’attacco sul nascere. Il pugnale venne scalzato dalle mani della donna e finì così a terra.

    È pericoloso giocare con armi taglienti. disse il cavaliere, facendosi beffe di lei. Qualcuno finisce sempre per farsi male.

    Lenya non mosse un muscolo, poiché l’uomo la teneva sotto tiro e un’altra mossa avventata le sarebbe stata fatale, ora che era del tutto disarmata. Il suo respiro si fece più pesante, mentre rifletteva sul da farsi: non poteva voltarsi e fuggire, doveva tenere il nemico lontano dalle stanze interne, per dare ai suoi figli il tempo necessario per scappare. Quello era il suo scopo. Uno sguardo furtivo verso il basso le bastò per capire cosa dovesse fare. Chiamando a raccolta tutto il coraggio e la destrezza che sperava di possedere, si gettò a terra, il braccio teso a impugnare l’attizzatoio, rimasto a contatto con le fiamme del camino fino a quel momento. L’uomo, colto alla sprovvista, levò la spada per colpirla, ma non fu abbastanza rapido. Lenya si girò sulla schiena e fece roteare la sua arma di fortuna, ferendolo a una mano, facendogli perdere immediatamente la presa sulla spada. Mentre l’uomo cadeva in ginocchio, tenendosi con forza l’arto ustionato, ella approfittò della sua debolezza per affondare ancora l’attizzatoio, stavolta premendone la punta incandescente sulla gola dell’avversario, che emise un lamento quasi disumano. Lenya cercò di ignorare il senso di nausea che la pervase quando nell’aria si sprigionò un pungente lezzo di carne bruciata; si rimise in piedi lesta, ma trasalì nel vedere un altro cavaliere, fermo davanti alla sua porta.

    Allora, che succede qui? tuonò, rivolto al guerriero, probabilmente un subalterno, dal quale non ricevette altra risposta se non un rantolo raggelante. Lo sguardo, ora inorridito, del cavaliere si spostò dal compagno agonizzante a Lenya e, senza aggiungere una parola, avanzò verso di lei, la spada sguainata. La donna tentò di difendersi, ma il primo fendente la colpì al braccio sinistro, facendole cadere di mano l’attizzatoio. Un rivolo di sangue caldo le imbrattò la manica della veste, mentre si spostava velocemente per schivare un altro attacco. Non aveva la minima possibilità contro quel cavaliere, ma la sua missione consisteva nel guadagnare tempo, non nel sopravvivere. Per tentare di recuperare il pugnale, caduto a pochi passi da lei, commise l’imprudenza di voltare le spalle al nemico e questi ne approfittò, afferrandola per i capelli; la strattonò con violenza, strappandole un urlo rabbioso. Lottò per divincolarsi, ma egli non esitò a colpirla alla nuca con l’elsa della spada e si ritrovò bocconi sul pavimento, le membra squassate e i nervi percorsi da mille fremiti. Rimase in quella posizione, senza reagire: doveva soltanto allungare una mano. Quando il cavaliere si protese in avanti per afferrarla nuovamente, Lenya si voltò rapida e gli conficcò il pugnale nell’avambraccio, appena sopra il polso. Con un grido, egli si ritrasse, estraendo subito l’arma insanguinata; per un attimo, parve incerto se continuare il combattimento, limitandosi a fissare il suo sguardo di fuoco su quella vittima incredibilmente tenace; ma quell’espressione svanì l’istante successivo.

    Maledetta! inveì, sferrandole un calcio nello stomaco che le mozzò il respiro. Lenya si premette entrambe le mani sul ventre, richiamando le ginocchia al petto, mentre l’uomo restava a guardarla strisciare sul pavimento, nell’ultimo, disperato tentativo di salvezza. Le percosse non si fermarono e il dolore si fece ancora più intenso a ogni nuovo colpo, fino a impedirle ogni movimento. Rimase lì distesa, ansimando e piangendo, la spada nemica puntata alla gola.

    Chiuse gli occhi, certa che la morte fosse prossima.

    Ma la morte non arrivò; non per lei.

    Lenya aprì gli occhi un istante dopo e ciò che vide la lasciò senza fiato. Arthur, suo figlio, era accorso in suo aiuto; brandendo la spada del padre, si era scagliato contro l’uomo che la minacciava, trapassando da parte a parte la sua debole corazza. Lo sguardo di Lenya passò dal volto improvvisamente pallido del cavaliere, a quello teso e contratto del figlio, nei cui occhi lesse chiaramente una furia quasi animalesca. Le sue mani, coperte dal sangue colato lungo la lama, non sembravano intenzionate ad abbandonare la presa.

    Arthur... Arthur! chiamò, con voce strozzata dal pianto e dal dolore, ma il ragazzo sembrò non udirla nemmeno.

    Con un calcio spinse via il corpo senza vita del cavaliere, liberando così la spada. Puntò lo sguardo sul secondo uomo che rantolava ancora, disteso a faccia in giù sul pavimento e avanzò verso di lui, con la lentezza e il superbo controllo di una fiera.

    Lenya soffocò un grido di orrore, mentre suo figlio conficcava ripetutamente la lama nelle carni dell’uomo, ancora e ancora, urlando e dando libero sfogo alla propria ira. Non fosse stato per quelle urla agghiaccianti, ella avrebbe potuto udire, in lontananza, il possente squillo del corno della cavalleria della Resistenza.

    DIECI ANNI DOPO

    Capitolo uno

    Arthur Dalen fissava quelle braci da ore. Per tutta la mattinata non aveva fatto altro che osservare Mastro Ferd, il fabbro e armaiolo della città, mentre era intento a svolgere le sue mansioni quotidiane: si trattava perlopiù della realizzazione di semplici utensili da lavoro, come falci, badili, ferri di cavallo o di oggetti di uso domestico, dalle pentole ai secchi. Ferd accompagnava ognuno di quei procedimenti con dettagliate spiegazioni rivolte al suo giovane apprendista, ma questi non vi aveva prestato attenzione una sola volta, limitandosi a seguire con lo sguardo i pezzi di metallo grezzo entrare nella fornace e uscirne poco dopo, trasformati in materia incandescente, pronta per essere lavorata con lo strumento adatto. Il fabbro esperto è colui che sa riconoscere l’utilità specifica di ciascun attrezzo e sfruttarla al meglio; Arthur avrebbe appreso questo fondamentale principio e molto altro, se solo avesse ascoltato, ma il suo interesse si risvegliò non appena Ferd iniziò a dedicarsi a un nuovo progetto.

    Costruirete una spada, maestro? chiese, alzandosi dallo sgabello sul quale era rimasto appollaiato fino a quel momento.

    Ferd sollevò la testa dal secchio contenente i pezzi di ferro frantumati e ridotti per la lavorazione e vide il suo giovane apprendista muovere qualche passo trepidante verso la fucina.

    Il paiolo non è riuscito a farti smuovere da quell’angolo, ma la spada sembra riscuotere maggiore successo. ridacchiò, mentre Arthur gli si fermava di fronte.

    Sì, il vostro lavoro è sicuramente stimolante, ma credo di essere più interessato a questo genere di produzione, in particolare.

    Ferd scosse la testa, selezionando i pezzi migliori e lasciandoli cadere nella marmitta per la fusione.

    Chissà per quale motivo voi ragazzi siete tanto attratti dalle armi; dalle spade, soprattutto. Per curiosità, suppongo; se ne aveste impugnata una, anche solo una volta, in un combattimento reale, cambiereste subito idea.

    Cosa vi fa pensare che io non abbia mai impugnato una spada? ribatté Arthur prontamente e il fabbro, rimasto dapprima palesemente spiazzato, prese a ridacchiare già dopo qualche istante, liquidando la provocazione del ragazzo come un tentativo infantile di mostrare spavalderia.

    Nulla, nulla... riflettevo e basta. Fatto sta che siamo in tempo di pace e nessuno dovrebbe mettere mano alla spada in tempo di pace.

    Arthur incrociò le braccia e, per nulla stupito di non essere stato creduto, rivolse al maestro un sorriso inquisitore.

    Eppure qualcuno le ordina ancora.

    Ferd spinse nella fornace il recipiente per la fusione, poi si voltò, agitando le sue tenaglie in direzione del ragazzo.

    Non spetta a me fare domande sulle richieste dei clienti. Ricorda bene: come fabbro, devi prima di ogni cosa ascoltare e fornire un prodotto di qualità. Il tuo compito termina qui; non sei pagato per fare domande. Egli posò le tenaglie sul piano di lavoro e proseguì: La qualità, soprattutto, è importante; modestamente, le mie spade sono le migliori di tutto il Continente.

    Arthur annuì con il capo alcune volte.

    Ho sentito dire che la provincia di Thorne è molto famosa per la produzione di armi. Si dice che utilizzino i metalli più pregiati, estratti appositamente dalle vicine montagne.

    Lo sguardo pieno di sicurezza di Ferd si trasformò in un’espressione di disappunto.

    Così dicono? Bene, allora significa che le mie spade sono le migliori che si producano a Sud di Thornvale! sbuffò, estraendo dall’altoforno il paiolo rovente e facendo colare il metallo fuso dentro a uno stampo, che conferì alla materia prima una sommaria forma lunga e stretta.

    Fosse per me continuò me ne starei tutto il giorno a decorare armature con rifiniture d’oro, o a incastonare pietre preziose nei calici dei grandi signori; ma, purtroppo, ci sono casi in cui un fabbro è costretto a rinunciare a esprimere la propria arte al meglio e concentrarsi unicamente sugli affari. Non si può vivere di sola gloria. concluse, impugnando il martello e iniziando a battere il ferro incandescente, in modo ancora approssimativo.

    Perdonate, maestro intervenne Arthur dite che non amate costruire spade, ma è forse diverso con le armature? Anch’esse vengono impiegate in guerra.

    Ferd sospirò, lasciando cadere il pesante martello sul piano di lavoro e fissò per qualche istante il volto di Arthur, che rimase impassibile.

    Lo sai, tu parli molto per un ragazzo della tua età. I miei apprendisti di solito si limitano ad annuire in silenzio, ma tu sei curioso come un maledetto gatto. Stai bene attento, ragazzo: troppe domande possono mettere nei guai.

    Dipende dalle domande... per esempio, quale età credete che abbia?

    Ferd si strinse nelle spalle, infastidito da quella conversazione.

    Non saprei... a guardarti direi diciassette, diciotto anni.

    Ne ho ventuno. Arthur si lasciò sfuggire una risatina, non appena colse l’espressione stupita del fabbro. Mio zio non ve l’aveva detto?

    Ferd negò con il capo. Nonostante i suoi tentativi di mostrarsi impassibile di fronte a quella notizia, Arthur sapeva bene quale pensiero stava agitandosi nella mente dell’artigiano.

    Non lo dice mai a nessuno dei bottegai, perché teme che mi considerino troppo vecchio per l’apprendistato. concluse, con tono indifferente.

    L’uomo non rispose a quell’affermazione, limitandosi a ridacchiare nella sua maniera rumorosa.

    Hai proprio un bel carattere, ragazzo! A ogni modo, quando dico che preferirei occuparmi solo di armature, mi riferisco al tipo di lavoro che richiedono. Le rifiniture, ragazzo mio. Il vero valore di un fabbro, o meglio, di un qualsiasi artigiano, si misura dalle rifiniture, dalla cura che mette nei particolari. Sono il suo tratto distintivo. Dopotutto, chiunque potrebbe riuscire a trasformare il metallo in un secchio per il bucato. Persino tu!

    Lo prendo come un complimento, anche se penso proprio che non lo sia.

    Ferd strinse il pezzo di ferro grezzo con le tenaglie e lo cacciò nella fornace.

    Non è poi così male realizzare spade, tutto sommato. L’aspetto più interessante della lavorazione è che rappresenta una vera e propria sfida per il fabbro; il procedimento è altamente complesso e presenta molte incognite. Inoltre, è difficile realizzare tutto da soli, c’è sempre bisogno di un valido aiutante.

    L’uomo lanciò un’occhiata furtiva all’apprendista, per poi tornare a controllare la fornace. Arthur si guardò intorno, senza un apparente motivo, dal momento che, oltre a Ferd, era il solo nella fucina.

    State dicendo che vi serve il mio aiuto per la spada?

    Ci sei arrivato finalmente! Forse non sei così sveglio come credevo. scherzò, indicando poi al ragazzo uno strano sacco di pelle, posto a lato della fornace. Quello è il mantice, ora ti spiegherò come utilizzarlo.

    Arthur aveva notato lo strumento in precedenza e si era domandato più volte a cosa potesse servire. Si avvicinò alla bizzarra attrezzatura: un sacco in pelle animale, cucita intorno a una canna indirizzata verso l’interno dell’altoforno, con una valvola sull’altra estremità, che poteva essere aperta o chiusa all’occorrenza.

    Il mantice è uno strumento essenziale spiegò Ferd senza di esso la fornace non raggiungerebbe mai il punto di calore necessario per lavorare bene.

    Dunque è l’aria che alimenta le fiamme? chiese Arthur, premendo leggermente il sacco gonfio.

    Proprio così, ma non otterrai niente se lo accarezzi a quel modo! Premi con forza!

    Arthur annuì, schiacciando il mantice con entrambe le mani, fino a svuotarlo completamente. L’aria turbinò, facendo vibrare la canna ed entrando nel vano della fornace; a quel punto, le fiamme si alzarono e crepitarono, lambendo da più parti la spada arroventata. Ferd cominciò a far ruotare il ferro, in modo da fargli assumere una prima curvatura.

    Ottimo! disse, rivolto all’assistente. Ora apri la valvola e ripeti quest’operazione un altro paio di volte.

    Arthur obbedì; non appena la valvola fu girata, il sacco cominciò a gonfiarsi nuovamente, tendendo la pelle. Lavorarono in silenzio per alcuni minuti, accompagnati dall’alternanza del fruscio dell’aria immessa nella fornace e del crepitio delle fiamme che si levavano sempre più alte, fino a toccare la sommità della cappa del camino. Poi, Ferd lasciò le tenaglie e chiamò Arthur a sé.

    Prendile tu, ma attento a non bruciare nulla!

    Il ragazzo lasciò la sua postazione e, prestando la massima attenzione, impugnò i manici delle tenaglie annerite dal fuoco e, lentamente, estrasse la lama incandescente dal suo letto di braci. Seguendo le istruzioni del fabbro, la spostò fin sopra una grande incudine di acciaio; al contatto con la superficie, il ferro sfrigolò, sprigionando un’ondata di calore. Ferd si infilò nuovamente i consunti guanti da lavoro e riprese il martello da dove l’aveva lasciato, dando istruzioni all’aiutante di tenere ben salde le tenaglie; dopodiché levò alto il martello e calò il primo possente colpo, dritto nel mezzo della spada. Arthur aumentò la pressione sulle tenaglie e dovette concentrarsi per non sobbalzare ad ogni nuovo, vigoroso impatto, poiché le vibrazioni si trasmettevano dalla spada direttamente alle sue braccia e da lì alla testa. In quel momento si rese conto di quale straordinaria forza fisica e resistenza richiedesse il mestiere del fabbro e si scoprì, se possibile, ancor più convinto che non lo sarebbe mai diventato.

    Ferd si fermò, dopo aver stabilito che, per il momento, il metallo era stato appiattito a sufficienza. Prese un profondo respiro, mentre grosse gocce di sudore imperlavano il suo viso accaldato.

    Tieni. disse, porgendo al giovane il martello. Vediamo quanta forza hai in quelle braccia!

    Maestro e apprendista si scambiarono così di posto; Arthur si passò la lingua sul labbro superiore, poi impugnò il martello, imitando i movimenti di Ferd e lo fece piombare con tutta la sua potenza sulla lama, producendo un tonfo sordo, seguito da un fiotto di scintille che sprizzarono in tutte le direzioni, alte fin quasi a raggiungere i volti dei due uomini. Lasciò cadere il martello come se scottasse e si ritrasse, proteggendosi il viso con un braccio. Anche Ferd indietreggiò, inveendo contro il suo apprendista.

    Dannazione, Arthur! Che cosa ti salta in mente? Vuoi ustionarti la faccia? O magari dare alle fiamme tutta la mia fucina?!

    Chiedo perdono, Mastro Ferd, ma voi mi avevate detto di usare tutta la mia forza! si scusò il ragazzo, mentre si passava le mani sul viso, che gli sembrava avvolto dalle fiamme.

    Ma non potevo aspettarmi un colpo così potente da te! Sei un incosciente, ragazzo, devi imparare a controllarti!

    Vi chiedo di nuovo scusa, maestro. ripeté Arthur, chinando il capo. Spero di non aver rovinato la spada o i vostri strumenti.

    No, non li hai rovinati, ma adesso via di qui. Finirò da solo. rispose Ferd, scansando il ragazzo da dietro l’incudine; Arthur rimase immobile accanto al maestro, un’espressione delusa sul volto.

    Ma avevate detto che vi occorreva il mio aiuto per la spada.

    No rispose secco l’uomo avevo detto che mi serviva un valido aiutante, non uno maldestro e irresponsabile!

    Arthur non disse nulla; si limitò a voltarsi e ritornare a sedersi sullo sgabello nel suo angolo, dove si prese la testa tra le mani e osservò il fabbro proseguire il lavoro. Ferd rimise la lama parzialmente indurita nella fornace, ventilando le braci con l’aiuto del mantice. Arthur ammirava la precisione e la destrezza di ogni suo gesto, sentendosene però completamente estraneo e comprese quanto duro lavoro e quanta pratica fossero stati necessari per giungere a un così elevato livello di qualità e la segreta arte che si celava in ogni oggetto finito. Più il tempo passava, più si sentiva fuori posto; sensazione, quella, non certo nuova per lui. Pensò che l’artigiano non si sarebbe dispiaciuto nel vederlo andar via, così si alzò e si diresse verso l’uscita.

    Ferd tirò fuori la lama color rosso fuoco e la tuffò rapidamente in un barile colmo d’acqua salata. Anche attraverso il denso vapore che si sprigionò, riuscì a notare il ragazzo che si allontanava.

    Dove credi di andare? Non hai ancora finito per oggi! gridò.

    Arthur si voltò al richiamo e balbettò una replica.

    Credevo che la mia presenza non fosse più necessaria.

    Andiamo, ragazzo, tutti possono commettere un errore. continuò Ferd, posando la lama appena raffreddata sul piano di lavoro. Spero solo che alla prossima occasione farai più attenzione. Ora avvicinati.

    Arthur tornò sui propri passi di malavoglia, fermandosi di fronte all’incudine; Ferd si protese in avanti verso di lui e continuò:

    Prima di farti tornare a lavorare, ho bisogno di sapere alcune cose da te: allora, vuoi forse causare un incendio e distruggere tutta Rayden?

    Il ragazzo rispose brevemente, senza staccare gli occhi dal suolo:

    No, signore.

    Vuoi forse rovinare la mia reputazione per sempre?

    No, signore.

    Vuoi forse bruciarti la faccia e restare sfigurato per il resto della vita? Sarebbe una grave perdita per le ragazze della città, non credi?

    Se lo dite voi...

    Bene, allora prendi questi, ci sono un paio di cavalli da ferrare. Ferd passò al ragazzo i quattro pezzi che aveva realizzato in precedenza. Dovresti riuscire a non combinare guai, almeno stavolta!

    Arthur mugugnò una risposta priva di ogni entusiasmo e si diresse verso la parte della fucina adibita a stalla, ove erano ospitati i cavalli di due clienti: un pezzato bianco e grigio e un bellissimo baio scuro brillante, dalla lunga criniera. Si fermò, indeciso, al cospetto dei due animali.

    Mi avete dato soltanto quattro ferri, quale cavallo prendo?

    Comincia dal pezzato, l’altro va ferrato a caldo. spiegò il fabbro, ricominciando a fondere frammenti di materiale grezzo nella fornace.

    E la spada? domandò Arthur.

    La finirò più tardi. Ora zitto e al lavoro!

    Il giovane sbuffò, facendo uscire il cavallo pezzato dal recinto e legando la sua cavezza alla rastrelliera. Preso un basso sgabello, si sedette di fianco all’animale e, in un tempo decisamente breve, completò i lavori di rimozione del ferro usurato, di pulizia dello zoccolo e rifinitura dell’unghia e, infine, di posizionamento del nuovo ferro. Si spostò poi sulla zampa anteriore, pronto a ripetere l’operazione daccapo. Oltre che rapida, la sua mano era anche altrettanto precisa e questo era il frutto di una lunga esperienza. Arthur amava occuparsi dei cavalli. Fin da piccolo, dopo la morte del padre, aveva preso l’abitudine di curare il suo destriero ed era ben presto diventato un abile cavallerizzo. Molti a Ivennon, il suo villaggio natale, l’avevano per molti anni tenuto in considerazione come l’esperto a cui rivolgersi per la ferratura o anche l’addestramento dei loro cavalli.

    Il giovane, passato alle zampe anteriori, era così concentrato nel suo compito, che si accorse solo dopo qualche minuto che Ferd aveva portato fuori il baio e vi si stava dedicando.

    Avete detto che quel cavallo deve essere ferrato a caldo? chiese.

    rispose l’uomo alzando il capo mi è stato appositamente richiesto dal cliente. La ferratura a caldo permette di modificare il ferro direttamente sullo zoccolo, così da ottenere un’aderenza praticamente perfetta. È come cucirgli una scarpa su misura!

    Deve essere un cliente piuttosto esigente.

    Già. Di certo uno che non bada a spese, il che è un bene per noi. replicò Ferd, ridacchiando.

    Non ho mai eseguito una ferratura a caldo. disse il ragazzo, pensando ad alta voce.

    Vorresti provare? propose Ferd, ultimando il lavoro e alzandosi per cedergli il posto.

    Dite davvero?

    Sì, ma cerca di fare attenzione, è un cavallo importante.

    Ferd tornò alla fornace e prese con le tenaglie un ferro ancora piuttosto caldo. Nel frattempo, Arthur si spostò al fianco del baio, sollevò la zampa posteriore destra, estrasse velocemente i vecchi chiodi e il ferro e sistemò lo zoccolo e l’unghia, come aveva fatto con il pezzato. Ferd lo raggiunse portando il ferro arroventato. Tutto ciò che doveva fare, spiegò, era poggiarlo per qualche secondo sullo zoccolo, per accertarsi che la misura fosse giusta; in caso contrario, avrebbe provveduto immediatamente a modificarlo. Arthur prese le tenaglie e, mentre le avvicinava allo zoccolo pulito e rifinito, si accorse che la sua mano era percorsa da un leggero tremito, così si concentrò ancor di più per scacciarlo.

    Ricorda di tenerlo fermo solo pochi istanti, altrimenti il cavallo si infastidirà!

    Bastò il tono improvviso e perentorio della voce di Ferd per deviare la traiettoria della mano incerta di Arthur e far finire il ferro caldo dritto contro il garretto del possente animale, che, lanciando un alto nitrito che risuonò nelle orecchie dei due uomini, si divincolò con tale foga da sciogliere il nodo fatto alla cavezza e per poco non divelse l’intera rastrelliera; impennandosi, partì scavalcando la recinzione della stalla e sparì dalla vista al galoppo.

    Ferd e Arthur rimasero per qualche secondo immobili, inermi spettatori di quella scena, poi il fabbro scagliò a terra il martello che teneva in mano e si lanciò contro il ragazzo, rifilandogli uno spintone che lo fece indietreggiare di qualche passo.

    Tu, razza di idiota! ringhiò. Ti avevo detto di fare attenzione!

    È stata colpa vostra! Mi avete distratto! replicò Arthur, con la stessa foga.

    Che cosa? Io ti avrei distratto?! Abbi almeno il coraggio di assumerti le tue responsabilità! incalzò Ferd, che corse fino alla porta, raccogliendo da terra una tavola di legno spezzata dalla furia dell’animale. Dannazione, quel cavallo nemmeno si vede più!

    Ci penso io disse Arthur, passandogli accanto e correndo fuori dalla fucina lo riporterò indietro.

    Ferd strinse con forza il legno tra le mani, quasi volesse frantumarlo, poi lo gettò a terra.

    Sarà meglio per te!

    La fucina di Ferd era situata in una zona periferica di Rayden, nel distretto che riuniva la maggior parte dei laboratori artigiani. Oltrepassatolo, si giungeva a un quartiere popolare, abitato da famiglie di modesta condizione e dagli artigiani stessi, per trovarsi poi nel vitale centro cittadino. Arthur sperava di riuscire a fermare la corsa sfrenata del cavallo prima che raggiungesse il centro, ma sapeva che non sarebbe stata un’impresa semplice. Correva con tutta la rapidità che le sue gambe gli consentivano, sollevando a ogni passo nuvole di polvere dalla strada battuta. Gli artigiani e apprendisti affacciatisi all’uscio delle botteghe confermarono che lo scatenato animale aveva imboccato quella via e assistettero con espressione sempre più attonita al passaggio del giovane inseguitore, che non impiegò molto a entrare nel quartiere abitato, ma senza scorgere traccia della bestia; si domandò che razza di cavallo potesse essere per correre con tale velocità, certamente non un semplice animale da lavoro. Alcuni bambini uscirono dalle case e iniziarono a seguire il ragazzo, eccitati dalla bizzarra situazione e del tutto inconsapevoli di quanto potenzialmente rischiosa potesse essere. Tra non molto, pensò Arthur, avrebbe cominciato a udire le grida concitate della gente che affollava il centro e non sbagliava.

    Il primo fu l’urlo di una donna, la quale, ritraendosi dal mezzo della strada per non essere travolta, aveva fatto cadere un cesto colmo di uova; Arthur le passò accanto quel tanto che bastava per notare l’espressione di terrore dipinta sul suo volto. Cercò di correre ancora più velocemente, respirando in maniera affannosa e finalmente riuscì a intravedere l’animale dritto davanti a sé. Al suo passaggio, la gente si spostava freneticamente ai lati della strada; le madri spingevano i figli, gli uomini le donne, in quella che ad Arthur parve una situazione talmente fuori controllo da sembrare quasi comica. Il cavallo continuò imperterrito il suo percorso, distruggendo alcune bancarelle e inondando la via di frutta e verdure. Alla fine del lungo viale del mercato rionale, si apriva una grande piazza, circondata da edifici; se l’animale vi si fosse ritrovato, ragionò Arthur, si sarebbe sicuramente sentito spaesato e disorientato e allora sarebbe stato ancora più arduo prenderlo. Occorreva fermarlo prima.

    All’improvviso, svoltò a destra, imboccando uno stretto viottolo e poco dopo svoltò ancora a sinistra, salendo una corta rampa di scale che conduceva a un piano sopraelevato della strada, che dava accesso alle case sopra le botteghe. Dall’alto, vide che il cavallo era stato costretto a rallentare, data la confusione della via, ma non si era fermato. Si ritrovò così a correre in parallelo con la bestia, ma la sua nuova posizione gli conferiva un notevole vantaggio. Pregando affinché il suo piano funzionasse, Arthur saltò, atterrando dopo qualche interminabile secondo sulla groppa del cavallo, il quale si imbizzarrì all’istante, fermandosi e impennandosi sulle zampe posteriori, lanciando un acuto nitrito. Arthur si aggrappò alle spalle dell’animale per non essere disarcionato e, con la mano tesa, afferrò la cavezza e la tirò forte, premendo con i talloni sul suo ventre muscoloso e teso, fino a fargli abbassare le zampe anteriori. Iniziò poi a calmarlo, senza mollare la presa e il respiro pesante dell’animale, che fremeva attraverso le froge, si normalizzò poco a poco.

    Così, bravo. disse, carezzando il collo del baio e scendendo poi a terra.

    Una modesta folla si era radunata lì intorno e alcuni applaudirono la bravura e il sangue freddo del giovane, ma il suo momento di gloria durò ben poco.

    Un uomo avanzò a grandi passi verso il luogo dell’incidente, facendosi largo tra la folla, senza badare all’educazione.

    Tu! urlò, puntando il dito contro Arthur, una volta giunto a pochi passi da lui.

    Il giovane si voltò al richiamo, osservando perplesso il nuovo arrivato e cercando di capire chi fosse. Poteva avere circa una trentina d’anni, di certo non erano coetanei; il suo fisico era prestante, le braccia possenti. Portava i capelli rasati molto corti e un accenno di barba. I suoi occhi scuri erano in quel momento estremamente minacciosi. Arthur ebbe la sensazione di averlo già incontrato prima di allora.

    Dite a me? chiese, trattenendo il cavallo che stava tentando di liberarsi della cavezza.

    Sì, dico proprio a te! rispose l’altro, con voce sempre più stentorea. Spiegami per quale ragione il mio cavallo si trova qui dopo aver quasi distrutto il quartiere!

    Arthur realizzò all’istante che quella era l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare: il proprietario del fuggitivo.

    Signore, vi porgo le mie scuse, si è trattato di un incidente. spiegò, con atteggiamento realmente contrito, ma venne subito interrotto.

    Incidente? Che cosa dovrebbe significare?!

    Significa ciò che ho detto! Il cavallo si è impaurito ed è corso via dalla stalla.

    Ah sì? E come avrebbe fatto a impaurirsi se tutto ciò che dovevate fare era ferrarlo?

    Prima che Arthur potesse replicare, udì qualcun altro farsi strada tra la folla alle sue spalle. Si voltò e riconobbe Mastro Ferd, tutto trafelato; egli non gli prestò alcuna attenzione, dirigendosi invece immediatamente dall’uomo adirato.

    Sir Ferryman, vi prego di accettare le mie più sentite e umili scuse.

    Ferd! ringhiò l’uomo si può sapere che sta succedendo?

    Il fabbro non poté far altro che balbettare qualche parola, così Arthur ne approfittò per intervenire.

    Per una distrazione, il ferro caldo ha sfiorato il garretto del cavallo, che si è imbizzarrito ed è scappato.

    E chi sarebbe l’idiota che ha bruciato il mio cavallo con il ferro!? sbraitò l’uomo.

    Arthur e Ferd si scambiarono un’occhiata furtiva, poi il ragazzo abbassò lo sguardo e ammise:

    Sarei io...

    L’uomo non proferì parola, ma strinse i pugni, procedendo verso l’animale e il giovane, fino a quando furono faccia a faccia; solo allora parlò, con voce calma, ma carica di rabbia.

    Ti rendi conto della gravità del tuo errore? Arthur annuì, senza distogliere lo sguardo dal suolo. Credi che questo sia un insignificante cavallo da lavoro? Una stupida bestia da soma? E guardami quando ti parlo! urlò, infine.

    No, signore. Non lo credo. Arthur sollevò il capo, osando guardarlo negli occhi; l’energumeno, allora, gli strappò di mano la cavezza e lo fece voltare a forza, afferrandolo per le spalle.

    Questo è un esemplare di razza pura, un cavallo da torneo. E tu l’hai sfigurato!

    Ferd, riavutosi dall’iniziale indecisione, intervenne a separare i due contendenti, cercando di porre rimedio a quella spinosa questione.

    Perdonatemi, Sir, ma la bruciatura è impercettibile. Il danno è minimo.

    Effettivamente, Ferd era nel giusto: sulla zampa posteriore destra dell’animale, in corrispondenza della punta del garretto, era appena visibile un sottile segno rosso, dove un lembo di pelle era stato leggermente sollevato. Ciò nonostante, la furia del proprietario non si placò.

    La tua opinione non mi interessa, Ferd! Osi metterti contro di me per prendere le difese di questo pivello incapace? L’accusato non trovò il coraggio di replicare. Credevo fossi un uomo che conosce il proprio mestiere, ma mi sbagliavo, data la qualità di coloro che scegli come apprendisti.

    L’uomo riprese possesso del cavallo e si allontanò, senza aggiungere altro. La folla si scostò per farlo passare e, pian piano, iniziò a disperdersi. Lo spettacolo era terminato.

    Ferd e Arthur permasero in un dignitoso silenzio, fino a quando non furono rimasti che pochi spettatori; allora, il fabbro si avvicinò al ragazzo, mollandogli un ceffone alla base del collo.

    Ahi! si lamentò Arthur, proteggendo con entrambe le mani il retro della nuca.

    Te lo sei meritato! Sei soddisfatto? Guarda in che guaio mi hai cacciato! sbraitò il fabbro, levando le braccia al cielo e passandosele poi sul volto, con un sospiro.

    Mi dispiace di avervi fatto perdere un cliente, Mastro Ferd. si scusò l’altro, massaggiandosi il collo.

    L’uomo si lasciò andare a un gesto vago con la mano, poi mosse qualche passo verso la piazza.

    Lascia stare; non sono certo triste per averlo perso. Una carogna che mi ha sempre trattato come un servo, uno schiavo alle sue dipendenze! Ma una cosa è certa, i suoi soldi mi mancheranno più della sua brutta faccia!

    Arthur lo osservò; nonostante le sue parole affermassero il contrario, aveva capito che ciò che realmente lo turbava era l’insulto ricevuto alla propria dignità. Un uomo l’aveva profondamente offeso, ma egli non aveva il diritto di difendere il proprio onore. Doveva restare al suo posto, che non era poi molto diverso da quello riservato a un servitore; o, almeno, questo era ciò che individui come quel Ferryman credevano. Mentre il suo umore già provato risentiva di queste considerazioni, venne bruscamente richiamato alla realtà da una voce alle sue spalle.

    Arthur! Ferd! Wald Dalen stava correndo verso di loro, in direzione contraria rispetto a coloro che avevano assistito alla scena e stavano allontanandosi. Che è successo qui? Perché tutto questo trambusto? Voi eravate presenti?

    Non soltanto; sono io la causa del trambusto... rispose Arthur, prendendo a calci qualche sasso del selciato. Wald scosse la testa, costernato.

    Oh no, Arthur, di nuovo...

    Sì, zio, di nuovo! Ho combinato un altro disastro!

    Vedendo che il giovane iniziava ad agitarsi, Ferd gli posò una mano sulla spalla.

    Arthur, lasciami discutere un momento con tuo zio, se non ti dispiace.

    Egli obbedì, ma, prima di allontanarsi, diede un calcio al sasso con cui stava giocherellando, mandandolo a sbattere contro il muro di un palazzo al lato opposto della via.

    Ma che cosa ha fatto? chiese Wald, una volta rimasti soli.

    Ha perso il controllo di un cavallo mentre lo stava ferrando e quello si è messo a correre come se avesse dei demoni alle calcagna! La vera sfortuna è stata farci scoprire dal proprietario, proprio un attimo prima che tu arrivassi.

    Oh, sono immensamente spiacente per quello che è successo. disse Wald, prendendosi la testa tra le mani. Ti risarcirò, tu dimmi soltanto qual è la somma.

    Non ci pensare nemmeno. Non occorre che tu mi paghi, ma non posso più tenere tuo nipote come mio apprendista.

    Certamente, ti comprendo benissimo. Non puoi capire quanto sia dispiaciuto per i guai che ti ha procurato.

    Senti, Wald riprese Ferd, prendendolo da parte non sono in collera con il ragazzo, davvero. Io e te ci conosciamo da quando eravamo giovani, ti considero un buon amico e un uomo ragionevole, per questo voglio essere franco con te: credimi, vorrei poterti essere d’aiuto, non fosse altro che per la stima che ho nei tuoi confronti, ma non c’è più davvero nulla che io possa fare. Al ragazzo manca la passione. Sappiamo entrambi che non si diventa artigiani esperti senza la passione. Tuo nipote non è portato per il mestiere del fabbro, né per il tuo.

    Se è per questo, sembra non essere portato per la metà dei mestieri che conosco. disse Wald, amaramente.

    Ferd si passò due dita intorno alla bocca, chinando il capo.

    In quante botteghe l’hai portato? chiese.

    Cinque, sei contando anche la tua... e questo soltanto nel corso degli ultimi tre mesi. Nel più fortunato dei casi ha resistito un paio di settimane, prima di farsi allontanare. Wald si voltò a controllare Arthur, che se ne stava appoggiato spalle al muro in una stretta via trasversale al corso; qualcuno dei passanti talvolta gli rivolgeva un’occhiata incuriosita o di biasimo. Credi che sia troppo vecchio per imparare un mestiere? chiese.

    Ferd si strinse nelle spalle, soffiando fuori tutta l’aria racchiusa nei polmoni, prima di rispondere.

    Avresti dovuto dirmi che ha già ventuno anni; anche se, nel suo caso, l’età è sicuramente il minore dei problemi.

    Wald si voltò nuovamente, scuotendo il capo e parlando a voce più bassa.

    Ferd, comincio a perdere le speranze. Non so più che devo fare con lui...

    Non abbatterti. replicò l’uomo Arthur è un bravo ragazzo, deve solo trovare la sua strada. Non è ancora troppo vecchio per imparare e praticare un mestiere, ma dovrà applicarsi. Quello di cui ha bisogno è un sostegno, qualcuno che non lo faccia sentire del tutto solo. Il fabbro diede all’amico un colpo sulla spalla. Ha bisogno del tuo sostegno.

    Wald prese un profondo respiro, prima di guardarlo negli occhi.

    Hai ragione, gli starò vicino. Dimentica ciò che ho detto poco fa, non so cosa mi sia preso.

    Non ti preoccupare, io non ho sentito proprio nulla! ridacchiò Ferd. Ora devo tornare alla bottega; ho lasciato un altro cavallo legato fuori dal recinto. Non sarebbe buffo se scappasse anche quello? L’assurda ipotesi provocò l’ilarità del fabbro e Wald gli fece eco.

    Lo definirei piuttosto un accanimento della cattiva sorte!

    L’altro rise ancora più forte, allontanandosi.

    A presto, Wald. Se hai bisogno di qualcosa, sai dove trovarmi.

    Grazie, Ferd.

    Così i due uomini si salutarono; Ferd percorse la via del ritorno verso il quartiere degli artigiani, mentre Wald raggiunse Arthur.

    Perché stavate ridendo, tu e Mastro Ferd? chiese il giovane, con voce tagliente. Ridevate di me?

    Ma come ti viene in mente? ribatté Wald, allargando le braccia. Ridevamo per una battuta, non aveva niente a che fare con te.

    Che cosa ti ha detto allora? Mi ha cacciato?

    Che brutto termine, Arthur!

    Oh, scusami. Sono stato sollevato dai miei compiti di apprendista? Suona meglio così?

    Arthur si allontanò, le braccia incrociate sul petto. Wald lo seguì come un’ombra.

    Senti, perché non andiamo a mangiare qualcosa? Parleremo meglio a stomaco pieno.

    All’ora di pranzo, la Locanda del Lupo Grigio, la più conosciuta e frequentata nella cittadina di Rayden, era sempre gremita di manovali, bottegai, ma anche semplici paesani e quel giorno non faceva eccezione. L’intero locale risuonava di voci e risate; i clienti seduti al bancone scherzavano con l’oste, il quale continuava a offrire loro del vino, nonostante il sole fosse ancora alto, mentre le cameriere si facevano largo a fatica tra la folla, reggendo vassoi carichi di piatti e scodelle sollevati sopra la testa e boccali traboccanti di birra.

    Wald e Arthur sedevano a un piccolo tavolo d’angolo, nella parte più interna e relativamente tranquilla della locanda. Il ragazzo non aveva aperto bocca da quando erano entrati e aveva a malapena toccato il suo pranzo, al contrario di Wald, che aveva gustato avidamente il pasto, non potendo evitare, però, di alzare lo sguardo sul nipote di tanto in tanto.

    Dunque cominciò, una volta terminato di ripulire il piatto e dopo aver speso molto tempo a soppesare le parole da usare immagino tu non abbia voglia di parlare di quello che è successo stamani.

    A dire il vero, non ho voglia di parlare di nulla. rispose Arthur, levando la testa e smettendo di tormentare il cibo che aveva davanti.

    Capisco il tuo disappunto, ma ci tengo a farti sapere che Mastro Ferd non è risentito nei tuoi confronti.

    Davvero? chiese il ragazzo, con un smorfia sul viso. Suppongo allora che mi abbia mandato via perché non aveva altra scelta.

    Cerca di comprendere la sua posizione...

    La comprendo, zio. Stavo solo scherzando. Si distese all’indietro sulla panca che occupava, sprofondando con le gambe sotto al tavolo di legno e incrociando le braccia sul petto. Dopotutto, io ho causato la fuga del cavallo, io ho fatto sfigurare Mastro Ferd davanti a tutta quella gente e di nuovo io gli ho fatto perdere un cliente.

    Wald ascoltava, tamburellando con le dita sul bordo del tavolo.

    Ma chi era quell’uomo? chiese.

    Arthur alzò lo sguardo al soffitto, tendendo il collo, per poi tornare a fissare lo zio.

    Era un cavaliere.

    Cosa? Ne sei proprio sicuro?

    "Sarei pronto a scommetterci se fosse necessario, se non altro perché Mastro Ferd si è rivolto a lui chiamandolo Sir; ma è stata soprattutto un’impressione che ho avuto trovandomelo di fronte, credo dettata dal suo atteggiamento arrogante e dal suo aspetto fisico. Per non parlare poi del cavallo."

    Cosa aveva di speciale?

    Era un baio magnifico. Mi ha detto che si trattava di un cavallo da torneo e, ora che sono a conoscenza di questo particolare, riesco anche a spiegarmi il perché dell’incidente. I cavalli da torneo vengono addestrati in maniera differente rispetto agli altri: basta un colpo coi talloni o uno strattone alle redini per farli partire alla carica. E non si fermano, a meno che non sia il cavaliere a ordinarglielo. Quando ho sfiorato il garretto dell’animale con il ferro caldo, deve averlo inteso come un comando e ha caricato; per questo è stato così difficile frenare la sua corsa.

    Hai condiviso questa tua teoria con Ferd?

    No, non l’ho fatto.

    Io credo che dovresti! ribatté Wald energicamente. Quell’uomo aveva il dovere di avvertire Ferd della natura del suo destriero; se quel che mi dici è vero, non poteva essere trattato come un cavallo qualsiasi e Ferd avrebbe dovuto esserne a conoscenza. Lo zio si sporse in avanti sul tavolo. Capisci, Arthur? La colpa di ciò che è accaduto non ricadrebbe unicamente su di te in questo modo.

    Il nipote attese qualche secondo, prima di rispondere.

    Non era la prima volta che Mastro Ferd lavorava per quell’uomo, per cui, se davvero si tratta di un cavaliere, avrebbe dovuto saperlo, o, se non altro, sapere in che modo trattare il suo cavallo. Dunque avrebbe commesso un’imprudenza affidandomelo, anche solo per una ferratura. Ma non importa, oramai è successo. Nessuno è rimasto ferito, fortunatamente, solo questo conta.

    Non credo che tu comprenda fino in fondo la gravità della situazione. continuò Wald, sempre più determinato. Quell’uomo ha offeso te e Ferd di fronte a molte persone.

    Anche Arthur, allora, si protese in avanti sulla superficie del tavolo, trovandosi faccia a faccia con lo zio.

    Ho già detto a Mastro Ferd che mi dispiace. Gli abitanti di Rayden lo conoscono e lo stimano; non cambieranno opinione sul suo conto soltanto a causa delle calunnie di uno straniero. Per quanto mi riguarda, non mi interessa molto cosa questa gente pensi di me.

    Wald sospirò, tornando a sedersi compostamente sulla panca.

    D’accordo, Arthur. Cerchiamo di dimenticare questa brutta faccenda. So che sei deluso per aver perso il posto di apprendista, ma vedrai che presto troveremo il mestiere adatto a te.

    Arthur fece una smorfia. La sua memoria viaggiò a ritroso, riproponendogli in sequenza le indecorose immagini dei suoi fallimenti come apprendista: rivide le sue mani piagate e insanguinate, dopo aver passato un’intera giornata a tessere una fune, spezzatasi al primo strattone come una spiga matura; ripensò al giorno in cui si era sentito male a causa delle esalazioni della lana appena tinta, nella bottega del lanaio, dove si era rifiutato di tornare. O, ancora, a quando il mastro calzolaio l’aveva cacciato dal laboratorio, strepitando come un invasato, con l’accusa di aver rivolto uno sguardo, peraltro molto casto, alla sua avvenente nipote sedicenne. Tutti quegli episodi avevano causato una profonda ondata di disappunto e mortificazione in Wald, che ogni volta si era visto costretto a recarsi presso questa o quella bottega con fare penitente, producendosi in sentite scuse e mostrando comprensione verso decisioni che non potevano considerarsi più ragionevoli, date le circostanze. Alla penitenza seguiva immancabilmente la ricerca di un nuovo mastro artigiano che fosse disposto a prendere Arthur come apprendista, quasi sempre in nome di un’antica amicizia con Wald, che aveva il potere di mettere a tacere le voci poco lusinghiere che circolavano sul suo conto. Dopo l’episodio del cavallo, ciò sarebbe stato decisamente più arduo e, forse, i sentimenti d’amicizia non sarebbero più bastati. Questo certamente stava agitandosi nella mente dello zio, pensò Arthur, il quale, allora come in tutte le precedenti occasioni, avrebbe di gran lunga preferito che egli smettesse di provare.

    So già qual è il mestiere adatto a me. dichiarò.

    Arthur, ne abbiamo già discusso più di una volta. ribatté secco Wald. Considera chiusa la questione!

    Va bene! disse il ragazzo, seccato, alzandosi da tavola, imitato dallo zio, che estrasse dalla sua sacchetta alcune monete, lasciandole sul piano di legno. "Usciamo di qui, sono stanco di

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1