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La palma rivolta
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E-book283 pagine4 ore

La palma rivolta

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Info su questo ebook

Il Vecchio matto è piombato giù di schiena, a pochi passi dalla palma, pronto a morire con l’ultima immagine dell’albero a sovrastarlo. Forse si è sentito confortato dalla sua raggiera di foglie, col pensiero che lo potessero rimbalzare se – come nel suo quadro in cui la scena è capovolta, con l’abisso verso il basso e un cielo di terreno frondoso rivolto a testa in giù – il trapasso fosse davvero un mondo capovolto all’improvviso; e se lui fosse costretto a ricadere nel vuoto, dopo averlo appena fatto dal balcone.
LinguaItaliano
Data di uscita7 nov 2016
ISBN9788898419357
La palma rivolta

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    Anteprima del libro

    La palma rivolta - Andrea Benussi

    Indice

    Cover

    Quarta

    Copyright

    Indice

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    1

    Arriva la macchina del venerdì, come non si vedeva dalla notte del fattaccio, e mi tiro dritto per guardare meglio.

    La macchina si ferma davanti alla casa del vecchio Pittore, con la sua aria sgangherata di sempre, e riesco a intravedere sui sedili le solite facce note. Percepisco una certa sobrietà nel suo avvento, mentre continuo a tenerla d’occhio, affacciato come sono alla finestra della mia camera, a scrutare come ogni giorno il mondo nemico.

    Vedo Guido uscire col suo fagotto in spalla e saltare su, e poi la macchina riparte e si allontana verso le sue mete misteriose.

    È quasi sera e resto ancora affacciato, e ho appena assistito a un ritorno dell’ordinario, dunque, perché di questo si tratta; e mi chiedo se la tradizione verrà rispettata, e se quindi staranno via tutti almeno un paio di notti, o se il programma sarà meno sfrenato, come per suggestione, dopo i mesi trascorsi e il rientro rovinoso dell’ultima volta, e magari domani sera li ritroverò già da queste parti.

    Non mi schiodo ancora dalla finestra, mentre ripenso com’è inevitabile a quanto è stato, e guardo a lungo la casa del Pittore e la palma nel suo giardino, proprio davanti alla casa del vecchio Pittore, la casa più grande del piazzale, in cui non ho mai messo piede in tutta la mia vita.

    Sono ancora affacciato quando arriva la mamma, di ritorno dal lavoro: sento del movimento e vedo la sua macchina nel piazzale, e dopo un attimo, dietro di lei, vedo spuntare anche la bicicletta dello zio. La mamma esce dalla macchina e lei e lo zio si fermano a parlare nel piazzale. 

    Ci penso su un momento, e poi esco fuori a raggiungerli. 

    Lo zio mi fa un sorriso da squalo nel vedermi: col suo viso aggressivo, la testa sempre abbronzata e i pochi capelli rimasti raccolti in un codino.

    – Ecco la bestia – mi saluta.

    Mi strizza l’occhio dietro i suoi occhialetti moderni, dalla montatura azzurra. È seduto in bici e ha un sacchetto in mano. Già visto così, mezzo seduto, è un pezzo d’uomo, mentre io mi son preso l’infantilismo fisico del papà, preso e copiato tratto per tratto, ma non mi è andata del tutto male, mi son potuto giocare anch’io le mie carte. 

    – Le altre bestie? – chiede lo zio.

    – Le altre bestie stanno bene, credo – dice la mamma. 

    Lo zio ficca una mano nel sacchetto e si mette a sgranocchiare qualcosa.

    – Gio è a Milano o a Venezia?

    – A Milano – dice la mamma.

    Lo zio sta mangiucchiando da un sacchetto. Ce lo allunga.

    – Che roba è? – chiede la mamma.

    – Caldarroste. Viste in piazza e mi è venuta voglia – dice lo zio.

    La mamma ne prende una e me ne pesco un paio anch’io. Non sono male, mangiate all’aria aperta hanno un buon gusto, non le assaggiavo da un po’. Lo zio mi guarda mentre mastico.

    – Bestia – rincara. 

    Passa spesso a trovare la mamma, essendo di strada quando torna dall’ufficio. Ritorna da vecchio dominatore dei territori, da attento scrutatore delle terre di origine. Se ne va poco dopo, senza essere sceso dalla bici. 

    Più tardi e ormai è sera suona il telefono della mamma e come al solito a quest’ora è Gio, che non manca mai di chiamare. La mamma rimane appesa una vita al telefono, stanno lì a raccontarsela in una chiacchierata tutta affetti e confidenze, e mentre ancora parlano succede qualcosa che è senz’altro anomalo, perché a quest’ora bislacca, e son già passate le nove, suona il campanello e vado io, visto anche che la mamma è ancora impegnata con Gio. 

    Vado alla finestra e tiro un pezzo di tenda. La siepe copre la visuale, e comunque, nonostante il buio, riesco a scorgere un’ombra che aspetta tra le sbarre del cancello. È un’ombra particolare: vedo un largo cappello che deve stare su una persona assolutamente bassa, perché supera a malapena il muretto e arriva a metà delle sbarre. 

    Il campanello suona di nuovo e mi decido ad aprire: dietro il cancello ci sono tre bambinette.

    Ci resto bloccato. Direi che non me l’aspettavo: le guardo interrogativo, e le bambine mi fanno un coretto che non colgo. 

    Scendo i gradini e mi avvicino. Sono in maschera, tre streghette dai larghi cappelli. Raggiungo il cancello ancora perplesso, e le bambine ci rimangono perplesse vedendomi così, poi finalmente ci arrivo e riconosco la festa, che una volta non c’era la moda di festeggiare, per cui non so bene cosa si faccia, e allora interrogo le bambine. 

    Le bambine ripetono il loro ritornello, che in realtà non mi è nuovo, e le ascolto con attenzione. Non mi sono nuove neanche le bambine, le ho già viste qua attorno e le riconosco, da buon fisionomista quale sono, devono abitare nei paraggi. 

    – Ah… ho mica niente – dico alle streghette, che sono qui a chiedermi dolci, svuotandomi le tasche. Apro il cancello ed esco con loro.

    – Sotto con la punizione, quindi – dico.

    Le streghe non sanno cosa fare. Tiro giù le braccia.

    – Non la conosco questa festa, me la sapete spiegare?

    Non sono un granché comunicative, le streghette, sembra che la mia serietà le smarrisca. Dico loro che questa festa non la conosco, e allora loro finalmente si sciolgono un po’ e mi chiedono come mai. 

    – Forse perché non ho amici, care mie, con cui far feste – dico.

    Rido, dopo la mia uscita, perché ci restano male.

    – Non è vero – rettifico – però ne ho pochi. E non ho mai festeggiato questa festa.

    Mi domandano perché ho pochi amici, e allora gli rispondo che è probabile che io sia molto antipatico, a questo punto. Addirittura a questo punto si confrontano e mi dicono che invece sembro simpatico. 

    È la prima volta che ci parliamo e dico loro che in città mi conoscono tutti, per cui sono libere di fare questo esperimento: a occhio e croce mi sembrano delle buone camminatrici, e immagino che vogliano suonare ancora un bel po’ di campanelli, e allora possono andare a chiedere in giro di me, e verificare se per la maggior parte delle persone io non sia il re degli indigesti. 

    Dopo questa si lanciano del tutto, si mettono a chiedermi di andare a suonare con loro, visto che parlo tanto, ma declino, aggiungendo però che ci posso pensare l’anno prossimo, ora che la loro festa la conosco.

    Sento dei passi che arrivano dalla strada. Spunta una ragazza, che probabilmente le sta scortando di casa in casa e che si fa avanti solo adesso. Avvampo un po’, perché ha ascoltato tutto, e con la poca tempestività con cui compare probabilmente è stata anche a godersela. Faccio un passo indietro.

    – Mi dispiace molto ma non ho nulla – dico e sorrido alla ragazza.

    Torno dentro e chiudo il cancello. Mi attardo a occhieggiare le streghette, dirette alla casa degli Americani e poi, seguendo il percorso, alla grande casa del Pittore, da sempre il centro dell’elettricità tempestosa del piazzale, che dunque stasera è incustodita e desolata, e dove un tempo avrebbero potuto trovare spunti altrettanto interessanti.

    Vado in camera e mi stendo a letto, mettendomi a pensarci su. A un certo punto sento dei rumori ed è la mamma che se ne va a letto, spegne luci e televisione e si chiude nella sua stanza. 

    Si chiudono gli occhi anche a me, in realtà. Dalla notte non arrivano clamori: come se la festa, dovunque si svolga, sia abbastanza tranquilla.

    Finisce come ogni sera che ripenso al fattaccio, e adesso ho lo spunto della macchina che non si faceva vedere proprio da quella notte – la notte più incredibile di sempre, che nel giro di un anno stravolgerà del tutto le nostre vite e rivoluzionerà per sempre la mia, dopo avermi riservato un’oscura ribalta – e ripercorro le solite circostanze, a partire dalla macchina del venerdì e dalla sua dipartita puntuale, col vecchio Pittore matto lasciato solo in casa; e poi le ore di calma e sospensione e poi finalmente la fatidica sequenza, con la notte sconvolgente che ha regalato a tutti, e per chiunque sarà difficile dimenticare.

    Mi lascio andare, rilassandomi, pensando che domani sarà un’altra giornata tranquilla, ma non per questo sprecata, però, avendo sempre le mie cose a cui pensare. Mi interrogo sulle streghette, se siano riuscite a rimediare qualcosa, e mi viene anche in mente che un giorno farò due passi nei dintorni per cercarle e farmi una risata, se davvero dovessi scoprire che sono andate a indagare la mia fama.

    2

    Si è fatto avanti il freddo, ha già nevicato e la cosa peggiore è che subito dopo ha piovuto, e così la neve si è sciolta e quella che è rimasta è diventata grigiastra. E adesso fa di nuovo un gran freddo, ma il peggio, sia dannato chiunque l’ha pensata, è il ghiaccio che si è formato in terra e che minaccia a ogni passo.

    Così ieri mi sono accorto che erano finite le grigie – è così che chiamo le mie caramelle preferite, non l’ho inventato io ma mi piace, è un nomignolo da vizietti di contrabbando – e allora mi sono vestito e sono uscito per comprarle.

    Ho chiuso la porta e mi sono fermato, subito investito da questo freddo inusitato; guardando il ghiaccio per terra ho pensato che ci avrei messo un pomeriggio solo per arrivare al cancello, e questo nonostante non sia un gran giardino, tutt’altro, è un giardino molto stretto.

    Scendendo i gradini del pianerottolo è andata bene, muovendomi piano, ma dopo un tratto ecco il primo scivolone. Mi sono bloccato un attimo: poi ho proseguito. 

    Ma l’impresa era infinita; sono andato avanti e per un po’ la cosa è andata bene, poi appena prima del cancello è arrivato il secondo scivolone, la gambetta ha disegnato una scia simile a una passata di straccio e ha preso il largo per spezzarsi e solo un miracolo me l’ha salvata, mentre il mio sistema nervoso si incendiava e volava verso il cielo insieme ai miei anatemi. A quel punto mi sono girato per tornare alla porta e addio grigie.

    Prima dei gradini, proprio un passo prima, c’è stato il terzo scivolone, finalmente decisivo, e così son finito col culino in terra. 

    Mi son girato per vedere se nel giardino accanto c’erano gli Americani a guardare. Sono una gran famiglia: papà mamma e tanti figli, tutti maschi e una sola femmina, sempre chiusi in casa o in giardino a giocare con il cane, e il sabato sera barbecue di famiglia, come una brava famiglia di Americani. Mi guardano sempre con un mezzo sorriso, per qualche motivo a me sconosciuto. 

    Fortunatamente nessuno degli Americani era in giardino ad assistere. Se però c’erano riesco a immaginarmi la cosa: sorrisetti, poi tutti a chiudersi in casa senza dare nell’occhio, per ridacchiare liberi della mia caduta, come scoiattoli che si portano la nocciolina nella tana. Mai una volta che li abbia visti uscire la sera, e mai che abbia visto degli amici venire a trovarli. Loro sono felici così, e hanno la loro vita fra le quattro mura: un po’ come noi, solo che la nostra non è esattamente come la loro.

    Sono ritornato in camera, pensando che potevo chiamare la mamma per le grigie, ma ci ho rinunciato, e quando la sera è tornata a casa le ho chiesto di passare il giorno dopo. 

    Così oggi mi sveglio senza grigie. Non che la cosa abbia un peso devastante, ne faccio a meno anche per dei mesi quando mi sfuma il gusto. 

    Oggi è un giorno particolare, perché è il compleanno della mamma. È pure la mattina della vecchia Iole, Parola al Cadavere, l’unica mattina della settimana in cui viene qua fino a mezzogiorno a fare il suo lavoro, e così mi alzo di buon ora e vado subito a cercarla. 

    – Buongiorno Iole! – la saluto.

    È una vecchiaccia che cova i suoi segreti: portatrice di una non disprezzabile saggezza, coltivata in lunghi anni di vita sulla strada, e dico sulla strada non a caso, venendo come il Pittore dallo spicchio più malandato della città, fra vicoli e povertà, e questa è Iole, vecchia rinsecchita dalla fulminata facile.

    – Buon giorno – dice lei con la solita cantilena del rimprovero. Nulla di nuovo, il disco è sempre lo stesso, qualsiasi cosa sia successa nel frattempo riesce sempre a rimproverarmi per il mio far poco, nonostante una mattina ci fossimo accordati sul fatto che tutto ciò che mi riguarda non è affar suo. Ma è servito a poco, perché va avanti come niente a berciare, ricordandomi che lei ha cominciato a lavorare a dieci anni nel cuore del succitato quartiere balordo.

    Ripenso a Gio, che un giorno ha avanzato il sospetto che la vecchia Iole, il Cadavere Parlante, da giovane facesse il mestiere, essendo risaputo dell’andazzo esistenziale nel quartiere. Ogni città ha il suo quartiere guasto, che immancabilmente viene considerato pittoresco, e ammetto che la cosa mi piace, ma mi perdo nella vastità del mondo e dei suoi esempi e considero che di quartieri simili e anche più mirabili è fornita ogni città del mondo, per cui il mio campanilismo un po’ si scoraggia.

    La guardo bene, Iole, ed è davvero brutta, non è difficile credere che non si sia mai sposata. Ha la pelle cascante sotto gli occhi e poche labbra, al loro posto una fessura da cui escono i veleni. La sua bruttezza frena il mio sospetto di un passato proibito. Il quartiere maledetto è qui dietro l’angolo, a pochi minuti di cammino. Iole vive ancora lì, ci vive da tutta la vita. 

    Mi fermo a parlare con lei e la Iole fa subito una delle sue brutte facce, e questo è un peccato, visto che in quello che racconta c’è sempre un tocco di particolare. Provo a prenderla larga e a farle rievocare i suoi anni verdi, per esempio, e la Iole si scoccia comunque in fretta; eppure è un bel pozzo di sapienza, perché ci sono cose che solo lei può raccontarmi e cerco sempre di strappargliele. 

    Adesso alla terza o quarta domanda è già qui che sbuffa e mi dà del villano, e io le rinfaccio invece la mia delicatezza, perché le rivolgo fini domande sulla sua vita e mi dico certo di farlo con rispetto, nonché con sincero interesse, e addirittura chiedendole sempre di lei non faccio che onorarne l’esistenza. La Iole mi dice di lasciarla in pace ma non mi arrendo, e alla fine qualcosa fra i brontolii riesco anche a sentirlo.

    A mezzogiorno la Iole se ne va, all’una la festeggiata arriva nel piazzale e la tengo d’occhio dalla finestra: scende dalla macchina con la fronte corrugata e i capelli sulla faccia per il vento e vien dentro casa. La accolgo nell’atrio.

    – Auguri cara! Le grigie?

    La mamma mi guarda sorpresa.

    – Mi son dimenticata.

    Crollo le braccia e il mento verso terra. La mamma ci rimane male, si zittisce mentre si leva il cappotto. 

    Non insisto oltre, e non sto certo a richiederle il favore, direi che non è il caso. 

    È il suo compleanno, dunque, e direi che novembre le sta a pennello: ho pensato più volte che è il suo mese, elegante e sostenuto senza essere scontroso, col sorriso pronto a spuntare come le ultime giornate belle dell’anno. Quest’anno ne fa quarantanove, e direi che sono pochi, considerando la sua vita, ma i conti sono giusti e questa è l’età che ha.

    Mangiamo insieme e poi lei se ne torna al lavoro, e così oggi sono costretto a uscire di nuovo per le grigie e anche, con discrezione, per cercarle un pensiero, dopo anni che non lo faccio, e direi che questa è una buona idea.

    Adesso è ancora presto e sono in camera, e mi affaccio alla finestra. Nel giardino accanto al nostro gli Americani stanno giocando col cane. È una gran bestia, gli gettano quel poco che è avanzato della neve e il cane fa dei salti. Sono fuori in due: devo sperare che quando uscirò saranno rientrati, perché la figuraccia tende agguati soprattutto quando qualcuno è appostato a guardare, e un altro scivolone è preventivabile. Persino Gio, che è quello di famiglia a cui di solito gira tutto un gran bene, ne ha fatte di storiche, e sempre quando c’era qualcuno a poter testimoniare.

    Nel giardino dei vicini i giochi invernali proseguono. Nessuno degli Americani ha la mia età precisa: ce n’è uno che ha la stessa età di Gio, la ragazza che ne ha uno in meno di me e via via tutti gli altri, più piccoli o più grandi. 

    Mi viene in mente il loro schieramento compatto la notte del fattaccio, ed è un’immagine che è riuscita persino a rincuorarmi, visti tutti loro insieme. Tanti anni fa Gio era amico del suo coetaneo e un po’ di tutti e quindi lo ero anch’io, e finché le cose sono durate non era male, non abbiamo mai ingranato davvero ma è stata un’esperienza interessante, fatta di episodi particolari.

    Verso le quattro, spenti i ricordi e i giochi dei vicini, mi vesto e mi avvio per le strade. Ora per terra ci sono dei granelli di sale che combattono la scivolosità, e appena posso avanzo in mezzo alla strada, dove tutto è più percorribile. Qualcuno mi suona perché sono in mezzo: vorrei che ci provassero loro, sui marciapiedi in mezzo al ghiaccio, e che ci provassero ogni tanto a piedi, lazzaroni delinquenti, ma non sto qua a perder tempo a rispondergli.

    Mi occupo prima di tutto delle grigie e poi inizio a guardarmi intorno per vedere se mi cade l’occhio su qualcosa di carino. È un pezzo che non regalo nulla alla mamma e nel passare osservo tanti posti, e alla fine però mi fermo davanti alla bottega d’arte vicina a casa. 

    Individuo un quadretto che ritrae piazza S. Marco a Venezia. La luce nella bottega è fioca e non vedo il prezzo, che comunque immagino abbordabile. Entro dentro, dove il proprietario è seduto sul suo sgabello. C’è odore di vernice e di acqua ragia, e mi piace, ci capito spesso nel rincasare e scambio volentieri due parole col vecchio.

    Faccio un giro per la baracca. Ci sono i dipinti del Pittore, proprio il Pittore del fattaccio, di cui il vecchio bottegaio era uno storico compare. Naturalmente ne parliamo subito, ci rammarichiamo insieme per la fine del Vecchio matto. Il bottegaio mi segue verso i quadri del Pittore e io gli dico che secondo me, se a questo punto vuole la verità, non sono un granché. 

    – Tu dipingi? – chiedo al vecchio.

    – Disegno.

    Mi tira fuori dei ritratti, visi di donne soprattutto, e poi una serie di nudi. Li guardo a lungo.

    – Questi non sono male. Perché li tieni nascosti? Dovresti esporli.

    Gli riconsegno i fogli e lui li rimette nel cassetto.

    Comincio a guardarmi intorno. Oltre alla vernice c’è profumo di legno e di colla, e persino, ma più sottile, di caramelle, perché ce n’è un vaso per i visitatori, ed è una bella cortesia e ne approfitto pure e me ne pesco un paio.

    Mi avvicino di nuovo ai lavori del Pittore, a cui si dava un gran credito d’artista.

    – Mah, non ci vedo niente di speciale, sono sincero – dico e l’uomo, adesso, allarga le braccia.

    Riprendo a curiosare per la botteguccia. Mi avvio alla vetrinetta, raccolgo il quadro di S. Marco e lo guardo meglio. Il vecchio non si risiede più, forse lo sto mettendo a disagio. Può rilassarsi, glielo dico tranquillamente: lui riguadagna lo sgabello e apre un registro inforcando degli occhiali, e io rimetto a posto S. Marco.

    Torno sui miei passi e sollevo un quadretto che ritrae un’anatra, mi dico che è un bel soggetto originale. È un’anatra su un balcone ed è la rappresentazione, se interpreto bene, di una creatura allontanata dal suo paradiso originario e capitata in un nuovo mondo bello e artificiale, e può avere i suoi significati. Forse questo ha un qualcosa in più rispetto a S. Marco, e lo faccio notare al vecchio, che si gira a guardare. 

    – Già, non è male – dice.

    Finisce che decido per questo, e glielo faccio incartare in fogli di giornale. Vedo che il vecchio ha un paio di libri messi da parte sulla scrivania, sgualciti, che legge nelle mezzore di noia qua dentro. Mi accompagna fuori e ci fermiamo cinque minuti sulla soglia a guardare insieme il mondo, io col quadretto fra le mani.

    Saluto finalmente il vecchio e mi incammino verso casa. 

    Nell’arrivare, col quadretto sotto il braccio e il pacchetto di grigie in tasca, incontro, a parlar sempre del diavolo, Guido, che viveva col Pittore, vivevano soli nella grande casa in fondo al piazzale. Guido esce proprio adesso e ci incrociamo in mezzo al piazzale. 

    Mi lancia un’occhiata, inchiodandomi col suo sguardo fermo. Per un attimo guarda il quadro e mi chiedo se capisce cos’è e perché l’ho preso, poi passa oltre senza sprecare altra socialità, e io faccio altrettanto.

    Nella mia vita ho passato i miei guai, eppure solo con lui mi succede sempre di irrigidirmi, e a maggior ragione mi gelo adesso, dopo quello che è successo. 

    Qui nel piazzale gli tira addosso un’aria strana ed è ovvio, perché è pur sempre Guido, e ora nella grande casa è rimasto solo. Col Vecchio erano alti e bassi, tra idolatria e scontri plateali, e poi il movimento formicolante attorno alla grande casa, con gli ospiti particolari del Pittore e la puntualissima macchina del venerdì di Guido. 

    E poi dopo il fattaccio c’è stata la giusta pausa dalle scampagnate, con Guido che si è chiuso in una sorta di eremitaggio, e con la macchina del venerdì che non si è più vista per un pezzo.

    E dunque oggi, dopo la ricomparsa della macchina, ecco che lo vedo anche uscire a piedi, com’è sempre stata sua abitudine. Ne ha nove più di me, ne fa trenta fra poco, li compie dopo la mamma. Un giorno, se così dovrà essere,

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