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Quando cade la neve
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Quando cade la neve
E-book381 pagine5 ore

Quando cade la neve

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Info su questo ebook

Enea non poteva immaginare che tornando in Italia per Natale la sua vita sarebbe cambiata

Penelope adora il suo negozio di souvenir e aiutare il prossimo quando può. Matteo è un bad boy perseguitato dagli strozzini, il cui passato lo ha portato a odiare tutto e tutti. Cosa accadrà al cuore della dolce Penelope quando Matteo inizierà a giocare con lei? Riuscirà a proteggersi? 
Enea, il fratello di Penelope, è un professore universitario tutto dʼun pezzo. Diana è una pittrice romantica e sognatrice in cerca del proprio posto nel mondo. Si conoscono da tanto tempo, ma forse qualcosa potrebbe cambiare, complice la magia del Natale. Se non fosse che Enea ha una vita che lʼaspetta dallʼaltra parte dellʼOceano.
Quattro personaggi, due storie dʼamore e la splendida Val di Fassa per un romanzo che vi scalderà l'anima.

Dall’autrice del bestseller La mia eccezione sei tu

Quattro personaggi in cerca d’amore

«Un coinvolgente romanzo sentimentale.»
Di Più

«Divertente, romantico e passionale. Un romanzo che ti conquista fin dal primo capitolo.»

Patrisha Mar
vive ad Ancona con il marito e la figlia. Le sue grandi passioni sono da sempre la scrittura e la lettura. Non esce di casa senza un libro nella borsa. Adora la pizza, la cioccolata fondente, Superman, i film in costume, le serie televisive coreane e le commedie romantiche americane. La Newton Compton ha pubblicato Il tempo delle seconde possibilità, La mia eccezione sei tu, Ti ho incontrato quasi per caso, Apri i tuoi occhi, La poesia dell’anima, Quando l’amore fa volare e, in ebook, Legati da un insolito destino.
LinguaItaliano
Data di uscita25 set 2019
ISBN9788822737823
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    Anteprima del libro

    Quando cade la neve - Patrisha Mar

    Capitolo 1

    Penelope

    «Povero Carletto, non sai quanto mi dispiace. Era una brava persona, buona, altruista, un vero pilastro della nostra comunità!». La voce della signora Kramer mi graffia le orecchie con le note stridule che solo lei può produrre. È una donna alta, magra, piena di riccioli nero corvino e con un tono che raggiunge decibel inarrivabili. Disturba anche se non vorresti, anche se fossi la più pura di cuore su questa terra e i pensieri cattivi non ti sfiorassero neppure per errore. Semplicemente ti entra nel cervello come un punteruolo, ecco perché talvolta cerco di non ascoltarla, credo di essere una pessima persona.

    Non la guardo mentre mi parla, ma capisco che si sta muovendo all’interno del mio negozio. Se vuole comprare qualcos’altro certo non mi dispiace, ma gradirei di più se lo facesse in religioso silenzio.

    Comunque sono troppo presa dalla confezione del regalo per sua figlia Lila: sta per compiere sedici anni e riceverà presto uno dei miei diari con la copertina in patchwork verde e rosso. È importante preparare il pacchetto giusto, scegliere la carta più adatta, chiuderla bene, con meticolosa attenzione per non fare nessuna piega, poi il nastro conta molto. In tessuto? In carta crespata? L’effetto finale è perfetto se aggiungi con la colla a caldo qualche perlina o magari un pezzo di pigna profumata. Per me quella dei pacchetti è un’arte e mi piace pensare che mi riesce bene, come mi piace l’idea che qualcuno riceva tra le mani qualcosa di esclusivo, sempre diverso, personalizzato. Nel mio negozio si possono trovare tanti oggetti particolari, fatti a mano da alcuni artigiani e dalla mia amica Diana Sensini. Lei è una vera artista, di quelle con la A maiuscola. A volte penso che sia sprecata qui con me, in questa cittadina di montagna.

    Viviamo a Moena, nella Val di Fassa, sempre piena di movimento e turisti, il luogo ideale per aprire un negozio. In realtà il negozio era di mia madre, ma lo ha intestato a me quando ha capito che mio fratello Enea non sarebbe mai rimasto qui. Lui voleva studiare, viaggiare, ed è proprio ciò che ha fatto. Mentre io ero quella che sarebbe rimasta, che avrebbe portato avanti la tradizione della famiglia Keller, cioè il negozio di souvenir vicino alla piazza, proprio al centro di Moena. In verità ho spezzato quella tradizione – non sono proprio una ribelle, intendiamoci – ma di vendere prodotti in serie e souvenir che si possono trovare in qualsiasi altro negozio della Val di Fassa non mi va: accendini, cartoline, bicchieri con sopra una veduta della cittadina e palle di vetro che in realtà sono in plastica con dentro un paesaggio e neve finti. Non so, mi mette tristezza. E poiché mi piace la creatività, ora il negozio vende prodotti unici, fatti a mano, un invito all’acquisto speciale durante le vacanze. Insomma, questo posticino mi appartiene e mi rispecchia.

    Manca poco meno di un mese a Natale, ma il negozio è già tutto addobbato. Ghirlande e festoni, l’albero alto due metri e mezzo pieno di palline e decorazioni di nostra creazione, un presepe con pupetti di cartapesta realizzati da Diana, e tanta oggettistica sparsa sulle mensole di legno grezzo o sulle madie antiche che papà ha restaurato per l’inaugurazione, due anni fa. Perché farle ammuffire in cantina? I mobili della nonna rimessi a nuovo sono bellissimi e creano un’atmosfera suggestiva, qui dentro. Amo questo negozio, è tutta la mia vita e il mio orgoglio, non solo perché è il retaggio di mia madre, ma perché l’ho sistemato a mia immagine e somiglianza.

    Il mio nome è Penelope Torrente, figlia del professor Torrente, un luminare della filosofia, a suo tempo, un uomo che si è costruito una solida reputazione e che mio fratello Enea cerca di emulare e chissà, magari anche surclassare.

    Ho ventisette anni e vivo a Moena da… ventisette anni, non fa una piega. Non mi sono mai spostata altrove, anche se ho viaggiato per vacanza, ma amo troppo questi luoghi, adoro la montagna, le vette innevate, il cielo terso e pulito, le nuvole che a volte sembra di poter toccare se solo ti allunghi un po’… e i gerani che invadono i balconi in primavera ed estate, il verde intenso dei prati, un verde talmente incredibile che difficilmente un pittore potrebbe riprodurre, mischiando i colori sulla tavolozza. Questa è la mia terra, qui mi sento a casa come non potrei da nessun’altra parte, e sono felice così.

    La signora Kramer sta ancora parlando. Adesso posso guardarla in volto, perché ho finito di lavorare al pacchetto: è pronto e mi soddisfa.

    «Carletto mancherà a tutti, che persona squisita». Mi rendo conto che sta parlando di Carlo Antonini e un senso di colpa mi trafigge, perché forse avrei dovuto ascoltarla, avrei dovuto partecipare alla conversazione.

    «Ha ragione, Caterina, mancherà a tutti». Di sicuro mancherà a me e sono sincera, era un buon diavolo e mi faceva tanta tenerezza. Lo vedevo ogni mattina spazzare davanti al suo pub, lucidare le maniglie delle porte e perfino mettere le braccia conserte e osservare l’insegna The mountain con gli occhi lucidi, gli occhi di qualcuno che è fiero di quello che è e di ciò che fa. Provavo una incredibile empatia per lui. Il suo pub era speciale, sempre così pieno di vita, di gente allegra. Ogni sabato sera c’erano spettacoli dal vivo: Carlo invitava gruppi locali per esibirsi e proporre musica di tutti i generi: celtica, country e persino rock. Nonostante i suoi settant’anni era una delle persone più moderne e attive che conoscessi. Un instancabile lavoratore, ma anche un cuore solitario. Da quando suo figlio era morto, qualcosa si era incrinato dentro di lui. Lo capivi dal suo sguardo malinconico, nonostante ti sapesse rivolgere i sorrisi più sinceri. Domani ci sarà il suo funerale e l’intera comunità parteciperà, non solo perché era uno di noi, ma perché merita il rispetto di tutti e il nostro ultimo saluto.

    La signora Kramer all’improvviso cambia argomento, come se la morte di Carlo in realtà non l’abbia toccata più di tanto e possa sommarsi ad altri argomenti di ordinaria amministrazione per intavolare una conversazione con la commessa, in questo caso io. La mia simpatia per lei diminuisce ulteriormente, se è possibile. Ribadisco, sono una pessima persona.

    Adesso inizia a parlare di partire un paio di settimane per il mare, vuole andare con il marito alle Mauritius. Beata lei, il negozio non va male, ma i soldi per le Mauritius me li sogno la notte, e comunque le Mauritius non mi interessano più di tanto, forse…

    Intanto le batto lo scontrino e le porgo la nostra bag esclusiva in tessuto ecologico con dentro il regalo.

    «Grazie Penelope, sei un angelo. Buona giornata», mi dice con la sua vocetta sgradevole.

    «Buona giornata a lei, signora Kramer».

    Caterina chiude la porta dietro di sé e il campanello in alto tintinna. Sono di nuovo sola in questo lunedì mattina e posso permettermi di fermarmi un attimo a riflettere.

    Sentir parlare di Carletto mi ha messo tanta mestizia addosso, mi avvicino all’ampia vetrina, dove un trenino elettrico giallo gira in una pista circolare, con tanta neve intorno. Ma io con lo sguardo oltrepasso il vetro e fisso l’insegna The mountain illuminata da un sole generoso. Il pub di Carletto è proprio davanti al mio negozio. Mi piange il cuore sapere che è chiuso: il lavoro di una vita che finisce così, dall’oggi al domani. Il cartello chiuso per lutto mi commuove, come il silenzio e le maniglie già opache. Questo locale è prezioso per molti di noi, un luogo di ritrovo in cui un uomo ha messo cuore e anima. E la sua eredità muore qui. Lo trovo deprimente.

    Mi asciugo qualche lacrima che proprio non sono riuscita a trattenere. Accidenti alla Kramer che ha parlato di Carletto, sono un paio di giorni che ho il magone e piango per lui: anche se non eravamo parenti e parlavo con lui di rado, era un caro amico di papà.

    Torno a guardare la mia vetrina e sistemo meglio il cotone che ho aggiunto per dare l’impressione della neve intorno al trenino. Non smette mai di girare. È un po’ come la vita di ognuno di noi, gira senza arrivare mai, ma non si ferma, non deve fermarsi, perché è questo il senso di tutto. Si deve sempre andare avanti, a ogni costo.

    Capitolo 2

    Enea

    Conosco bene queste strade, anche se da molti anni le percorro raramente, giusto quando torno in Italia per venire a trovare la mia famiglia, la mia amata, folle e chiassosa famiglia. Le montagne mi accolgono sempre con il loro aspetto regale, aprendomi il cammino verso la vallata. Sono ricoperte di neve e si stagliano verso il cielo, a toccarlo, regine incontrastate di questo angolo di mondo che per me è sempre stato troppo stretto. Volevo di più, voglio di più e sono più di tutto questo. Per quanto a volte le sogni, e sogno Moena, sono felice della scelta che ho fatto, anche se mi ha portato in un altro continente e in un’altra vita che sento più mia.

    Mi chiamo Enea Torrente, ho trentasette anni e vivo negli Stati Uniti da circa sette. Sono professore alla Berkeley University, insegno storia e sono bravo, maledettamente bravo in quello che faccio. Ho studiato tanto per arrivare dove sono, per guadagnarmi il rispetto dei colleghi e dei miei studenti, soprattutto in una nazione che non è la mia, dove all’inizio la diffidenza e il sospetto mi seguivano come un’ombra poco indulgente. Ma sono testardo e molto caparbio, in questo ho preso da mia madre, Tina Keller, una donna tutta d’un pezzo, con quel suo viso squadrato e il carattere ancora più quadrato, ma proprio la sua forza d’animo e quel suo modo ostinato di non arrendersi mai mi hanno dato forza e mi hanno insegnato a lottare per ottenere ciò che voglio. E io volevo una carriera universitaria prestigiosa, volevo contare qualcosa, rappresentare un punto di riferimento per la comunità di ricerca e di storia, proprio come mio padre. Gerart Torrente, professore di filosofia all’università di Trento, ha ancora una targa da qualche parte che lo commemora ed è un onore, considerando che non è morto, al contrario è vivo e vegeto e si diletta nel restauro di mobili antichi per tenersi impegnato, oltre alle letture, che nella nostra famiglia non mancano mai. Ha settant’anni e sembra un sessantenne, con i capelli bianchi sempre arruffati che gli danno un’aria da bohémien e gli occhi vispi che ti inquadrano, ti fanno la radiografia e ti trapanano. Mi ha sempre messo soggezione ed è l’unica persona al mondo che mi faccia questo effetto, ritorno un bambino che si fa la pipì nei pantaloni. Forse è per questo che ho preso le distanze da lui, da questa famiglia, da queste montagne, per smettere di farmi la pipì nei pantaloni. Metaforicamente parlando, s’intende.

    Ho le mani sul volante e guido sicuro, ripensando al mese che mi sono preso di pausa. Ne avevo bisogno, sono stanco, e devo finire di scrivere il saggio che una importante casa editrice, in concerto con l’università, mi ha commissionato: il tempo stringe e mi mancano ancora alcuni capitoli. Forse non è stata una buona idea tornare qui, non so quanto riuscirò a stare davanti al pc senza essere disturbato da anima viva. Ma tra poco sarà Natale, e la mia famiglia lo festeggia ogni anno rispettando le tradizioni. A casa Torrente a Natale si respira il profumo dei pini, dei dolci appena sfornati, si sente il fruscio della carta dei pacchetti aperti sotto l’albero. E si beve zabaione. Io però odio lo zabaione: questo fa di me un pessimo esempio di spirito natalizio e me ne vanto.

    Non ho scelta, devo tornare, e una parte di me ne è contenta, nonostante il mio carattere schivo stoni con l’esuberanza di alcuni esponenti del mio parentado. Però li amo così, anche se talvolta mi provocano imbarazzo. E io mi imbarazzo facilmente, qualcosa nel mio modo di essere, che qualcuno potrebbe giudicare persino pomposo, mi fa sentire a disagio quando le cose non sono come dico io. Tengo molto alla forma, l’ho sempre fatto. Forse proprio per questo ho scelto storia antica come ramo di studio. La storia è un rifugio per chi come me nella realtà a volte ci sta scomodo.

    La mia ex me lo rinfacciava sempre. Mi dava anche del borioso, per questo non ha funzionato, lei voleva qualcuno che la facesse sentire una regina, io qualcuno che mi facesse sentire un re, ma non eravamo bravi a prenderci questi rispettivi impegni. Mi amava? L’amavo? Non saprei neppure ora. Abbiamo rotto da sei mesi eppure non sono in grado di rispondere. Lo trovo alquanto bizzarro. Ma se sono sopravvissuto con tanta facilità alla rottura con Elizabeth, dubito fortemente di aver avvertito dolore o senso di perdita. Persino il modo distaccato con cui ci rifletto sopra, imboccando la deviazione per Moena, la dice lunga su quanto provo. Dopotutto, credo di essermi dato una risposta.

    Elizabeth è bella e solare, una giovane ricercatrice di ventotto anni che sa vestire alla moda, che sa come comportarsi nel mondo, che sa quello che vuole. Tutte frecce al suo arco, ma che dire?

    Al contrario io vesto come un topo di biblioteca, l’ho sempre fatto, come se impersonassi un ruolo predefinito dal karma. Sembro una specie di Indiana Jones, mi manca il farfallino al collo, ma per il resto il marrone è il colore che mi definisce. Sono un uomo vestito di marrone, dentro e fuori. Sembro molto noioso, il che per certi versi potrebbe anche essere vero, ma mi sono costruito una parte che mi si adatta a pennello, proprio come il marrone e questa barba che porto per nascondere metà del mio viso. Mi fa sembrare più maturo, più grande e mi dona l’autorevolezza di cui voglio ammantare il mio ruolo. Posso dire di avere tutto sotto controllo, o quasi.

    I luoghi più che familiari cominciano a scorrere ai lati della strada, vado piano, perché anche se ho le catene, e lo spazzaneve, come sempre, ha fatto il suo ottimo lavoro, il manto ghiacciato mi suggerisce che devo concentrarmi ancora di più, così rivolgo solo sguardi di sfuggita a questa cittadina che mi ha dato i natali e che conserva la maggior parte dei miei ricordi di gioventù.

    Per assurdo mi sudano le mani, anche se sono fredde, nonostante indossi il mio cappotto di tweed e qui dentro abbia il riscaldamento acceso. Ho sempre odiato il freddo. Riconosco che provo una certa emozione nel tornare a casa, come il figliol prodigo. Intuisco che verrò accolto con calore, entusiasmo e questo mi imbarazza tanto. L’ho già detto che odio sentirmi imbarazzato?

    I marciapiedi che costeggiano la statale che taglia in due il centro cittadino di Moena sono gremiti di turisti. La stagione invernale è cominciata da un po’. Le stazioni sciistiche sicuramente stanno lavorando a pieno regime, i commercianti del posto, compresa mia sorella, penso che siano già soddisfatti e Natale deve ancora arrivare. Il Natale e il Capodanno da queste parti sono periodi di grande affluenza. Quindi prevedo tanta confusione, ma va bene così. Non posso immaginare questi luoghi deserti, sarebbero innaturali come le montagne senza la loro neve bianca.

    Devio per la strada che si affaccia sul parcheggio e mi immetto in una stradina laterale. Sono quasi arrivato. Comincia a battermi più veloce il cuore. Sono tornato a casa. Perché per quanto ami vivere a Berkeley, questa resta casa mia, nel bene e nel male. È bello sapere di avere comunque un posto in cui tornare se tutto il resto va a rotoli. E fino a che qui vivrà la mia famiglia, io quel posto lo avrò.

    Capitolo 3

    Penelope

    Ho appena chiuso il negozio e sono tornata a casa. Una di quelle casette a schiera a due piani, una villetta in muratura bianca e legno scuro, con un giardino che ora è sommerso dalla neve. I poveri sette nani sono diventati tre, gli altri sono stati irrimediabilmente inghiottiti dal manto candido. La strage dei quattro nani. Da prima pagina.

    Mi affaccio alla finestra per osservare il cielo: un letto blu scuro carico di nubi. Nevicherà di nuovo questa notte, ma tanto non prevedo di uscire. Non ho impegni, non ne ho da un po’, da quando il mio ragazzo Luca ha deciso che era stanco di me, di noi, della sua vita, dell’universo intero e se n’è andato, si è trasferito a Roma e non ha ritenuto opportuno chiedermi di seguirlo. Non che l’avrei fatto, qualcosa dentro di me mi ha suggerito che questa separazione era la logica evoluzione di un rapporto fatto di poco sentimento, egoismi personali e solitudine. Non ci si dovrebbe mai sentire soli in compagnia di un’altra persona, soprattutto se quella persona è il tuo ragazzo. Eppure io mi sentivo così, sola e spenta. Spenta io? Un’eresia. Sono sempre stata esuberante, piena di vita, persino folle, mai spenta come una vecchia lampada fulminata. Ci sono persone che nascono per assorbire la tua luce, per sottrarti le forze e, quando le tue energie se ne sono andate tutte, ti accorgi di non essere più chi amavi essere. Quel tipo di rapporto di coppia non è salutare, è un capestro. Meglio lasciar perdere. La sua partenza è stata triste, ma di una tristezza buona che ti ricorda che hai perso tre anni per un errore di percorso, che hai chiuso un capitolo della tua vita, ma che ti rimane ancora un libro pieno di pagine da riempire. Così, quella tristezza si è tramutata in speranza per un futuro migliore, speranza per un amore che mi permetta di essere sempre me stessa, con tutti i miei innumerevoli difetti. Ne ho così tanti che la mia testa dovrebbe suggerirmi che forse, e dico forse, l’anima pura che dovrà sopportarmi e votarsi al sacrificio non è ancora nata.

    Vorrei indulgere ancora in questi pensieri sentimentali, ma non posso perché le voci cacofoniche della casa mi riportano al presente, all’inferno che si è appena scatenato in cucina. Vivo ancora con mio padre, mia madre e la mia sorellina minore, Elena. Al tempo è stata una sorpresa per me ed Enea, perché abbiamo realizzato solo in quel momento che mamma e papà ci davano ancora dentro: incredibile ma vero. È stata una lezione importante quella che ho imparato. Non c’è un limite di tempo per l’amore e soprattutto per il sesso, nessuna scadenza sulla scatola. Elena ha sedici anni, è in piena età di ribellione e vuole la sua libertà, ma mamma è un panzer, ama controllare tutto e tutti e papà si ritira nel suo mondo fatto di letture e restauro, lì sta comodo e non ha problemi.

    Intanto le voci si sono fatte più stridule. Sospiro e sorrido. Non ho nessuna intenzione di prendere parte alla sceneggiata del giorno. Ho avuto un pomeriggio pesante, Diana non è potuta venire in negozio e così ho dovuto preparare pacchetti in continuazione. Mi fanno male i piedi. Mi siedo in poltrona e appoggio la testa allo schienale. Un attimo, solo un attimo.

    La voce di Elena arriva forte, adesso. Si devono essere spostate dalla cucina al corridoio. «No, io ci vado, ho promesso».

    «Dovevi chiedere prima a me», la rimbecca mia madre. Non è che permette un gran dibattito con una simile affermazione. Per me ha già vinto l’arringa, ma Elena è tenace, è mia madre in miniatura. In bocca al lupo a entrambe, perché non vorrei essere nei loro panni. Socchiudo le palpebre ed è in questo momento che suona il campanello della porta.

    Chi è così pazzo da raggiungere casa Torrente a quest’ora durante la terza guerra mondiale? Mi alzo, con le caviglie dolenti, e mi trascino fino all’ingresso, scansando mia madre e mia sorella che ancora si accapigliano ma con voci meno tonanti, del resto abbiamo visite. Vado ad aprire la porta con un sorriso di circostanza e rassegnazione che dovrebbe essere brevettato.

    Il sorriso si trasforma e contagia gli occhi. «Enea!». Gli salto letteralmente addosso, gettandogli le braccia al collo. Mio fratello rimane imbalsamato lì dove si trova, per poi allargare le braccia e stringermi, con gentilezza si intende, in fondo è sempre il mio fratellone gentleman, una specie di Mr Darcy dei poveri.

    «Sei tornato prima, ti aspettavamo per la prossima settimana».

    Enea mi sorride con quella sua aria imbarazzata e fa spallucce. «Sorpresa».

    Intanto il silenzio dietro di me mi fa intuire che mamma e sorella si sono accorte di chi è arrivato. Un istante dopo vengo travolta da Elena, che mi spinge via e si aggrappa al cappotto di Enea come per bloccarlo, come se altrimenti potesse svanire in uno sbuffo di fumo. «Sei qui, che gioia!». È sincera, Elena adora mio fratello, per lei è una sorta di eroe. È partito per l’America, è un inno alla libertà vivente, un vero esempio da emulare. Solo che lei sogna di andare in Australia con i canguri.

    Da dietro mi arriva la voce di mamma: «Enea! Che meraviglia averti qui, sei venuto prima».

    Sorrido, mia madre riesce a fare un cazziatone anche se sembra contenta. In pratica gli ha appena suggerito che avrebbe dovuto avvisarla perché gli avrebbe preparato la stanza, il polpettone di carne che ama tanto, e avrebbe comunicato alle sue migliori amiche che il suo amato figlio stava tornando.

    Enea mi guarda e mi sorride, mentre risponde a lei. «Ho deciso all’ultimo minuto, sono riuscito a ottenere qualche settimana di ferie, ero in arretrato e così, eccomi qui per le feste natalizie».

    «In anticipo».

    «In anticipo», ripete Enea, trascinandosi dietro Elena, che è ancora aggrappata a lui, mentre si avvicina alla mamma e l’abbraccia. Colgo la commozione sul suo viso, e mia madre non si commuove spesso. È emozionata nel rivedere il figlio maggiore, ma ha quasi paura a mostrarlo. Non è facile tenere in gabbia i sentimenti, io non ci sono mai riuscita. Enea assomiglia decisamente alla mamma in questo, anche lui si chiude come pochi al mondo sanno fare. Non so cosa ci guadagnino a campare così.

    Mentre sto per chiudere la porta, mi accorgo che larghi fiocchi di neve hanno cominciato a scendere giù lenti e soffici, innocui, anche se so che presto diventeranno copiosi e fitti, attecchiranno ancora e i tre nani rimasti finiranno per seguire l’amaro destino dei loro fratelli defunti. La vita continua…

    Capitolo 4

    Enea

    Sono dentro, fagocitato dal calore della mia famiglia e della nostra casa che sa ancora di buono e di dolci. Elena mi tiene per un braccio. Quanto è cresciuta… Non la vedevo da almeno otto mesi, e sembra essere diventata una donna, con i suoi capelli color miele, le ciglia allungate dal mascara, il blu delle sue iridi che fa concorrenza al blu del maglione di cashmere che indosso proprio ora (un’eccezione alla regola, ma sono in vacanza). Si è fatta bella, e sono sicuro che i miei genitori siano già entrati nella fase di allerta, non potrebbe essere altrimenti.

    Mamma mi ha abbracciato con evidente emozione, ma un’emozione controllata: non amiamo troppo le manifestazioni pubbliche di affetto, siamo fatti così, ci tratteniamo anche quando sarebbe naturale lasciarsi andare.

    «Bentornato, Enea», mi dice mentre mi dà una pacca sulla schiena, come quando ero bambino e voleva confortarmi di qualcosa. È rassicurante.

    La stringo a me, posso permettermelo, non la vedo da tanto. Il suo volto è di fronte al mio e i suoi occhi grigi sembrano lucidi, ma è solo un breve istante. È alta quasi quanto me, così si allunga e mi fa dono di un bacio frettoloso, poi si stacca, si ricompone e mi scruta meglio da una certa distanza.

    «Sei dimagrito, mangi abbastanza?».

    Ecco la prima domanda a trabocchetto, devo ricordarmi di rispondere nel modo giusto o rischio di essere tartassato da un fuoco di fila senza scampo.

    «Certo, sia a pranzo che a cena».

    «E a colazione».

    «La colazione è importante».

    Sento Penelope che ridacchia alle mie spalle e sorrido. Mi giro verso di lei, che si ricompone, facendo finta di assumere un tono serio. Adoro questa ragazza, è una ventata di spontaneità qui dentro. È l’unica che non è cambiata affatto, se non per il taglio corto che le arriva appena alle spalle, ma i suoi capelli neri sono setosi come ricordavo, e i suoi occhi, altrettanto scuri, mi sorridono accesi. Mia sorella ha il sole dentro anche a dicembre, non è unica al mondo?

    «Dov’è papà?», le chiedo perché voglio vederlo al più presto. Mi è mancato.

    «È in taverna, sta sistemando una vecchia madia per il mio negozio».

    Faccio un cenno di assenso e mi tolgo il cappotto. Penelope lo prende e lo guarda. «Fratellone, forse dovresti cambiare un po’ il tuo look, questo cappotto ti fa sembrare più vecchio, ma da quel che ricordo sei ancora abbastanza giovane», mi provoca e lo fa soppesandomi con aria furba, mentre appende il cappotto vicino alla porta, dove una distesa di giubbotti sgargianti è in mostra.

    «Ma è arrivato Enea?». La voce di mia nonna mi costringe a guardare in su, verso la cima delle scale. Eccola lì, quella che ci seppellirà tutti, la donna senza età, con la faccia più sveglia che abbia mai conosciuto. Non giocherò mai più a poker con lei o mi lascerà in mutande.

    Ha i capelli lunghi bianchi raccolti in una coda di cavallo, neppure avesse quindici anni, e forse li ha davvero e io non me ne sono accorto. Indossa un paio di jeans stazzonati all’ultima moda e una maglietta a maniche lunghe di cotone a righe bianche e blu. È più moderna di me, e questo mi inquieta abbastanza: non vorrei essere costretto a guardarmi con gli occhi di Penelope. Scende le scale come se volasse, io penso solo: Non cadere, nonna.

    Mi avvolge in un abbraccio vigoroso; dove trovi tutte queste energie a ottantaquattro anni lo sa solo lei. Affonda il suo viso nel mio maglione all’altezza del petto, mi arriva a malapena alle spalle.

    «Nonna, sei in gran forma».

    «Anche tu!».

    Sgrano gli occhi, sentendo che mi sta palpando il sedere.

    «Sei ancora sodo, bene».

    Penelope ed Elena ridono senza ritegno, mentre io arrossisco e cerco di divincolarmi. «Mamma dice che sono dimagrito».

    Nonna Marika si allontana e mi osserva. «Cazzate, stai benissimo, e i muscoli sodi del tuo culo lo dimostrano».

    Credo di essere diventato viola. Mi giro verso mamma, che è impassibile. Mi chiedo come io e lei possiamo appartenere alla stessa progenie di Marika. Questi sono i misteri insondabili del cosmo. «Vado da papà». Senza aspettare altro, mi defilo e imbocco le scale che portano nel seminterrato, dove papà ha stabilito il suo laboratorio di restauro. Sento già la puzza di vernice e di qualche altra sostanza probabilmente tossica che mi sale su per le narici, e mi domando se non sarebbe meglio rimanere sopra. No, meglio qui, almeno ho a che fare con un po’ di testosterone, le donne di sopra e le tastate mi sono bastate.

    «Papà?», lo chiamo mentre scendo gli ultimi gradini. La luce sparata dai faretti a led sul soffitto mi fa pensare di stare ai tropici con il sole allo zenith. Socchiudo le palpebre per abituarmi.

    «Enea?». La sua voce è profonda e decisamente sorpresa: neanche lui si aspettava di

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