Introduzione al Sufismo
Di As-Sulami
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Anteprima del libro
Introduzione al Sufismo - As-Sulami
I
NTRODUZIONE
Maestri e discepoli
Nella sua introduzione a un recente studio sulla storia del Sufismo, Gilles Veinstein faceva notare che oggi, agli occhi degli occidentali, la civiltà dell’Islâm rischia di scomparire ogni giorno di più dietro al velo del fondamentalismo. La parola sharî‘a, la legge sacra dell’Islâm, che pure s’applica a un corpo di dottrine molto meno uniforme di quanto si creda, tenendo conto della diversità delle scuole giuridiche e della diversità d’opinioni più o meno rigoriste al loro interno, è divenuta per molti occidentali il simbolo di un ordine sociale arcaico e barbaro, in cui la donna, considerata una creatura inferiore e asservita all’uomo, viene lapidata e segregata, in cui la mano di ogni ladro viene amputata, in cui ogni fedele si trasforma, in base all’obbligo del jihâd, in un potenziale terrorista. "Non c’è più nessuno – afferma Veinstein – che al giorno d’oggi non conosca la parola fatwâ, ma la maggior parte non sa che essa s’applica a un parere rilasciato da un giurisperito su questioni di diritto tra le più varie, e sono convinti che essa significhi semplicemente una cosa: condanna a morte"¹. Si ha quasi l’impressione, costatando il semplicismo con cui oggi si preferisce affrontare qualsiasi argomento che riguardi la civiltà islamica, che tutto quello che s’era guadagnato finora dagli studi sui filosofi, i poeti e la letteratura, sull’architettura e la metafisica, per non parlare delle cronache di viaggi in oriente dei secoli passati, si stia volatilizzando e che al suo posto debba rimanere la tendenza al giudizio grossolano e la rinuncia a voler capire.
A questo punto, continuava Veinstein, dobbiamo tornare a parlare della scienza del cuore
, a tracciare ancora una volta il confine tra il jihâd del cuore e il jihâd dell’azione, tra il grande e il piccolo jihâd, così come il Profeta stesso li aveva descritti in uno dei suoi memorabili detti. È questa infatti la chiave per poter di nuovo entrare nel merito della civiltà tradizionale e parlare dell’Islâm e dei suoi fondamenti. Il perfezionamento di sé, concetto racchiuso nell’espressione al-jihâd al-akbar, lo sforzo maggiore
, è il filo conduttore che cuce insieme tutte le scienze tradizionali islamiche; esso regola e dirige la vita dei credenti verso un unico ideale di perfezione; anzi, direi che è questo, e non l’azione o lo sforzo minore
(al-jihâd al-asghar), il principio che guida da sempre i musulmani attraverso le prove del combattimento interiore, della pazienza, della sottomissione e della meditazione.
La via del Sufismo è la via del perfezionamento individuale. Sin dalle prime assemblee dei primi gruppi di asceti di Medina, nei primi anni dell’ègira, i caratteri del Sufismo erano ben delineati nelle figure dei compagni più vicini a Muhammad. La figura stessa del Profeta, spesso visto da molti occidentali solo come un condottiero abile e astuto, offre l’immagine più perfetta del maestro spirituale; la tradizione ce lo descrive mentre si dedicava al digiuno e a lunghe veglie di preghiera, mentre era circondato dai suoi compagni che lo seguivano con deferenza, muti e attenti, in particolar modo nei momenti in cui gli giungeva l’ispirazione, durante i quali, secondo le testimonianze: Era come se un uccello si trovasse sulle loro teste
². Lo stesso appellativo di compagno
(sâhib pl. ashâb o sahâba) traduce l’importanza della compagnia (suhba), senza la quale non è possibile comprendere l’ambiente del Sufismo antico e medievale; essere compagni di un maestro, ascoltare le sue parole, vivere vicino a lui, osservare i suoi gesti anche i più insignificanti e condividere con altri compagni questa stessa esperienza, tutto questo veniva indicato dal termine compagnia
. Con la sua presenza il maestro (murshid) modellava la personalità dei discepoli, raffinava la loro condotta morale e li guidava nella via spirituale; in questo modo la compagnia del maestro trasformava dei semplici discepoli in degli iniziati.
Accanto a ciò era altrettanto importante che vi fosse nella compagnia il rispetto delle regole della buona condotta
(adab) e che il discepolo adottasse alla presenza del maestro spirituale e dei compagni, specie se anziani, un preciso codice di comportamento. Una delle regole di questo codice era che bisognava trattare ciascuno secondo la sua condizione: rispettare gli uomini anziani come padri, trattare con gentile familiarità quelli della stessa condizione, i ragazzi con affetto, come dei figli. Rinunciare all’animosità, all’invidia, alla malizia e non ignorare le ammonizioni sincere provenienti da chiunque. Non era ammissibile parlare male dell’assente o agire in modo disonesto, poiché il principio alla base dei rapporti tra compagni era quello contenuto nel versetto coranico che recita: "Non vi sarà conciliabolo di tre che non abbia Lui per quarto" (Cor. 58:8).
A cominciare dai primi trattati, in tutta la letteratura sûfî c’è sempre stato un richiamo alle regole della buona condotta. Forse l’opera più famosa sull’argomento scritta nel periodo aureo del Sufismo è il Kitâb Adâb al-Murîdîn, ovvero Il libro delle regole di buona condotta degli aspiranti
di ‘Abd al-Qâhir abû Najîb Suhrawardî (m. 1168). Non meno importante è il Kitâb Adâb as-Suhba ovvero il libro delle regole della buona condotta da adottare durante la compagnia
del nostro Sulamî; prima ancora Junayd al-Baghdâdî (m. 910) aveva scritto il Tashîh al-Irâda: La rettifica della determinazione del discepolo
e al-Hârith al-Muhâ-sibî (m. 857) la Risâla al-Mustarshidîn: L’epistola sull’istruzione dei discepoli
. Il modello di riferimento principale dell’adab è rintracciabile nell’episodio coranico del viaggio di Mosè narrato nella sûra XVIII. A un certo punto del suo viaggio, mentre era alla ricerca della Fontana di Vita
alla Confluenza dei Due Mari
, il profeta Mosé s’imbatté in un personaggio misterioso, al quale i commentatori danno quasi universalmente il nome di, Khidr o al-Khâdir: il Verdeggiante
, e al quale Iddio aveva confidato una Scienza proveniente da Lui
(al-‘ilm al-ladunnî). Mosè domandò allora a questo personaggio misterioso di poterlo accompagnare, di poter essere guidato da lui e di ricevere parte di quella Scienza. Questi rispose a Mosè che l’avrebbe potuto accompagnare solo se avesse dimostrato di aver pazienza, e disse: "Se tu dunque vuoi seguirmi, non domandarmi nulla di cosa alcuna, finché non sia io a fartene menzione" (Cor. 18:70). Dopo aver per due volte infranto la regola datagli dal Khidr, questi congedò Mosè, non senza avergli prima rivelato il significato profondo di quel che era successo durante il periodo passato in sua compagnia. In questo racconto Khidr è l’archetipo del maestro che istruisce, e Mosè quello del discepolo che ascolta, che in ogni caso deve attenersi a quelle regole di buona condotta che sono imprescindibili per ottenere la conoscenza da un maestro.
L’ adab, la cortesia e le buone maniere, secondo una definizione classica, è di tre tipi: il primo è l’agire convenientemente nei confronti di Dio in pubblico e in privato e fare in modo di evitare ogni atto offensivo, agendo come se si stesse sempre alla presenza di un re. Il secondo è il rispetto dovuto a se stessi, in ogni momento, di fronte a Dio e agli uomini, non pronunciando mai parole che non corrispondono alla realtà, o affermando di essere quello che non si è. Il terzo è il rispetto dovuto ai propri compagni e consiste nel cercare di migliorare se stessi attraverso la compagnia di coloro che sono migliori³.
Adottare una condotta negativa nei confronti dei propri compagni era per gli antichi maestri, indice di un difetto interiore che poteva, nel caso dei discepoli imperfetti, condurre a esiti spirituali fuorvianti e pericolosi e quindi doveva essere corretto. In uno dei tanti apologhi tradizionali della letteratura sûfî antica, si legge che un giorno, un discepolo del grande maestro Junayd di Baghdâd, immaginò di aver raggiunto un tale grado di perfezione che pensò che sarebbe stato meglio per lui allontanarsi dai suoi compagni e isolarsi ritirandosi nella sua cella. Quando scese la notte gli apparve un cammello e gli fu detto che esso l’avrebbe portato in paradiso; salì in groppa al cammello e fu condotto in un luogo piacevole, abitato da creature bellissime, in cui vi erano cibi squisiti e ruscelli d’acqua dolce; rimase lì fino all’alba, quindi cadde addormentato e al risveglio si ritrovò alla porta della sua cella. Queste esperienze riempirono il discepolo di soddisfazione ed egli non mancò di vantarsene con i suoi compagni. Quando Junayd venne a sapere di questa storia si affrettò alla cella del discepolo e dopo aver avuto da lui il resoconto di quello che aveva visto, gli disse: Questa notte, quando arriverai in quel posto, ricordati di recitare per tre volte: ‘Non c’è forza né potenza se non in Dio, l’Altissimo, l’Eccelso’
. Quella stessa notte egli fu trasportato come la sera prima, e sebbene il suo cuore non credesse a Junayd, egli volle lo stesso provare e recitò per tre volte la formula. La folla intorno a lui gridò e svanì, ed egli si trovò seduto sull’immondizia in mezzo a un mucchio d’ossa marce. Comprese la sua colpa e ritornò in mezzo ai suoi compagni⁴.
Amore