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Di mercoledì
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E-book415 pagine4 ore

Di mercoledì

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Info su questo ebook

Prendere una sbandata con i fiocchi per la preside del liceo della propria figlia e avviare una comoda, ma segreta, non-relazione a sfondo sessuale, potrebbe rivelarsi un tantino impegnativo, soprattutto se, a causa di un divorzio fuoco e fiamme, non si conosce affatto questa figlia dalla vita sociale pari a zero e si vive in una città di provincia.
Ecco ciò che accade a Michele Bastiamante, editore di successo, e a Nera Valdraghi, preside di un liceo.
La disinvoltura di Michele si scontrerà con il perbenismo di Nera in uno scambio tra il serio e il faceto che ridisegnerà la vita di entrambi.

La sua accompagnatrice scostò la porta, lui entrò e la prima immagine che ebbe della preside del liceo scientifico “Niccolò Copernico” fu il suo fondoschiena. Il suo magnifico fondoschiena, per essere precisi. La donna era china a novanta gradi in una posizione piuttosto precaria che le consentiva, però, di armeggiare con i fili del computer che pendevano tra il muro e la scrivania.
«Ma porco giuda, Cavalli» imprecò, «si può sapere chi ha incasinato così i fili?»
Michele tossì. Gli sembrò la cosa più elegante da fare per segnalare che non era Cavalli. La donna si tirò su di scatto, rivelando, come seconda immagine, una chioma rossa, lunga e tutt'altro che adatta al ruolo di dirigente scolastico. Perfettamente in pendant con il fondoschiena, però. Infine, girandosi, esibì il viso, un ovale bello e freddo, con due occhi metallici e chiarissimi che mettevano in ombra tutto il resto. Anche il fondoschiena, il che era tutto dire.
«Michele Bastiamante?» domandò. Non sembrava per nulla imbarazzata dall'essere stata sorpresa a imprecare come un carrettiere.
«Sono io.»
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2020
ISBN9788835827450
Di mercoledì

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    Anteprima del libro

    Di mercoledì - Rebecca Quasi

    Hugo)

    1.

    A rapporto dal preside

    Era difficile che le cose potessero peggiorare, ma in ottobre di fatto precipitarono e Michele Bastiamante fu convocato a scuola.

    Aveva provato a chiedere a sua figlia Eugenia il motivo, ma la ragazza, che con lui sì e no ci parlava, aveva risposto a monosillabi.

    Eugenia aveva la media del nove e dieci in condotta, quindi la convocazione era quantomeno singolare. Almeno così pensava.

    Probabile che fosse una delle mille seghe mentali della scuola.

    Guardò la firma del dirigente scolastico in fondo alla mail ed ecco svelato l'arcano: era una donna, Prof.ssa Nera Valdraghi, il che spiegava tutto o quasi.

    Di sicuro era un problema del cazzo, solo che a Eugenia era morta la madre un mese e mezzo prima, per cui era prevedibile che i segaioli della scuola volessero mostrarsi premurosi e attenti.

    In pochi sapevano che la madre di Eugenia, ex moglie di Michele, era stata la donna più rompicoglioni dell'emisfero occidentale e che scomparire dalla vita della figlia in realtà aveva costituito per tutti una gran botta di culo.

    Oddio, finire sotto una macchina poteva essere considerato un modo un po' drastico di scomparire. Potendo scegliere, Michele avrebbe preferito che lei rinsavisse o che Eugenia andasse a studiare all'estero, ma il destino aveva fatto sì che un'auto centrasse Stefania mentre stava andando al supermercato.

    Rispose quindi in modo lapidario alla mail accettando l'appuntamento e poi andò a bussare alla porta della camera di sua figlia.

    Interpretò un brontolio sconnesso come segnale di avanti.

    Entrò.

    La camera di Eugenia sembrava la cella di un monaco, o di un marine: tutto in ordine, allineato, nessuna foto alle pareti, nessun oggetto personale in vista.

    La ragazza, seduta alla scrivania, era china sul dizionario di latino. Due matite perfettamente allineate stavano accanto al quaderno su cui era appoggiata una penna a sfera; il libro, da cui probabilmente era tratta la versione, giaceva aperto lì accanto. Michele notò che sul comodino c'era un volume incartato con fogli di giornale (per celarne la copertina? Ma a chi? A lui, visto che non c'era nessun altro in casa).

    Si sedette sul letto e, prima di parlare, la osservò per alcuni istanti; la ragazzina, dal canto suo, finse che lui non fosse entrato e continuò a scrivere.

    Non era particolarmente graziosa.

    Assomigliava sia a lui che alla madre, ma la mescolanza non aveva sortito un risultato riuscito sul versante avvenenza. E dire che Stefania era una bella donna e anche lui non era male.

    Forse erano l'espressione assente, la trascuratezza nel vestire, la sensazione che emanava di perenne sconforto, tristezza, apatia. O il fatto che fosse sovrappeso, alla sua età il fisico aveva una certa importanza e lei sembrava una piccola damigiana.

    «Eugenia...»

    «Mh.»

    Non aveva nemmeno alzato lo sguardo.

    «È arrivata una mail dalla tua scuola, la preside vuole vedermi dopodomani».

    Assenza di segnale.

    Meglio una domanda diretta.

    «Hai idea del perché?»

    Eugenia alzò appena le spalle. Erano coperte da uno scialle di lana grigia, di sicuro un cimelio della madre, qualcosa che nessuna ragazzina di sedici anni vagamente normale avrebbe mai indossato.

    «Eugenia, è meglio se lo so prima...» provò a dire.

    Lei smise si scrivere, ma non si voltò.

    «Non ce l'ho l'autorità per sgridarti» continuò suo padre, «sì e no ti conosco. Non ho intenzione di punirti, voglio solo aiutarti, se posso.»

    Avrebbe voluto aggiungere Sto dalla tua parte, ma poi si trattenne. C'era il rischio che lei non gli credesse e che di conseguenza non credesse nemmeno a ciò che le aveva appena detto.

    Non era affezionato a sua figlia e lei non lo era a lui, si erano visti troppo poco e con troppe difficoltà, ma si sentiva perdutamente responsabile di lei. Sì, perdutamente responsabile.

    Non aveva avuto scelta, quel peso gli era capitato con il decesso improvviso di Stefania, ma era deciso ad arrivare fino in fondo a qualunque costo.

    Eugenia però taceva.

    Aveva posato la biro nel centro del quaderno, nel punto in cui le pagine si uniscono. Sembrava un tiepido segnale di collaborazione.

    «È successo qualcosa? La scuola è iniziata da poco, c'è tutto il tempo per rimettere le cose a posto.»

    «Non è successo niente di nuovo.»

    Non si aspettava che gli rispondesse.

    Non si era voltata, non lo aveva nemmeno guardato.

    «Va bene. Vedrò cosa mi dicono. Non devi preoccuparti, d'accordo?»

    «D'accordo.»

    Michele si alzò in piedi. Per un attimo pensò di avvicinarsi, ma sentì che non era il caso.

    «Ceniamo alle otto, okay?»

    «Va bene.»

    Quella notte, sdraiato sul letto in cui aveva dormito per tutta la durata del suo infelice matrimonio, Michele era più inquieto del solito.

    Non occorreva una mail della scuola per rendersi conto che la figlia aveva qualcosa di bislacco (come minimo), ma quella convocazione aveva reso la stranezza di Eugenia in qualche modo ufficiale e aveva riaperto le domande sulla loro storia.

    Dove aveva sbagliato, non era la domanda giusta.

    Quando aveva cominciato a sbagliare, era certo più pertinente.

    Aveva sbagliato a sottovalutare la depressione post-parto di Stefania.

    Aveva sbagliato a lasciarle campo libero sull'educazione di Eugenia: dopo le prime discussioni, aveva rinunciato a difendere il proprio punto di vista, perché il loro rapporto tendeva a logorarsi in fretta.

    Aveva sbagliato a non pretendere che si trasferissero tutti con lui a Milano, quando aveva preso le redini della casa editrice che allora dirigeva e che attualmente possedeva.

    Stefania non aveva più ripreso a lavorare dopo la nascita di Eugenia, per cui non c'erano ragioni stringenti per restare nella piccola città di provincia. Ma lei non aveva voluto sentir ragioni, e aveva addotto motivazioni assurde: l'asilo, gli amichetti di Eugenia (che aveva due anni), le sue amicizie (che erano inesistenti), la città più a misura d'uomo, l'inquinamento.

    E lui aveva ceduto. Di nuovo.

    Il motivo?

    Non ci teneva ad averla tra i piedi, perché era esasperante, incontentabile, astiosa, perennemente depressa, di quella depressione aggressiva e tossica che avvelenava tutti quelli che le stavano intorno.

    E così le aveva consegnato sua figlia.

    Quello era stato lo sbaglio peggiore.

    Era il momento giusto per cominciare a sentirsi in colpa. Anzi, era in ritardo di quattordici anni.

    Non era affezionato a Eugenia, non più.

    Aveva provato molta tenerezza quando era nata e per un po' quando era piccina, poi si erano allontanati, Stefania li aveva allontanati, e lui non si era opposto. Non abbastanza.

    Al momento era il solo genitore in carica di quell'adolescente sgraziata e taciturna e questa situazione smuoveva tutto il suo senso di responsabilità, ma da lì al volerle bene ce ne voleva!

    Che poi lui non era uno che si affezionava.

    Quando aveva aperto gli occhi, si era accorto che non aveva mai amato Stefania.

    Si era invaghito di lei perché era bella e con un carattere di merda, due caratteristiche eccellenti per una sfida più che per un matrimonio.

    Dopo che si era trasferito da solo a Milano, per tre anni era tornato a casa tutti i fine settimana. Uno strazio che solo a ripensarci gli si congelavano le palle.

    Infine, quando Eugenia aveva compiuto cinque anni, avevano divorziato.

    Aveva preso lui quella decisione, Stefania sarebbe andata avanti a oltranza con quella farsa.

    Si era opposta, ma quando lui le aveva garantito alimenti da capogiro, una cifra che le avrebbe permesso di non riprendere a lavorare, aveva ceduto.

    E lì erano stati posti i sigilli sul suo definitivo allontanamento da Eugenia.

    L'avrebbe vista ogni quindici giorni.

    Fu chiaro da subito che la bambina non sarebbe mai andata a Milano. Quando lui si era presentato a prenderla la prima volta, Eugenia aveva urlato come una pazza, aveva scalciato in preda a una crisi isterica e lui se n'era andato, aveva dormito in hotel e il giorno dopo l'aveva portata a prendere un gelato.

    Non era mai riuscito a portarla a casa sua, non erano mai andati in vacanza loro due, c'erano stati sporadici gelati, qualche pranzo quando era stata più grande e poi negli ultimi tempi penose telefonate e incontri mensili dove, per arrivare a un numero di minuti dignitosi per dire che si erano visti, era necessario sottoporsi a una pena che li lasciava sfiniti.

    A fine agosto Stefania si era fatta investire.

    Non l'aveva fatto apposta, c'erano modi più economici di farsi da parte, però

    Michele continuava a provare una profonda irritazione.

    Era infantile, irrazionale e poco pratico, ma che Stefania fosse finita sotto un'auto lo faceva incazzare.

    Aveva dovuto mollare tutto e precipitarsi da una figlia che sì e no conosceva.

    L'aveva trovata all'obitorio, da sola. Non un amico, un vicino, nessuno. L'unica persona presente era una psicologa dell'AUSL che aveva avuto la carità di aspettare con lei l'arrivo di suo padre.

    I genitori di Stefania erano morti e gli altri parenti si erano allontanati. Anche quello era un bel sintomo.

    La psicologa gli era andata incontro indovinando che il tizio dall'aria stranita dovesse essere il padre della ragazzina che era andata a prelevare a scuola poche ore prima.

    Era stata molto brava, rispettosa e delicata. Aveva chiesto il minimo indispensabile e, con un garbo che Michele aveva apprezzato moltissimo, gli aveva dato consigli su come gestire l'emergenza, poi gli aveva lasciato il proprio biglietto da visita.

    Era stata lei, nei giorni successivi al funerale, a consigliarlo di non trapiantare subito Eugenia dal suo ambiente.

    Aveva senso.

    Così si era trasferito lui.

    Aveva istruito i suoi collaboratori, aveva delegato cose che in condizioni normali non avrebbe affidato a nessuno ed era tornato a stare nell'appartamento in cui aveva vissuto tutti gli anni demenziali del suo matrimonio.

    Si addormentò su quei pensieri.

    Fece sogni sconclusionati e, quando la mattina seguente si alzò per preparare la colazione a Eugenia, si accorse che lei era già uscita.

    2.

    La preside Valdraghi

    La mattina dell'appuntamento con la preside decise di mettersi in tiro: completo, camicia bianca e cravatta blu, giusto per mettere i puntini sulle I e stabilire la distanza adeguata.

    Si piazzò davanti allo specchio a figura intera: sì, niente male, un cinquantenne belloccio, distinto e serio.

    E irritatissimo.

    Si aggiustò il nodo della cravatta, bevve il caffè facendo attenzione a non imbrattarsela, quindi uscì di casa.

    Mentre armeggiava per chiudere la porta si sentì chiamare.

    «Ehi!»

    Non che Ehi fosse un appellativo al quale in genere rispondeva, ma sul pianerottolo non c'era nessuno, per cui quel richiamo poteva essere rivolto solo a lui.

    Si voltò verso la fonte di quella voce e vide una tizia alta, sulla ventina, infilata in abiti da Barbie che lo scrutava con pochissimi riguardi verso il pudore.

    «Ehi vicino!» ribadì quella sorridendo.

    Ecco, ci mancava solo la vicina disinvolta.

    «Salve» rispose pacato.

    «Sei l'ex della tizia che...»

    Probabilmente stava per dire che è finita sotto una macchina, ma all'ultimo doveva averlo ritenuto un po' brusco come incipit. C'erano speranze.

    «Sì» confermò Michele.

    «Wow!»

    Wow era proprio un bel commento.

    «Io sono Angelica, la tua vicina.» Gli tese una mano. Con le unghie laccate di blu.

    Michele ricambiò la stretta: «Michele Bastiamante.»

    «Wow!»

    Forse Eugenia non era poi così male.

    «Scendi?» gli chiese un attimo dopo, premendo il pulsante dell'ascensore. Ovviamente. Come se uno potesse andare in solaio in giacca e cravatta.

    «Sì.»

    «Bene. Io faccio la commessa da Zara, ma non è la mia aspirazione.»

    Decisamente, era meglio il mutismo di Eugenia.

    «Capisco.»

    «Ho un blog di moda, come Chiara Ferragni. Sai chi è Chiara Ferragni?»

    «Sì.»

    «Non è il massimo lavorare da Zara, ma è sempre nell'ambito della moda, non trovi?»

    «Indubbiamente.»

    «Tu che fai?»

    E lì ebbe la tentazione di mentire: spazzino? Fornaio? Fiorista? Perché dire a una tizia del genere che era nell'editoria era una condanna, se lo sentiva. Decise di stare sul vago.

    «Vendo libri.»

    «Ah!»

    Il suo punteggio pareva in picchiata, bene.

    In quel momento si aprì la porta dell'ascensore che era un cubicolo da claustrofobia.

    Da uomo d'altri tempi quale era, Michele fece entrare prima Angelica, poi la seguì cercando di tenere da lei tutta la distanza possibile.

    Il suo profumo fruttato, dentro il minuscolo abitacolo, era un bel cazzotto sul naso.

    Quattro piani, fra quattro piani è finita, si disse sorridendo.

    «Io credo che per avere successo, nella vita, occorra partire dal basso. E più basso della commessa da Zara non mi viene in mente niente» proseguì la ragazza.

    Non era un'idea scema, solo che con una tizia vestita con ritagli di stoffa assemblati a caso, con le unghie blu e i capelli tirati in una coda talmente stretta da allungarle il taglio degli occhi, facevi fatica ad andare oltre l'apparenza.

    «Molte ragazze della mia età pensano solo a studiare.»

    Già, che cretine!

    «Io invece, voglio combinare qualcosa.»

    «Sembra un buon piano» approvò Michele.

    A proposito di piani, ne mancava solo uno, poi l'ascensore si sarebbe fermato.

    «Studiare, l'università, ti fanno perdere di vista la realtà, non credi?»

    Veramente no, ma lo tenne per sé.

    «Dipende.»

    «Tu ci sei andato all'università, si vede.» Glielo disse scuotendogli sotto il naso l'indice blu.

    «Beccato.»

    Dio che angoscia! Ma a che cazzo servono gli ascensori?

    «Scommetto una facoltà assurda tipo marketing.»

    «Lettere.» Non resistette.

    «Ancora più assurda» ridacchiò Angelica.

    E dire che ci conosciamo da due minuti, pensa se fossimo amici? si disse Michele.

    Da quel momento in poi non avrebbe più criticato il mutismo di Eugenia.

    Dlin.

    L'ascensore si era posato a terra. Dio esiste!

    Le porte si aprirono e Michele schizzò fuori incurante del galateo, delle buone maniere e di altre simili cazzate.

    «Ci vediamo, vicino!» gli sbraitò dietro la ragazza tutta allegra.

    Addio, pensò lui, ma poi le sorrise e la salutò con la mano.

    «Se hai bisogno, sai dove trovarmi» fu l'ultima cosa che le sentì dire prima di arrivare all'auto.

    Michele giunse alla scuola di Eugenia, il liceo scientifico Niccolò Copernico, con un quarto d'ora d'anticipo.

    La guardiola all'ingresso era presidiata da un drappello di bidelle; una di loro uscì andandogli incontro.

    «Desidera?»

    «Sono Michele Bastiamante, ho un appuntamento con la preside.»

    «Un attimo.»

    L'incontro con la svitata in ascensore aveva distolto la sua attenzione dall'imminente appuntamento, per cui, quando vide arrivare una donna sulla sessantina e sotto il metro e cinquanta, rimase alquanto spiazzato.

    «Venga» disse brusca la signora.

    Era la preside? Quell'acconto di donna dirigeva un liceo?

    Zoppicava anche leggermente, il che faceva ondeggiare in modo buffo la nuvoletta di capelli bianchi che aveva in testa.

    I pregiudizi che aveva covato stavano mettendo radici.

    Sicuramente era una che non sapeva come 'tirare a sera' e il caso 'Eugenia' doveva esserle sembrato un passatempo conveniente.

    «Si accomodi» disse la donna con lo stesso tono di prima, poi aprì la porta davanti alla quale si era fermata. «La preside l'aspetta.»

    Dunque, quella era solo un'eminenza grigia. Cantonata numero uno.

    La sua accompagnatrice scostò la porta, lui entrò e la prima immagine che ebbe della preside del liceo scientifico Niccolò Copernico fu il suo fondoschiena. Il suo magnifico fondoschiena, per essere precisi.

    La donna era china a novanta gradi in una posizione piuttosto precaria che le consentiva, però, di armeggiare con i fili del computer che pendevano tra il muro e la scrivania.

    «Ma porco giuda, Cavalli» imprecò, «si può sapere chi ha incasinato così i fili?»

    Michele tossì. Gli sembrò la cosa più elegante da fare per segnalare che non era Cavalli.

    La donna si tirò su di scatto, rivelando, come seconda immagine, una chioma rossa, lunga e tutt'altro che adatta al ruolo di dirigente scolastico. Perfettamente in pendant con il fondoschiena, però.

    Infine, girandosi, esibì il viso, un ovale bello e freddo, con due occhi metallici e chiarissimi che mettevano in ombra tutto il resto. Anche il fondoschiena, il che era tutto dire.

    «Michele Bastiamante?» domandò. Non sembrava per nulla imbarazzata dall'essere stata sorpresa a imprecare come un carrettiere.

    «Sono io.»

    Le tese la mano e lei la strinse uscendo da dietro la scrivania.

    Ecco, le gambe, pervenute dal ginocchio in giù grazie a una gonna stretta e fasciante, a loro volta surclassavano gli occhi. Per fortuna non c'era altro da vedere. O meglio, di visibile.

    Michele ricordò a se stesso che era lì per Eugenia. Sua figlia. E che quella era una preside.

    «Si accomodi» lo invitò la rossa.

    Gli indicò la poltrona di fronte alla scrivania e lei si sedette dall'altra parte.

    Gli sorrise, non un sorriso caloroso, né particolarmente spontaneo, ma un'espressione che la rendeva ancora più affascinante. Quella donna, accidenti a lei, era un concentrato di sex appeal.

    Il proposito di fare il duro, di tenere una posizione spocchiosa e arrogante, cominciava a vacillare ancora prima di conoscere il motivo della convocazione.

    «Immagino sappia perché le abbiamo chiesto di venire» esordì la preside.

    Doveva avere a occhio una quarantina d'anni, si capiva dalle piccole rughe intorno agli occhi, che Michele trovò molto decorative, no, sexy.

    «A dire il vero, no. Ho provato a parlare con Eugenia, ma non mi ha detto nulla. Noi non siamo molto... era legata a sua madre.»

    «Sì, capisco» rispose la preside, poi si sporse in avanti e posò gli avambracci sulla scrivania. «Il punto è che sua figlia, da alcune settimane, è vittima di una banda di bulli.»

    Michele restò impassibile.

    I bulli, un nome moderno per un fenomeno vecchio come il mondo.

    «Non sono ragazzi della sua classe, sono suoi ex compagni, erano con lei alle medie. Sono cinque, tre femmine e due maschi. Le dice qualcosa?»

    «Veramente no.»

    Avrebbe dovuto essere in imbarazzo, vergognarsi forse. Non sapere un cazzo di niente di sua figlia non era normale, ma così era e aveva scelto, non proprio consapevolmente, di star lì seduto ad ascoltare.

    «Be' questi...» si capì che stava per sfuggirle un improperio, «questi qui, l'hanno presa di mira, la prendono in giro, la chiamano Genia, le hanno nascosto lo zaino svariate volte e ultimamente le impediscono di salire sull'autobus. A che ora arriva a casa Eugenia?»

    «Verso le due... un po' prima delle due. Arriva sempre allo stesso orario, pensavo fosse l'orario normale.»

    «Eh, no, le tocca aspettare venti minuti e prendere il mezzo successivo.»

    «Eugenia non mi ha detto niente... È molto chiusa, con me non parla. Ci siamo sempre visti poco... Con Stefania è stata una separazione difficile, lei era...»

    Non sapeva cosa dire, come dirlo, non voleva giustificarsi perché non c'erano giustificazioni, ma di fatto uno nella sua posizione, piombato nella vita di Eugenia il 25 di agosto, non poteva, il 7 di ottobre, essere al corrente di certe cose.

    «Guardi che conosciamo benissimo la situazione.»

    Quegli occhi metallici sembravano dire molto.

    «La chiamano Genia ...» ripeté Michele tra sé, poi sogghignò. Gli era venuto in mente il primo contrasto con Stefania, avvenuto quando avevano dovuto decidere il nome della loro bambina e naturalmente lui non aveva deciso un bel niente. «Mi dica, come si fa a chiamare una neonata Eugenia? Bisogna essere deficienti, ma Stefania fu irremovibile. Quando uno nasce non si sa se avrà una personalità stellare, se sarà una bellezza, perché in quel caso puoi chiamarti anche Stercazia che nessuno ti prenderà per il culo, e quindi due genitori normali, previdenti, prudenti, dovrebbero stare sul vago e chiamarti che ne so, Alice, o Anna, o Sara... non EU GENIA, perdio! Prendiamo lei,» era proprio partito, «si chiama Nera, i suoi mica lo sapevano che sarebbe diventata un pezzo di donna che... E, mi scusi, ma hanno corso un bel rischio ad appiopparle un nome del genere.»

    Smise di parlare solo quando si accorse che la signora lo stava fissando divertita. Considerando quel che gli era uscito di bocca, si sarebbe aspettato sbigottimento e invece la preside Valdraghi tratteneva a stento una risata.

    «Mi scusi» aggiunse.

    «È un interessante punto di vista, il suo. In ogni caso Eugenia ormai si chiama così e dobbiamo far buon visto a cattivo gioco.»

    Michele si puntellò i gomiti sulle ginocchia, si sentiva un po' impotente (e anche imbecille), non tanto per la sparata assurda sul nome, quello era stato uno sfogo, ma per quel che stava succedendo: avrebbero potuto dirgli che sua figlia spacciava droga o rapinava banche, e lui non avrebbe avuto nessun elemento per dissentire.

    «Il punto è questo, signor Bastiamante» lo richiamò all'ordine la preside. «Io ho individuato e punito i cinque stronzi che hanno preso di mira sua figlia, lei però deve sistemare Eugenia.»

    Sistemare Eugenia, cosa voleva dire? Aveva anche detto stronzi.

    Non fece in tempo a formulare la domanda che arrivò la risposta.

    «I bulli non se la prendono con gente con personalità stellari, come giustamente ha notato lei. Punendo i bulli, non risolviamo il problema di Eugenia, perché di stronzi è pieno il mondo. Stavolta li abbiamo scoperti in fretta perché sono anche dei coglioni, ma ce ne sono altri molto più furbi e subdoli che non si fanno beccare, mi segue?»

    «A tratti.»

    «Eugenia è una calamita per i bulli. Fino a che sarà così sfigata rimarrà un bersaglio fluorescente per i prepotenti. È più chiaro adesso?»

    «Cristallino.»

    «Bene. Far in modo che Eugenia non sia un bersaglio per i bulli è compito suo. Io posso difenderla a scuola, sorvegliarla, punire chi la prende in giro o la vessa, ma per tutto il resto ci deve pensare lei.»

    Una cosetta da niente.

    Michele si passò una mano sul viso e cercò di mettere ordine alle cose che voleva dire.

    «Eugenia è in terza... Immagino che avesse problemi analoghi anche gli anni passati.»

    «Non così gravi, ma sì. Diciamo che la presenza ingombrante della madre la tutelava, o meglio, ha rimandato l'apice. Sua moglie l'accompagnava a scuola e la veniva a prendere tutti i giorni, se Eugenia parlava con qualcuno, lei si intrometteva... Non so se ha presente?»

    Non aveva presente, ma non faticava a crederci.

    «Quando lei ha detto a Eugenia di venire a scuola da sola, che cosa le ha risposto sua figlia?»

    «Nulla. Pensavo che lo facesse anche prima.»

    «Eugenia non ha protestato?»

    «Ha presente una statua?»

    «La madre non lavorava, lei sì, suppongo.»

    «Sì, per ora lavoro da casa. Vivo a Milano, sono qui per lei.» Sospirò e poi alzò lo sguardo: «Immagino che abbiate convocato anche Stefania.»

    «Mh, sì, ha presente una statua?»

    Michele rise anche se non c'era niente da ridere.

    «Era sempre colpa degli altri, vero?»

    «Sì, non la capivano, non erano intelligenti come lei... erano maleducati...»

    Restarono un po' in silenzio a guardarsi.

    Non era esattamente il modo in cui si sarebbero dovuti guardare una preside e un genitore, era insorta un'intesa un po' troppo elettrica, uno di quegli scambi sotterranei che ti rimangono addosso anche se non vuoi. Ma stava andando così e non ci si poteva fare nulla.

    «Il guaio è che io non so da che parte cominciare... Non ci parlo nemmeno con Eugenia.»

    Quell'intesa pericolosa e personalissima aveva di bello che aveva azzerato il giudizio. Michele di fronte a quegli occhi di metallo avrebbe confessato tutto.

    «Be' innanzitutto deve obbligarla a lavarsi. Puzza.»

    Oddio, nemmeno quello sapeva.

    «Deve vestirsi in modo diverso. È da trogloditi giudicare le persone da come si vestono, ma siamo sempre lì: o te ne sbatti alla grande perché hai una personalità stellare e allora puoi anche vestirti come Gargamella e nessuno ti dirà niente, anzi ti imiteranno, o ti conformi, almeno un po'. Niente maglioni di lana fatti in casa...»

    «D'ora in poi di fatto in casa non avrà più nulla.»

    «Niente scarpe ortopediche. Non rovinano i piedi, ma fanno ribrezzo. Niente pantaloni della tuta di otto taglie in più. Capelli puliti. Profumo, deodorante, ogni mezzo è lecito, d'accordo?»

    «Tutto chiaro. Non so come fare, ma qualcosa inventerò. Spero di non finire in cronaca nera.»

    «E non speri di ottenere tutto subito. Ci vorrà del tempo, parecchio temo. E fatica.»

    «C'è altro?»

    La preside si alzò, girò attorno al tavolo e venne in piedi davanti a lui. Si appoggiò al bordo della scrivania, cosa che, ahinoi, tese ulteriormente la stoffa della gonna, e guardò Michele fisso negli occhi.

    «Eugenia è anche molto antipatica.»

    Lo disse piano, quasi sussurrando, era come se fino all'ultimo fosse stata indecisa se mettere o meno la ciliegina sulla torta.

    «Ma se non parla!» la difese d'istinto suo padre.

    «Con lei. Qui è logorroica. Interrompe gli insegnanti, pontifica, si sente superiore a tutti.»

    «A parte questo tutto bene?» provò a scherzare Michele.

    «Non c'è altro, tranquillo.»

    «Ottimo. Non ci sono amici su cui far leva, immagino.»

    «Che io sappia nessuno. Fa la spia se qualcuno copia, mette in difficoltà quelli interrogati...»

    «Bene. Ho capito.»

    Michele si alzò e tese la mano alla Valdraghi che ricambiò la stretta sorridendo. Per lei sembrava ordinaria amministrazione.

    Michele si avviò verso la porta, sicuramente meno baldanzoso di quando era arrivato e con un'opinione tutta diversa sui presidi e la scuola.

    «Per quel che vale, lei è uno dei pochi genitori che ha un atteggiamento sincero e non accampa scuse» gli disse la preside.

    «Oh be', sono anche uno dei pochi, spero l'unico, che ha consegnato sua figlia a una psicopatica.»

    «I divorzi sono meccanismi perversi. Si deve prima sopravvivere e poi ci si rimbocca le maniche.»

    Di tutte le cose che poteva dirgli, quella fu in assoluto la migliore.

    Michele le sorrise, strinse di più la mano che teneva ancora nella propria e poi uscì dall'ufficio della preside.

    Per la prima volta sentiva la preoccupazione come un'energia positiva, qualcosa di costruttivo.

    Sapeva per esperienza che riguardo

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