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La solitudine del ghiaccio
La solitudine del ghiaccio
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E-book356 pagine5 ore

La solitudine del ghiaccio

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Info su questo ebook

Tutto ha inizio il giorno in cui Nora Watts riceve la telefonata che ha temuto per quindici anni, da quando ha dato in adozione la figlia appena nata: la sua bambina è scomparsa. Non che sia una sorpresa. Bonnie è un tipo irrequieto, scappa di continuo, tanto che la polizia si è stancata di cercarla. Ma questa volta c'è qualcosa di diverso e i genitori adottivi, disperati, si sono rivolti a Nora nella speranza che la ragazzina abbia cercato la madre naturale.
Nora sa bene quanto siano pericolose le strade per un'adolescente sola. Lei stessa, tanto tempo prima, lo ha sperimentato sulla propria pelle nel modo più doloroso, così decide di mettersi sulle tracce di Bonnie, guidata solo dall'istinto e da un'inquietante capacità di distinguere la verità dalle bugie. È ben consapevole dei rischi che questo gesto comporta: vecchie ferite mai del tutto guarite verranno riaperte, eppure non può fermarsi.
A poco a poco la ricerca mette a nudo una sconcertante cospirazione, che tra inganni e violenze la condurrà dalle tetre strade di Vancouver alle montagne innevate del Canada profondo, fino a un'isola dalla bellezza selvaggia dove sarà costretta ad affrontare i suoi demoni più oscuri... solo per salvare una figlia che vorrebbe non fosse mai nata.
"La voce, la profondità psicologica e personaggi così veri da spezzare il cuore rendono La solitudine del ghiaccio un romanzo coinvolgente che rimarrà nel cuore dei lettori a lungo... forse per sempre". Jeffery Deaver

"Uno straordinario romanzo d'esordio, che l'audacia della protagonista e la scrittura altrettanto audace rendono ancora più straordinario". - Lee Child
LinguaItaliano
Data di uscita19 ott 2017
ISBN9788858971741
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    Anteprima del libro

    La solitudine del ghiaccio - Sheena Kamal

    madre

    UNO

    1

    La chiamata arriva poco dopo le cinque del mattino.

    Sento subito puzza di guai perché è risaputo che nessuno comunica buone notizie a quest’ora. Perlomeno non per telefono. Non ti diranno mai prima delle nove che un lontano parente è morto lasciandoti una grossa eredità. Per fortuna, essendo già sveglia e alla mia seconda tazza di caffè, sono abbastanza preparata.

    Sono appena tornata dalla mia camminata lungo l’argine, dove mi sono fermata a contemplare il mare immobile e grigio, proprio come la città in questo periodo dell’anno. Come al solito, ho cercato di scorgere la calda corrente nera che dal Giappone scorre verso il Pacifico settentrionale, mitigando le sue acque gelide e diffondendosi lungo la costa come tante lingue tiepide. E, come al solito, questo piacere mi è stato negato.

    Vancouver. Secondo alcuni è bellissima, ma probabilmente non hanno mai vagabondato per questa città che io chiamo casa. Non hanno mai visto Hastings Street, piena di siringhe e di tossici. Non hanno mai osservato per mesi interi il cielo e il mare color cemento, mentre la pioggia inonda le strade tentando inutilmente di pulirle. Poi arriva l’estate, e la temperatura sale a tal punto che gli incendi devastano le foreste della provincia. Nella stagione calda sulla costa si sta abbastanza bene ma, quando il mio telefono squilla, siamo ancora in pieno inverno.

    Fisso il numero sconosciuto che appare sul display e, dopo un attimo di esitazione, decido di non rispondere. Poco dopo, torna alla carica. Sono incuriosita. Allora accetto la chiamata; in fondo ho sempre ammirato quelli che non desistono al primo tentativo.

    «Pronto?»

    Segue una lunga pausa, dopo che la persona all’altro capo della linea mi ha spiegato con voce roca il motivo della telefonata. Il silenzio diventa quasi imbarazzante. L’uomo è combattuto, lo so: vorrebbe dirmi di più ma sa che non è una buona idea. Nessuno ama essere sommerso da un fiume di parole per telefono. Specialmente se provengono da uno sconosciuto. Immagino stia sudando. Forse le sue mani sono diventate scivolose, perché sento il cellulare cadere a terra. Impreca per trenta secondi buoni, mentre cerca di raccoglierlo e di recuperare la calma.

    «È ancora lì? Ha sentito cosa ho detto?» mi domanda.

    «Sì, sì, certo» rispondo quando ormai il silenzio è diventato insopportabile. «Ci sarò.» Riaggancio senza aggiungere altro.

    Non ho mai sentito nominare questo Everett Walsh prima, ma lui sostiene che potrei avere informazioni a proposito di una ragazza scomparsa. Non ha specificato quali, però.

    Per un attimo sono tentata di dargli buca, ma mi è sembrato disperato, e se c’è una cosa che mi attira più della tenacia è la disperazione.

    Anche se rintracciare le persone fa parte del mio lavoro, cosa mai potrò sapere di tanto importante da giustificare una telefonata a quest’ora?

    La sua angoscia era così palpabile e intensa che riesco quasi a sentirla sulla pelle.

    2

    È una mattinata di freddo pungente, a Vancouver. Umida, anche, ma è implicito quando si parla della costa occidentale in inverno. In questa città, quando si è in dubbio, meglio dare per scontato che pioverà. In attesa dell’appuntamento, rimango seduta per un’ora sotto la pensilina della fermata dell’autobus, dall’altro lato della strada, anche se la mia vecchia Corolla scassata è parcheggiata qui vicino. La gente in macchina tende a non guardare quelli che aspettano i mezzi pubblici, a meno che il semaforo non sia rosso e non abbiano nient’altro da fare, ma qui non ci sono semafori e io mi sento invisibile. Dal mio punto di osservazione privilegiato, vedo chiaramente il parcheggio e il bar. Il bancone è illuminato a giorno, mentre nel resto del locale la luce è soffusa. Quindi si tratta di un incontro clandestino… Okay, per me non c’è problema. Sono brava in queste cose. Lo sarà anche Everett Walsh?

    L’autobus si accosta alla fermata, ma faccio cenno all’autista di proseguire. Riparte con un grugnito, quasi soffocandomi in una nuvola di gas di scarico.

    Il bar, non lontano da Kingsway Street, è un incrocio tra una caffetteria e una tavola calda. Tutt’intorno, solo fast food e operai con indosso tute da meccanico. Tra le centinaia di bettole che si trovano tra casa sua, a Kerrisdale, e lo squallido quartiere dove abito, Everett Walsh ha scelto questa, con un tendone rosso acceso e rifiniture giallo sbiadito. Una via di mezzo. Forse spera di mettere entrambi a proprio agio.

    Da quanto intuisco, il caffè è terribile ma i muffin non sono male. I clienti che escono con le tazze da asporto in mano tolgono il coperchio di plastica, bevono un sorso, poi fanno una smorfia, mentre quelli che addentano i dolci non battono ciglio. Scrollano le spalle e continuano a camminare, probabilmente soddisfatti per la scelta.

    Venti minuti prima dell’orario stabilito, un’Audi sportiva di colore scuro entra nel parcheggio. Un uomo e una donna ben vestiti, entrambi con occhiali da sole, sbirciano dentro il locale. Non vedono la persona che stanno cercando e cominciano a battibeccare. L’Audi si allontana e torna cinque minuti più tardi.

    Si ferma vicino all’ingresso e l’uomo scende, senza occhiali da sole, e si infila nel bar. È basso e tarchiato, con il collo taurino. Un cappellino da baseball copre i capelli castani. Indossa una giacca scura, ha le spalle curve e un’aria sconfitta. La donna scivola fuori dalla macchina, si getta i lunghi capelli rossi dietro le spalle e lo segue all’interno. Non le importa di essere guardata. È bellissima e di sicuro ci è abituata. Non si toglie gli occhiali da sole, per aggiungere alla sua figura un alone di mistero e di fascino. Funziona alla grande. Il barista di mezza età le versa del caffè lanciandole qualche occhiata lasciva. Non si interessa dell’uomo accanto a lei, tranne che per prendere i soldi.

    Poi attendono. Entrambi sui quarant’anni, aspetto curato, abiti costosi. Non parlano, ma il silenzio tra loro non è rilassato. Se un tempo c’era dell’attrazione tra questi due, gli anni di matrimonio l’hanno completamente eliminata. L’uomo è ancora interessato, ma la donna ignora tutti i tentativi di attirare la sua attenzione e punta lo sguardo fuori dalla finestra che dà sull’entrata del parcheggio. Sorseggiano il loro caffè senza nessuna reazione apparente. O non ci fanno caso, o le loro papille gustative sono anestetizzate.

    Passo i minuti che mi rimangono a studiarli. È chiaro che quei due non sono una coppia che esce a fare colazione insieme. Non sarebbero qui se non fossero in qualche modo obbligati, quindi la faccenda dev’essere complicata. Ho una bruttissima sensazione a riguardo, ma devo ammettere di sentirmi al tempo stesso intrigata. Prima di uscire, ho svolto delle ricerche sul web e ho scoperto che sono entrambi architetti, ma lavorano per studi diversi. Mi sembrano sufficientemente innocui, quindi decido di entrare nel locale, passando però dal retro. Non se l’aspettavano e sono sorpresi di vedermi comparire davanti al loro tavolo con in mano un muffin.

    La donna fissa i miei jeans strappati e il mio cardigan extralarge con i fili tirati in bella vista. L’uomo invece è attratto dal mio viso. La mia carnagione, né chiara né scura, è un’insolita via di mezzo. Zigomi alti. Mento caparbio. Ma ciò che sembra incuriosirlo di più sono gli occhi. Capita spesso a chi si prende la briga di osservarli. Il mio aspetto è piuttosto insignificante, ma i miei occhi sono così neri che è praticamente impossibile distinguere le iridi dalle pupille. Le lunghe ciglia che li circondano potrebbero renderli affascinanti, finché non li si guarda più da vicino e ci si accorge che assorbono tutta la luce intorno a loro e si rifiutano di muoversi di un millimetro. Occhi immobili. Di solito a quel punto lo sventurato di turno si ricorda all’improvviso di appuntamenti presi precedentemente o di impegni che si era dimenticato di segnare sul calendario.

    «Everett Walsh?» Avvicino una sedia al tavolo e mi siedo. Mi rivolgo soltanto all’uomo. La donna ha bisogno di più tempo per riprendersi dalla mia apparizione.

    «Cosa? Oh, sì. In persona. Sono, ehm, io.» Si asciuga una goccia di sudore sollevando un po’ il berretto, prima di toglierselo del tutto. La donna aggrotta la fronte, disgustata. «Lei è mia moglie, Lynn.»

    «Piacere di conoscerla» mi dice con un tono che lascia intendere tutto il contrario. Non hanno notato che sono la stessa persona che era seduta sotto la pensilina. Probabilmente non si sono nemmeno resi conto che c’era una fermata dell’autobus. Non credo sia gente abituata a servirsi dei mezzi pubblici. Be’, meglio per loro. Quelli di Vancouver sono un disastro totale, da evitare a tutti i costi a meno di essere poveri o di avere la Porsche dal meccanico.

    A quanto pare la moglie ha deciso di essere poco collaborativa, perciò Everett prende in mano la situazione. «Grazie per essere venuta. Voglio dire, so che la nostra telefonata è stato un fulmine a ciel sereno e che non ci conosce, ma…»

    «Chi vi ha parlato di me?» Qualcuno deve averlo fatto, altrimenti non avrebbero il mio numero di cellulare.

    Everett sbatte le palpebre. «Eh? Nessuno. Abbiamo assunto una persona per rintracciarla.»

    Ora tocca a me essere confusa. In genere succede il contrario. «Di cosa diavolo sta parlando?»

    «Nostra figlia è scomparsa» interviene la moglie.

    Everett le lancia una breve occhiata. «Gliel’ho già detto per telefono, tesoro.»

    Lynn si volta verso di lui. Anni di relazione si condensano in quell’incrocio di sguardi. «Sua figlia è scomparsa. Questo gliel’hai detto?»

    La fisso con la bocca leggermente aperta. Le sue parole hanno su di me l’effetto di una bomba, proprio come si era immaginata. Per un attimo, tutta l’aria del locale viene risucchiata fuori, ed è come se fossimo sottovuoto. Percepisco montare la tensione. Lynn è concentrata su di me adesso e, anche se non sorride, sono certa che dietro gli occhiali da sole nasconda un’espressione compiaciuta.

    Everett si schiarisce la gola. Fa per parlare, ma poi desiste. Ci guardiamo imbambolati, lui e io, finché non trova il coraggio. «Si riferisce alla bambina che lei ha dato in adozione quindici anni fa.» È preoccupato per la mia reazione, che finora si è limitata a uno sguardo assente. Ora sono tentata di controllare se c’è ancora un pavimento sotto i miei piedi o se invece, come sospetto, sono caduta in una voragine nera senza fondo.

    Estrae una fotografia dal portafogli e l’appoggia davanti a me.

    Un’adolescente paffuta dalla carnagione dorata ricambia il mio sguardo. Anche se i suoi occhi sono più profondi e leggermente a mandorla, non posso fare a meno di pensare che assomiglino ai miei. Quasi neri e impenetrabili. I capelli, più scuri dei miei, sono lunghi fino alle spalle e un’adorabile fossetta sul mento la rende ancora più bella. Cosa nasconde questa ragazza? Devo andare oltre l’analisi delle sue caratteristiche fisiche per leggere al di là delle apparenze. Mi basta un istante per capire che sta sorridendo soltanto con la bocca. Finge di essere felice davanti all’obiettivo della macchina fotografica.

    «Questa è Bonnie. Bronwyn, a dire il vero, ma noi la chiamiamo Bonnie.» La voce di Everett trasuda orgoglio. E amore.

    Guardo di sottecchi Lynn e mi accorgo che evita volutamente di posare lo sguardo sulla foto. Io invece addento con avidità il mio muffin, cercando di raccogliere i pensieri.

    Everett non è in grado di interpretare la mia espressione, così come non è più in grado di fermarsi. «È scomparsa da circa due settimane. Pensavamo fosse andata in campeggio con degli amici, ma…»

    «Ma ci ha mentito, e ha rubato tutto il denaro che tenevamo in casa. Si è anche presa la mia carta di credito e ha prelevato un migliaio di dollari prima che me ne accorgessi e la bloccassi.» Lynn si toglie gli occhiali da sole e noto delle ombre scure sotto gli occhi arrossati. Piano piano, comincio a capire: Lynn è al limite della sopportazione. La bambina che ha fatto di tutto per adottare si è trasformata in un’adolescente ribelle e vorrebbe trovare lo scontrino per restituirla al mittente. «È successo altre due volte in passato, ma non è mai stata via per così tanti giorni.»

    «La polizia non ci è stata di nessun aiuto» interviene Everett. «Inizialmente hanno diramato l’allarme, ma, dato che ha preso il denaro, hanno immaginato che avesse programmato di stare via di casa per qualche tempo. Perciò hanno smesso di cercarla. A dire il vero, non so nemmeno se ci abbiano mai provato. Credo che uno di loro abbia parlato con una delle sue insegnanti, ma non ha ottenuto nulla. È una brava ragazza…»

    Lynn sorride, beffarda. «La definiscono una fuggitiva cronica o qualcosa del genere, Everett. Ha rubato ai suoi stessi genitori.»

    «È una brava ragazza!» insiste il marito. «Ma ultimamente è diventata un po’ indisciplinata» ammette. «Ha dei nuovi amici. Torna tardi la sera. Frequenta quei ballerini di hip-hop. Pensiamo che abbia cominciato a bere e a drogarsi. Sì, è già scappata prima, ma è sempre tornata. Ma non… non questa volta. Perché? Perché non è ancora tornata a casa?» Si copre il volto con le mani, sopraffatto dall’emozione. È imbarazzante vedere un adulto piangere, ma mi rifiuto di distogliere lo sguardo. È in momenti come questo che riesco a capire se qualcuno è sincero. Le lacrime fasulle sono semplici da individuare, ma Everett Walsh è chiaramente un uomo che soffre.

    Lynn lo fissa per alcuni istanti, poi si volta verso di me. Niente mano sulla spalla. Niente Coraggio, tesoro. «Abbiamo controllato la cronologia delle sue ricerche sul web. Sapeva che eravamo contrari, ma si era messa in testa di trovare i suoi genitori biologici. Attraverso quei… come li chiamano?»

    Mi scruta come se avessi la risposta a portata di mano. Alzo le spalle.

    Lei non batte ciglio. «Quei siti che fanno da ponte tra i ragazzi adottati e i genitori biologici. Lei è minorenne, quindi non può iscriversi a quelli ufficiali, ma abbiamo scoperto che ne esistono di non autorizzati. Per gente che cerca di mettersi in contatto tramite internet. Speriamo che non sia riuscita a trovarla, per il suo stesso bene, ma se l’avesse fatto…»

    Everett recupera la lucidità sufficiente per lanciarle un’occhiataccia. «La prego di scusare mia moglie. Vogliamo solo sapere dove si trova nostra figlia.»

    È facile leggere tra le righe. In parole povere, per loro rappresento un cattivo esempio per la figlia, anche se l’ho vista una volta soltanto ed è escluso che si ricordi di me. Mi rendo conto adesso che mi stanno incolpando del fatto che si sia data all’alcol e alle droghe. Si sono convinti che la ragazza abbia in qualche modo gettato alle ortiche l’educazione che le hanno impartito per seguire le mie orme; che sia scappata per stare con la madre biologica e che insieme condurremo un’esistenza dissoluta. Che rideremo di loro tracannando liquori.

    Niente è più umiliante di due persone rispettabili che ti guardano dall’alto in basso. Tuttavia non ho il coraggio di farglielo notare, e trovo almeno un po’ di conforto nel constatare che le loro vite sembrano andare a rotoli più velocemente della mia. Ora capisco perché Everett voleva così disperatamente incontrarmi.

    Sono la sua ultima speranza.

    «Qualche anno fa era ossessionata dall’idea di ritrovare i suoi veri genitori. Ne parlava spesso con gli amici, ma a un certo punto ha smesso perciò abbiamo pensato che le fosse passata. Ma poi ci siamo accorti che aveva trovato le carte dell’adozione. Il suo certificato di nascita. Lei è una donna difficile da rintracciare; abbiamo dovuto assumere un investigatore privato per riuscirci, ma forse Bonnie in qualche modo ce l’ha fatta da sola.»

    Aggrotto la fronte. «Quello che dice non ha senso. Per legge, vi spetta un certificato di nascita modificato, e il mio nome non dovrebbe comparire da nessuna parte.»

    «Lo sappiamo» risponde Everett. «C’è stato un disguido e ci hanno dato quello originale. In seguito abbiamo ricevuto il certificato giusto e ci hanno chiesto di distruggere l’originale.»

    Lynn non guarda il marito, ma le sue parole sono rivolte a lui. «Però Everett l’ha conservato.»

    «Mi dispiace, okay? Quante volte ancora dovrò ripeterlo? Mi dispiace terribilmente.»

    «Non l’ho vista, né sentita» dico infine, dopo un lungo silenzio. Ormai ho terminato il mio muffin ed entrambe le uscite del locale mi sembrano parecchio invitanti, in questo momento. Poi però la curiosità prende il sopravvento. «Cos’è successo il giorno della sua scomparsa?»

    Lynn scrolla le spalle. «Ci ha detto che sarebbe andata in campeggio con amici.»

    «Sì, questo l’ho capito. Voi dov’eravate?»

    Si scambiano un’occhiata. Chiaramente non gradiscono che le loro capacità genitoriali vengano messe sotto esame. «In ufficio» dice Lynn, distogliendo lo sguardo e alzando involontariamente il tono di voce. Alcuni clienti del bar si voltano verso di noi prima di tornare ai loro disgustosi caffè.

    «Forse si è messa in contatto con il padre biologico?» chiede Everett, cercando di riprendere il controllo della conversazione. Mi sorride, come a scusarsi dell’atteggiamento della moglie. Deve capitargli spesso.

    Molto improbabile. Scuoto la testa. «Non posso esservi d’aiuto in questo senso, mi dispiace.» Mi alzo e mi allontano dal tavolo. La mia uscita di scena è brusca quanto il mio arrivo. Forse dovrei scusarmi, ma non ho mai capito perché i canadesi si sentano in dovere di farlo anche quando non ce n’è ragione.

    Mentre mi dirigo verso la porta, sento Lynn deridere il marito: «Ottima idea, Ev, davvero. Complimenti».

    Qualcuno mi segue nel parcheggio, sento i passi. Tendo i muscoli mentre si avvicina. È Everett. «Nora? Non è andata come avrei voluto, mi dispiace. Lynn… Ultimamente è sotto pressione a causa del lavoro e il suo rapporto con Bonnie è problematico da parecchio tempo.» Mi caccia in mano la fotografia della figlia.

    Mi rivolge nuovamente un sorriso dispiaciuto. Si aspetta che gli dica: Coraggio, si sistemerà tutto, ma, come sua moglie, ignoro quel suo desiderio palpabile di comprensione e conforto.

    Everett si irrigidisce, e una chiazza rossa gli si diffonde sul collo. Cerco di restituirgli la fotografia, ma fa per indietreggiare. «No, la tenga. Ma la prego, se dovesse avere sue notizie, ci avvisi. Ho scritto i nostri numeri di telefono sul retro. È… è una brava ragazza. Nonostante tutto. Desidero solo che torni a casa.»

    È la seconda volta che lo dice. Sta cercando di convincere se stesso. Una brava ragazza. Mi chiedo cosa intenda con queste parole. Da quanto ho capito, non è certo un angioletto.

    «Perché avete assunto un investigatore privato per rintracciare me e non lei?» chiedo. Ma un istante dopo trovo da sola la risposta. «Pensavate fossimo insieme, quindi è stata la vostra prima mossa.»

    «E anche l’ultima» dice, voltandosi. «Ormai Bonnie è un’esperta in materia di fughe. Non sappiamo più dove indirizzare le nostre ricerche.»

    Mentre mi avvicino alla mia vecchia Corolla arrugginita, mi sforzo di bloccare il panico che sento crescermi dentro. Everett Walsh si è dato parecchio da fare per trovare la madre biologica di sua figlia, anche se non aveva alcuna prova che avessi avuto contatti con la bambina che ho rinunciato a crescere molti anni fa. Lei desiderava conoscermi, ma questo non significa nulla. Molti ragazzi vanno alla ricerca dei loro veri genitori, senza però riuscirci. Succede spesso. Nonostante abbia tentato di oppormi, lui mi ha lasciato una fotografia della ragazza. Perché io mi senta coinvolta. Non sta mentendo, ma vuole manipolarmi. Le precedenti fughe hanno compromesso ogni tentativo d’indagine da parte della polizia ed Everett le sta provando tutte.

    Che sia riuscito a trovarmi non mi sorprende. Il mio nome è sul certificato di nascita originale, scritto nero su bianco. Ma come diavolo fa a sapere che per vivere do una mano a trovare persone scomparse?

    Ed è al corrente del fatto che sua moglie ha mentito quando le ho chiesto dove si trovava il giorno in cui Bonnie è scappata di casa?

    3

    La ragazza è seduta su uno scoglio e riflette sui suoi prossimi passi. Pensa di avere subito un trauma cranico, ma non ha modo di stabilirlo con certezza. Le sanguinano la testa, le braccia, i polsi. Prova un dolore sordo dietro il fianco, ma non ricorda di essere stata colpita in quel punto. Nelle orecchie, soltanto il rumore delle onde che si infrangono sulle rocce e minacciano di trascinarla in acqua. È così stordita che non sarebbe in grado di reagire. L’oceano ha una tale forza che la spaventa.

    Deve rimettersi in marcia.

    Presto la crederanno morta e smetteranno di cercarla. Stringe questo pensiero come fosse un talismano e si raggomitola ancora di più su se stessa. La salsedine nell’aria le irrita gli occhi. Tira fuori la lingua per catturare una goccia d’acqua salata che le è schizzata sulla faccia, prima di rendersi conto che si tratta di una lacrima.

    4

    L’incrocio tra Hastings Street e Columbia Street si trova nel peggior quartiere di Vancouver, nella parte est del centro. Il comune ha in programma un progetto di rinnovamento, ma per il momento l’area rimane ciò che è sempre stata: un posto di merda. Tuttavia, visti i prezzi degli immobili in città, è l’unica opzione abbordabile per un irriducibile amante della zona desideroso di aprire la propria agenzia investigativa accanto all’uomo che ama, un premiato giornalista che ha preso in affitto un ufficio condiviso per lavorare come freelance, scrivere un libro e seguire il suo blog d’informazione.

    Ufficialmente, lavoro come receptionist e assistente di ricerca per entrambi. Nessuno dei due al momento potrebbe permettersi di pagarmi uno stipendio intero, ma grazie a questa nuova strategia di condivisione dei costi, hanno trovato il modo di fare funzionare le cose. E anch’io, a dirla tutta. Da tre anni vivo gratis nello scantinato sotto l’ufficio e nel frattempo metto da parte i soldi per affittare un posto tutto mio. Ma i miei capi non lo sanno. Pensano che ci sia solo un seminterrato con vecchi dischi e il ripostiglio delle scope, e non si sono mai presi il disturbo di verificare. Alcune volte fanno commenti sulla Corolla fissa nel parcheggio sul retro, ma non sanno che è mia. Danno per scontato che appartenga al tipo dei servizi di marketing in fondo al corridoio e non mi sono mai preoccupata di correggerli.

    In fondo alla strada, brulicante di tossici, spacciatori, papponi e prostitute, c’è Gastown, il paradiso degli hipster. È il punto d’incontro tra ricchi e poveri, tra la gente che può permettersi di vivere nelle zone più in della città e quelli che, come me, si arrabattano come possono. I miei capi invece abitano a Kitsilano, un quartiere vicino alla spiaggia ma abbastanza lontano dal fetore delle strade che circondano il loro ufficio. Si chiamano Sebastian Crow, un reporter divorziato e ingobbito dalle troppe ore passate al computer, e Leo Krushnik, l’omosessuale più appariscente che io abbia mai incontrato. Sono follemente innamorati, anche se forse Seb sta più con i piedi per terra – lui è semplicemente innamorato. Eccezionale corrispondente dall’estero stimato da tutti e sposato con un avvocato, Seb si è riconciliato tardi con la propria omosessualità, a quarantatré anni per l’esattezza, dopo due ulcere da stress post-traumatico causato dalla sua partecipazione alla guerra in Kosovo. Non potendo più resistere alla passione per l’investigatore privato della moglie, molto più giovane di lui, ha lasciato tutto per aiutare Leo ad aprire la sua agenzia, che ora ospita nel suo ufficio. Di tanto in tanto le competenze giornalistiche di Seb tornano utili, ma è Leo a svolgere la maggior parte del lavoro.

    Da questa storia ho imparato un’importante lezione di vita: mai avviare un’attività con il proprio partner. Casa e lavoro sono inestricabilmente legati, per loro, e Seb può tirare un po’ il fiato soltanto quando se ne sta da solo alla scrivania o al bar dall’altra parte della strada, nei momenti in cui Leo è impegnato altrove.

    «Ah, ecco la nostra rivelatrice di stronzate» esclama Leo quando entro.

    Oggi sono in ritardo. È un fatto insolito per me. Arrivo sempre in orario – vivere nel seminterrato ha i suoi vantaggi – ma l’appuntamento con i Walsh mi ha destabilizzato. Invece di portare all’agenzia un nuovo cliente, mi presento alle nove e trenta a mani vuote e senza nessuna voglia di fornire delle spiegazioni. Leo mi osserva da dietro la sua scrivania. Con i suoi occhiali firmati e i suoi abiti su misura, eleganti e al tempo stesso informali, non ha affatto l’aria di un investigatore privato. Il che è una delle ragioni per cui è bravo nel suo mestiere. La gente tende a sottovalutarlo, e sbaglia.

    Seb apre la porta del suo studio e mi fissa dall’ingresso, con gli occhiali acquistati in farmacia abbassati a metà naso. Una delle due astine laterali è fissata alla montatura con del nastro adesivo. «Tutto bene, Nora?» dice piano. Il mio ritardo ha sconvolto la sua routine. Ha dovuto prepararsi da solo il caffè stamattina e molto probabilmente si sta domandando il perché.

    «Sì, capo.» Mi sistemo alla mia postazione. La luce rossa del telefono non sta lampeggiando. Non abbiamo ricevuto telefonate da ieri sera. «Scusate il ritardo.»

    «Dovresti farlo più spesso» interviene Leo. «Sul serio, Nora, hai bisogno di farti una vita al di fuori da qui. Esci qualche volta. Comprati dei vestiti nuovi.»

    Non accadrà mai niente di tutto questo e Leo lo sa benissimo. Abbiamo avuto questa conversazione a senso unico centinaia di volte. Il fatto che io non abbia delle storie eccitanti da raccontare e che il mio infelice guardaroba consista in due paia di jeans logori e tre vecchi cardigan extralarge, buoni solo a coprire i buchi delle magliette, sono dei punti dolenti per lui.

    Proprio

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