L’alba del maiale: romanzo
Di Alessio Pasa
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L’alba del maiale - Alessio Pasa
L’alba del maiale
romanzo
Alessio Paša
Published by Giuseppe Meligrana Editore
Copyright Meligrana Editore, 2015
Copyright Alessio Paša, 2015
Tutti i diritti riservati
ISBN: 9788868151614
Meligrana Editore
Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)
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Alessio Paša
Alessio Paša, 60 anni, nato a Genova, ora vive a Domodossola. È formatore e consulente d’impresa e appassionato corridore e nuotatore. Ha iniziato a scrivere quindici anni fa realizzando una serie di storie brevi in versi, tra le quali, nel 2009, Appuntamento con il notaio
è stata pubblicata da Lorenzo Barbera Editore. Negli anni successivi ha iniziato a comporre la pentalogia di Francesco, il primo volume Occhitelli mariarotta benvolendo sopraspina tornamore se
è stato pubblicato nel 2012, il secondo, 1978
nel 2013 e, dopo questo L’alba del maiale
, il quarto è atteso per i primi mesi del 2016.
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I personaggi, i fatti e le località descritte in questo romanzo sono in buona parte frutto della fantasia dell’autore.
I
La notizia del rilascio di Laura è arrivata il 10 febbraio, mi ha avvisato Santo, il suo e il mio avvocato, lo stesso che nel 1978 mi era stato assegnato d’ufficio, un ragazzino smilzo, risucchiato dentro la toga fuori misura, un naufrago nel marasma del processo, delle gabbie affollate, le urla, le minacce, i giudici spaventati. Era riuscito a individuare una strategia difensiva, due o tre frasi sussurrate durante l’arringa finale, sommerse dai fischi degli imputati. Cercavo di ascoltare, spingendo, la testa tra le sbarre, non mi era possibile distinguere le parole, capire ciò che stava accadendo. È stato un altro detenuto a intuirlo, dall’espressione di uno dei giudici si è reso conto che Santo ci aveva azzeccato, sarei uscito, molto presto. Da allora è il mio legale di fiducia e da una decina d’anni mio socio, oggi abbiamo un ufficio in centro a Milano, prima, all’inizio, nell’82, avevamo in affitto un ex negozio a pianoterra a Vimodrone, dalla strada, attraverso le vetrine, ci vedevano. Santo, Francesco e Carla, nostra impiegata e nostra tutrice, adesso responsabile generale della segreteria.
C’è la conferma della cancelleria del tribunale e della direzione del carcere, esce lunedì prossimo, il 17, alle dieci del mattino
Santo ha una vocina da bambina, al telefono riesce appena a farsi udire Al massimo alle undici.
A Torino, alle Vallette?
Sì, aspettala davanti al portone principale, escono da lì.
Sei sicuro, Santo? Non vado per niente? Tre anni fa ho aspettato quasi dieci ore, e poi non è uscita.
Allora era successo l’incredibile, lo sai. Una scarcerazione revocata la sera prima, e senza avvertire il legale, da non credere.
Ho un’agenda che fa schifo, vedo gente a mezzanotte e alle sei del mattino, non posso permettermi di perdere un’ora.
Ho la certezza, Francesco, esce il 17.
Anche tre anni fa avevi detto che eri sicuro.
È rimasto zitto, senza timore, in attesa, è il suo modo di difendersi quando è in difficoltà, quante volte l’ho visto impietrirsi in questo silenzio, in aula quando non ha più argomenti a disposizione, quando il suo testimone ha appena concluso una frase che non avrebbe dovuto pronunciare, quando, in studio, il praticante di turno ha elaborato una memoria difensiva scadente.
Allora per le dieci
ho ripetuto.
Alle dieci precise, una signora non si fa aspettare!
ha esitato un momento, ha cambiato il tono di voce Porti anche Matteo?
No, lo mando a prendere all’uscita da scuola e lo faccio portare in albergo, sua madre la incontra lì, in territorio neutro.
Hai deciso così?
Sì, credo sia la scelta migliore. Laura se ne sta un po’ in albergo, un paio di settimane, si riabitua, e Matteo resta a casa sua, si vedranno, quanto vorranno, poi stabiliremo come e dove.
Lei vorrà stare con Matteo.
Capirà che è prematuro.
Francesco, non dimenticare che è un suo diritto, tra una settimana sarà una donna libera, e nulla le potrà impedire di stare con suo figlio.
Si renderà conto, Santo, comprenderà, in quattordici anni le situazioni evolvono, e la realtà non è semplice.
E Silvana?
È informata, diciamo che è al corrente delle questioni principali.
E Laura, che sa di Silvana?
Qui a Milano il cielo è terso, un vento teso, gelido, raro, in questa città.
Poco, Santo, pochissimo.
È al corrente che vivete insieme da dieci anni?
Non amo questo vento, mi rende fragile, mi avverto esposto, senza protezioni.
No, Santo, non lo sa.
E la settimana prossima, quando esce? E Matteo? Questa, Francesco, è una dannata complicazione.
Che risolveremo, Santo, passiamo le giornate a fronteggiare pasticci, troveremo un modo per uscire anche da questo.
* * *
Matteo è nato il 9 giugno del 1979, in quel periodo Laura era detenuta a Udine e il parto è avvenuto nell’ospedale cittadino dove, nonostante la presenza della Polizia nei corridoi, ha assaporato qualche giorno di libertà, gli unici, poiché per i quattordici anni di reclusione ogni opportunità di semilibertà o di permesso è stata ostacolata e respinta da Laura stessa. Santo si è dannato, ha esplorato con accanimento e con spregiudicatezza ogni possibilità, e quando riusciva a ottenere un beneficio, fosse anche solo il trasferimento in un penitenziario più vicino, Laura rifiutava di avvallare la richiesta, apparteneva al ristretto circolo degli irriducibili, non ha mai cessato di dichiararsi prigioniero politico, rifiutando pervicacemente ogni diritto anche quello alla difesa.
Dopo l’arresto, l’8 maggio del ‘78, ci siamo rivisti per la prima volta a luglio, in tribunale a Milano, una seduta brevissima, in due gabbie separate, lei insieme ai duri, i fondatori, i capi. Il giorno dell’arresto, perquisendola, avevano trovato nella sua borsa un biglietto per il treno notturno per Roma, sarebbe arrivata alla Stazione Termini alle sette del mattino del 9 maggio. Sospettata di essere un elemento di supporto logistico al rapimento di Aldo Moro, avvenuto alle nove di quello stesso giorno, era stata coinvolta in molti dei procedimenti penali in qualche modo connessi con quell’evento. Parlarle era stato impossibile, l’aula una bolgia, noi distanti, lei nascosta da quelli che si sbracciavano per salutare altri compagni e per protestare e inveire contro i giudici e gli avvocati, era molto caldo e Laura, come insensibile alla temperatura, indossava un vestito a maniche lunghe e calzava scarpe invernali di camoscio. Ho provato a richiamare la sua attenzione, dalla mia gabbia, quella cosiddetta dei fiancheggiatori, gridavo il suo nome, mi ha sentito, alla fine, ha alzato il viso nella mia direzione, sciupata, pallidissima, gli occhi enormi, a gesti le ho chiesto se mangiava, e lei ha risposto con un gesto evasivo, le ho fatto capire che era indispensabile si nutrisse, la volevo sana, ho mimato le forme di una donna polposa, ma non ha capito, ho finto di cullare un neonato, allora ha compreso e si è messa a ridere portandosi la mano sulla bocca.
Matteo è stato concepito lo stesso anno, il 1978, a settembre, nella gabbia di un altro tribunale, stretti tra altri trenta brigatisti. Non era stato un atto premeditato, Laura, allora detenuta in un carcere distante, è entrata per ultima, non mi sono accorto del suo arrivo, e non ho riconosciuto la sua voce, mentre chiedeva per cortesia, in quanto è una signora, se le era possibile avere un posto seduta, ho sentito con chiarezza queste parole, ne ho sorriso, senza immaginare fossero di Laura, non l’aspettavo, chiedendo di lei mi era stato detto che non sarebbe stata presente, lei, in quel processo non era coinvolta. Si è seduta accanto a me, avevo gli occhi chiusi, ho sentito una mano femminile posarsi sulla mia, è stato allora che l’ho riconosciuta, la sua mano, cinque anni e mezzo dopo il giorno fissato per il nostro matrimonio, lo stesso della mia fuga dall’Italia con Sara. Assaporando la delicatezza della sua epidermide ho pensato all’ultima occasione nella quale ci eravamo baciati, l’11 gennaio del ‘74, il giorno prima delle nozze mancate, sotto l’ufficio della Render, con i capelli neri corvini a caschetto e la gonna corta color malva, un bacio insapore, nel calore stento di un abbraccio frettoloso, era tesa e smagrita, come quel giorno nella gabbia, con gli occhi color cenere e le labbra sbiancate, dopo le settimane consumate a progettare e a sorvegliare i lavori nella nostra nuova casa, ad acquistare e installare gli arredi, a predisporre i dettagli della cerimonia.
Mi sposerai, adesso?
ha sussurrato Ora sarò più tranquilla, perché non potrai scappare.
Ha riso, mi sono voltato, gli occhi chiusi, le nostre bocche vicinissime. No, Francesco, non così, ci vedranno.
Mi ha allontanato con delicatezza. Aspetta, un momento, c’è una possibilità.
Ha parlottato a lungo con un paio di suoi compagni, mi hanno guardato, uno mi ha sorriso, ho aperto gli occhi e l’ho vista, decisa, attenta ai dettagli, chiedere a quello di spostarsi un poco più a destra e all’altro di non lasciare sguarnito l’angolo sopra la postazione dei secondini, avvertivo la sua volontà, la forza con la quale ha vissuto in questi cinque anni. Senza di me è diventata una donna paziente e sicura, capace di offrire calore senza perdere in determinazione, una donna meravigliosa, che mi mormora che sì, adesso posso darle un bacio, e che, con un solo movimento, mi sale sulle ginocchia, chiedendo sottovoce agli altri la massima attenzione, ed anche un po’ di riservatezza, per cortesia, per qualche minuto, mentre riesce a prendermi, un miracolo, lì in un aula di tribunale, zeppa di detenuti, avvocati, giornalisti e giudici, uno schiaffo, una burla, e che meraviglia, averla, due minuti, fai presto, mi soffiava nell’orecchio, presto, caro, non abbiamo tempo, una vittoria, la sua, contro i suoi nemici, un successo il mio, eravamo di nuovo insieme. Mi sposerai, Francesco?
mi ha chiesto mentre deponevo Matteo nel suo ventre. Mi sposerai, amore mio?
* * *
È uscita dal carcere alle undici e mezza, ero in fibrillazione, in autostrada sul mio cellulare appena acquistato ha chiamato il presidente dell’associazione temporanea di imprese che abbiamo sponsorizzato per i lavori della metropolitana, una persona anziana, il Cavalier Testoni, per civetteria non divulga con facilità la sua età, comunque molto prossima agli ottanta, un uomo che non ama parlare al telefono, lui convoca, nel suo ufficio in Piazza Cordusio, e discute, senza prendere appunti, chiama al telefono solo in casi estremi e lo fa direttamente, saltando la segretaria e l’assistente. Era furioso, l’amministratore di una delle tre aziende dell’associazione temporanea ha divulgato la notizia della probabile aggiudicazione dell’appalto all’associazione temporanea, ne è nato un pandemonio, è intervenuto l’assessore ai lavori pubblici, un’ora infernale, venti telefonate, e non è ancora risolta, alle quindici è indetta una conferenza stampa, alla quale, ha sottolineato Testoni, non mi è consentito mancare, anche perché il partito sarà presente, segretario regionale in testa.
Oggi sono in viaggio con l’auto del consorzio delle bonifiche, è inutilizzata in quanto il consorzio non ha più dipendenti, ad esclusione dell’autista, il quale trascorre le giornate a passeggiare avanti e indietro per il cortile, un uomo simpatico, sulla sessantina, protesta che dovrebbe essere in pensione, non parla d’altro, delle sue liti con l’INPS e con i suoi vecchi datori di lavoro, è andato a cercarli uno ad uno, anche quelli per i quali ha lavorato da ragazzo, negli anni ‘40, alla ricerca delle marchette che gli mancano per raggiungere il minimo necessario per accedere alla pensione.
Chi aspettiamo, dottore?
ha chiesto con sussiego dopo un’ora di attesa. Affari di partito?
Sospira, mi studia attraverso lo specchietto retrovisore. La politica è scivolosa, basta un nulla.
Ho spiegato trattarsi di questione privata, di famiglia, e che contavo sulla sua discrezione. Mi ha risposto con tono complice, non l’ho ascoltato, ero al telefono, ancora il presidente dell’associazione temporanea, più cheto, adesso, lo aveva rassicurato il segretario regionale in persona, la fuga di notizie, sosteneva, era un mero incidente di percorso, una baggianata, il lavoro sarebbe stato aggiudicato all’associazione temporanea come da accordi, senza problemi.
Con Santo lavoriamo a questo appalto da sei mesi, non credo di sbagliare se dico che ogni giorno, domeniche comprese, abbiamo effettuato una telefonata o organizzato una riunione allo scopo di permettere all’associazione temporanea di prendere quel lavoro, il segretario era stato chiaro, l’appalto è ricchissimo, e già questo è motivo sufficiente per giustificare i nostri sforzi e, ancora più determinante, è la sua valenza politica, la famiglia proprietaria di una delle tre società aderenti è un grande elettore ad alta capacità, potendo contare su una corte di dipendenti, fornitori, famigliari e amici che, in Lombardia e in Basilicata, muovono migliaia di voti.
* * *
Laura è mia moglie, dopo il nostro arresto ci siamo scritti spesso, nella seconda lettera mi sono informato a proposito del suo matrimonio con Broggro, la risposta ha tardato quasi un mese, ero in ansia, preda delle congetture più infauste, che ogni giorno di attesa supplementare rendeva più fosche, immaginavo Laura indispettita, furiosa persino, non mi sono presentato alle nostre nozze, sono scomparso per anni, senza un rigo di notizia, come non comprendere la sua ira, leggendo la mia lettera ha di certo pensato che sono presuntuoso e arrogante, ed anche maleducato, se si è sposata è affar suo, è per questo che non mi scrive, l’ho offesa, si sente usata, mi ha regalato la sua pubertà e la sua adolescenza, ha lavorato da schiava per accumulare i risparmi necessari per il nostro matrimonio, e io mi permetto, senza complimenti, di chiederle se si è maritata. Allo scadere del trentesimo giorno, un sabato mattina, ormai convinto che non avrebbe più scritto, la sua lettera mi è stata consegnata, la busta aperta e, all’interno, il foglio stropicciato, ne ho decifrato il contenuto a fatica, all’inizio una garbata presa in giro delle sue compagne di cella, una di loro, spiegava, trentasette anni, era diventata nonna proprio quel giorno, poi una lunga digressione sul tempo atmosferico che lì, non poteva scrivermi dove, era una componente irrilevante, essendo la finestra della loro cella aperta sul cortile interno del carcere, infine un gioco di parole, come un rebus, giocato sulle modificazioni dell’aggettivo caro, perché per lei sono caro, anzi, no, carino poiché sono il suo piccolo, e dunque è indispensabile usare il diminutivo, e solo dopo la firma, sotto, un PS in carattere piccolissimo, cinque parole per comunicarmi la risposta: Matrimonio buddista. Nessun valore giuridico.
Ci siamo sposati il 3 febbraio 1979, nel carcere di massima sicurezza di Cuneo, entrambi abbiamo richiesto le nozze con il rito religioso, l’unica forma di matrimonio tra detenuti che allora imponeva all’amministrazione carceraria di permettere una cerimonia, altrimenti, nel caso di rito civile, lo sposalizio si riduceva all’apposizione delle firme sull’atto, procedura che non prevedeva alcun momento di incontro tra i coniugi. Laura era stata esplicita, non era avvilente per un brigatista ateo inginocchiarsi davanti a un dio rifiutato, l’evento, piuttosto, costituiva uno schiaffo comunista al sistema carcerario, e ciò per lei rappresentava una vittoria.
Il rito è stato celebrato al mattino presto, dinnanzi a un frate francescano, toccandoci di nascosto le mani, per testimoni due guardie carcerarie, Laura in un abito blu, a manica lunga con i polsini rivoltati e la gonna plissettata, ha ripreso un po’ di peso, e di colore, una ragazza che ride, e che, alla fine, ha sostituito il sì con un sonoro certamente, il frate si è risentito, il sì è obbligatorio, le guardie hanno dato mostra di impazienza, e sussurrandole nell’orecchio per favore di smettere di giocare e di obbedire al frate le ho dato un bacio, troppo lungo a giudizio di una delle guardie, che mi ha posato, con delicatezza, una mano sulla spalla, è finita così, prima hanno portato via