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Occhitelli mariarotta benvolendo sopraspina tornamore se
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E-book272 pagine4 ore

Occhitelli mariarotta benvolendo sopraspina tornamore se

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Info su questo ebook

La vicenda di Occhitelli mariarotta benvolendo sopraspina tornamore se (titolo che proviene dal brodo culturale del Finnegans Wake, ultimo lavoro di James Joyce) si svolge nei giorni che intercorrono tra il dicembre 1973 (il mese della prima domenica di austerity, con divieto di circolazione delle auto) e il 15 gennaio 1974. Il protagonista è Francesco, neolaureato in filosofia e svogliatamente in cerca di lavoro, il quale, grazie alle sue buone conoscenze linguistiche, viene inaspettatamente assunto da una strana azienda di import-export. Francesco, fidanzato con Laura, con la quale ha già fissato la data del matrimonio, alla Render Srl conoscerà Sara, bella e misteriosa siro-tedesca. Coprotagonista è Dix, tipica figura degli anni ’70, al limite tra il provocatore, l’agitatore e il profittatore. Intorno alle malinconie sentimentali di Francesco si snoda, drammatica, la storia vera: l’attacco a Fiumicino di Settembre Nero e, dopo pochi giorni, l’omicidio a Madrid di Carrero Blanco, delfino di Francisco Franco. Il romanzo, numero uno della trilogia in corso d’opera, con la sua fantasia, dinamicità e intelligenza, conferma l’estro creativo di Alessio Pasa.
LinguaItaliano
Data di uscita12 apr 2013
ISBN9788897268901
Occhitelli mariarotta benvolendo sopraspina tornamore se

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    Anteprima del libro

    Occhitelli mariarotta benvolendo sopraspina tornamore se - Alessio Pasa

    Occhitelli mariarotta benvolendo sopraspina tornamore se

    romanzo

    Alessio Paša

    Published by Giuseppe Meligrana Editore

    Copyright Meligrana Editore, 2013

    Copyright Alessio Paša, 2013

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788897268901

    Foto di copertina: Marco Pandullo

    www.marcopandullo.com

    Modella: Simona Caso

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

    info@meligranaeditore.com

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    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Alessio Paša

    Copertina

    Occhitelli mariarotta benvolendo sopraspina tornamore se

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    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

    Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone.

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    Grazie per il rispetto al duro lavoro di quest’autore.

    Alessio Paša

    Alessio Paša, nato a Genova nel 1955, ha iniziato a lavorare a 19 anni: istruttore di nuoto, fattorino, magazziniere, autista, rappresentante di prodotti alimentari, agente immobiliare. Nel 1985 è entrato nell'azienda di ingegneria fondata dal padre diventandone in seguito amministratore delegato sino al 2003. Da allora opera come libero professionista in qualità di formatore e consulente aziendale. Ha due figli e dal 2010 anni vive a Pallanza (Verbania). Nel giugno 2009 l'Editore Lorenzo Barbera in Siena ha pubblicato Appuntamento con il Notaio.

    Contattalo:

    alessio.pasa@gmail.com

    Seguilo su:

    www.alessiopasa.it

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    I personaggi, i fatti e le località descritte in questo romanzo sono in buona parte frutto della fantasia dell’autore.

    1

    Il bar Moretti è pavimento sporco, bancone di acciaio opaco, tavoli quadrati scalcinati e portacenere gonfi di cicche. Nessun rivestimento in legno pesante, né spessa moquette scura, come nei locali in centro, questo è un luogo vuoto, dove ogni rumore è amplificato e fastidioso. Oggi è freddo e umido, pioverà. Sono riuscito a racimolare i soldi per una birretta, che Mario, il barista serve tiepida, in bassi bicchierozzi dal vetro smerigliato da migliaia di lavaggi.

    Bevi piano, dottore, piano, così te la godi di più.

    Alfio, piccolo, smilzo, quasi calvo, è mio coetaneo e pare un quarantenne, trascorre le giornate al banco del bar, sostenendo che le lunghe permanenze in piedi aiutano nel mantenimento della forma fisica. Mi ha invitato ad accompagnarlo da Dix, del quale mi ha parlato innumerevoli volte come personaggio speciale, da incontrare assolutamente. Abita ad un paio di chilometri da qui, vi andremo a piedi.

    Siamo usciti sul viale Italia, l’arteria stradale che pone in comunicazione il nostro quartiere con il centro della città, due corsie per senso di marcia, una striminzita aiuola spartitraffico senza più erba né siepe, a contenere un traffico lento, annoiato, litigioso, auto con i finestrini appannati, aperti e richiusi in un lampo, per il lancio della cicca ancora accesa, o dell’intero pacchetto appena terminato.

    Procediamo sul largo marciapiede sconnesso, chini, curvi, come avessimo borse pesanti da trasportare. Assediati dal fracasso del traffico, per intenderci siamo obbligati a gridare.

    Ma questo Dix ho urlato. Come si chiama? Ha un nome vero?

    Alfio non lo sa, non si è mai posto questa domanda. Abbiamo percorso il Viale Italia per intero, poi abbiamo iniziato a salire verso l’Arsenale, non erano cinque minuti, e neppure dieci.

    Potevi dirmelo! gli ho detto.

    Dirti cosa?

    Che era così lontano.

    Non è lontano.

    Ora, forse, ma dal bar è lontano.

    L’amico non risponde, allunga il passo, la testa chiusa nelle spalle, le mani in tasca.

    Siamo arrivati, un palazzone di otto piani, la facciata rosa scrostata da anni d’incuria, il profilo esterno tondeggiante, leggermente gonfio, accanto ad altri palazzi, squadrati, più bassi, nell’insieme una vera oscenità urbanistica, che qui chiamiamo la Trota, perché, dall’alto, pare che il complesso edilizio abbia la vaga forma di un pesce.

    La famiglia di Dix abita alla Trota da generazioni, suo bisnonno è nato qui, no, non certo in questo palazzo, ma qui, pare siano molti, tra i residenti, ad avere queste radici, è una cosa curiosa, in città.

    Strana in una grande città e ancora più particolare in un luogo lercio e stropicciato come questo, i bordi delle strade slabbrati, senza marciapiedi, l’asfalto a buchi, i palazzi maltenuti, un bar buio, stretto, con le vetrine sporche, due sedie di ferro all’esterno, direttamente sulla strada.

    Vieni mi ha detto l’amico aprendo il portone. Qui è sempre aperto, lui abita al settimo piano.

    Senza ascensore, che è fermo, forse da anni. Il cartello che avvisa del guasto è quasi illeggibile. Lo scalpiccio dei nostri piedi risuona fastidioso sui gradini di marmino rosa della larga scala a chiocciola, qualche cicca spenta negli angoli, un foglio di giornale bene aperto sopra due gradini, i finestroni, ampi, alti, due dita di unto sui bordi.

    A che piano siamo? ha chiesto ansante l’amico.

    Al quarto, credo.

    Dall’alto ci raggiunge nitido il suono secco della maniglia di una porta premuta con ira, il soffio di una porta spalancata a forza e il rumore di tacchi maschili correre lungo il pianerottolo e imboccare a precipizio le scale.

    Lauro! ha gridato qualcuno dall’alto.

    Lauro! una voce maschile, forte, imperiosa. Chi grida si è avvicinato all’imbocco delle scale, un paio di piani sopra di noi, forse tre. Lauro!

    Eccolo, Lauro, ci sfila accanto rapido, leggero, un ragazzetto più giovane di noi, una ventina d’anni, non di più, i capelli lunghi, biondissimi, sciolti sulle spalle, gli occhi chiari lucidi di pianto, evita i nostri sguardi, sembra spaventato. Ci oltrepassa, i piedini frenetici sul bordo dei gradini, poi all’improvviso silenzio, ha interrotto la discesa. Ci siamo fermati, e anche l’uomo che aveva gridato il suo nome per tre volte si è immobilizzato.

    Non dovevi trattarmi così, non davanti a tutti, non ti era permesso Lauro grida con una vocina strozzata, molto vicina al pianto.

    Lauro! la voce dell’altro è robusta, decisa, l’uomo deve essere sceso di un piano, è lì, vicinissimo a noi.

    Lauro un bel niente gli ha risposto il ragazzo riprendendo la sua corsa giù per le scale. Lauro quando ti serve, Lauro quando non ce la fai più, Lauro, Lauro e Lauro, io sono io, non lo dimenticare.

    Abbiamo sentito i passi di quello di sopra risalire a larghe falcate gli ultimi gradini, poi la corsa fino alla porta, richiusa con cura, senza rumore, Lauro è già nell’andro-ne, spalanca a forza lo sbilenco portone ottagonale ed esce, gonfio di lacrime, al centro della Trota.

    Chi era? ha chiesto sommessamente il mio compagno.

    Lauro?

    No, l’altro.

    Non potevo riconoscerlo, era la prima volta che mi trovavo lì.

    Era Dix? ha chiesto ancora mentre saliamo l’ultima rampa.

    Come faccio a saperlo, non lo conosco.

    Secondo me era Dix, mi sembrava proprio la sua voce.

    Ci ha aperto la porta di casa una signora anziana, grassa, vestita di scuro che, senza guardarci, ci ha indicato una stanza illuminata. Siamo entrati in una camera da letto affollata. Chini sulla scrivania, tre ragazzi, due con la barba lunga, sono intenti a scrivere su un grande foglio da disegno. Stravaccati sul letto, due tipi che ho notato al bar Moretti, altri due, un ragazzo e una ragazza molto giovane, si abbracciano in piedi tra la tenda e la grande finestra. La stanza è ampia, su una parete giganteggia solitario un grande manifesto, la foto polarizzata di una splendida ragazza nera poco vestita che fuma una enorme canna e, appese un po’ ovunque sugli altri muri, le reliquie della breve esistenza dell’inquilino di quella camera. Ho riconosciuto la promessa degli scout, un braccialetto di cuoio e di pietre rosse e gialle, dei vecchi occhiali da motociclista, un berretto di lana, molte foto sbiadite, di bivacchi attorno a grandi fuochi, di tuffi da scogli non troppo alti, di una squadra di pallone infangata, del viso in bianco e nero di una giovane donna molto bella.

    Ecco ha detto uno dei tre che scrivevano, quello senza barba, alzando il foglio da disegno per mostrarlo a tutti i presenti.

    Ecco, Mario, questo ha accennato a uno dei due stravaccati sul letto.

    Domani mattina presto lo incolli sulla porta della sede del sindacato, ma presto, anzi, vai direttamente questa notte, che se ti vedono ti menano per davvero, e spreca tutta la colla che serve, prima di staccarlo devono sudare le sette camicie.

    Mario si è alzato con prontezza, ha preso il foglio di carta dalle mani dell’altro e lo esamina con attenzione.

    Molto bene, proprio ben fatto, è quello che si meritano. Ha repentinamente voltato il foglio verso di me. Gli alberi del giardino sono cresciuti, e non hanno bisogno di essere potati. Sindacato giardiniere, contro la spontaneità operaia. Ha letto a voce alta e mi ha chiesto cosa ne pensassi.

    È scritto in caratteri corsivi svolazzanti, una grafia d’altri tempi, un tratto spesso, nero china, molto elegante.

    Mi sembra ben fatto, ma non capisco gli alberi, la potatura, il giardiniere.

    Perché sono dei banditi, questi del sindacato, voglio dire, non si sono accorti che dall’autunno del ‘69 l’ope-raio, il nostro albero, è diventato maggiorenne, sa esattamente cosa vuole, e dunque non va in nessun modo inibito, né scoraggiato, né tantomeno gli può essere impedito di procedere come meglio gli aggrada nella costruzione del modello di società che preferisce.

    Il giovane senza barba ha una bella voce, calda, femminile, occhi neri profondi e capelli ricci tenuti corti e ordinati.

    Tu sei?

    Ha uno sguardo attento, si rivolge preoccupato all’ami-co che mi ha condotto lì, gli stringo la mano, mi presento.

    Francesco, ventisei anni, disoccupato intellettuale. I miei, complimenti per il sindacato giardiniere, molto creativo.

    Non è farina del mio sacco, è opera di Andrea.

    Ha indicato quello abbracciato alla ragazza dietro la tenda, un ragazzone irsuto, barba e capelli nerissimi, il quale mi ha salutato portando la mano alla fronte.

    Io sono solo un esecutore ha soggiunto il giovane.

    Quello che mi ha parlato si è seduto alla scrivania e, con un gesto vago, m’invita ad accomodarmi. Ho trovato posto su uno sgabellino di legno, proprio sotto il manifesto della ragazza con la canna, chiedo se qualcuno ha una sigaretta e Andrea mi lancia il suo pacchetto.

    Hai da accendere? mi ha chiesto senza guardarmi.

    Fuma la mia stessa marca, sigarette a basso prezzo, senza filtro, fonte di un fumo nero, denso, odoroso.

    Sono stato lì un’oretta, in silenzio, senza che nessuno mi chiedesse di esprimere alcuna opinione su uno degli argomenti che, peraltro fugacemente, venivano trattati dal gruppo, più che altro si scambiavano ridendo battute e aneddoti, su altri amici, su situazioni di lavoro personali, e, solo in un caso, su una questione di rilevanza collettiva. Non ho ancora individuato Dix. Alfio, l’unico che potrebbe aiutarmi, si è addormentato seduto per terra, il capo ciondoloni sul petto.

    Si è dibattuto a proposito dell’austerity, appena varata, che comporta la limitazione dell’uso delle vetture private, così che il giorno successivo, domenica, per la prima volta nessuno avrebbe potuto circolare con l’auto. Andrea, il viso timido, la barbetta nera corta, rada, sotto una cascata di capelli a ricci, ha espresso l’opinione si tratti solo di una manovra ideologica e propagandistica e ha iniziato a concionare, con delicatezza, senza arroganza, quasi vergognandosene, contro il governo, gli israeliani e gli americani.

    Il giovane senza barba lo ha interrotto alzando la mano aperta. Non ci sono problemi, per domenica ci eravamo infatti decisi per una bella passeggiata a piedi e, guarda caso, il nostro governo ci agevola la cosa, passeggeremo per le vie del centro, provate a pensare che meraviglia, senza auto, senza rumore.

    Tu sei Dix? gli ho chiesto.

    No, Dix è uscito poco fa, è andato a riprendere Lauro. Se lo trova… ha spiegato sorridendo. Non conosci Dix?

    No, non ci siamo mai incontrati.

    Era qui, quando sei arrivato forse era in bagno, è uscito subito. Io sono Marzio si è alzato ed è venuto a stringermi la mano.

    Avrei avuto piacere di conoscerlo gli ho risposto mentre la sua mano vigorosa serra forte la mia. Sarà per un’altra volta. Ora vado.

    Mi sono alzato e, restituendo il pacchetto di sigarette a Marzio, ho borbottato un saluto.

    Ciao mi hanno risposto tutti all’unisono.

    Alfio dorme e, da solo, sono uscito dalla stanza per dirigermi verso la porta di casa. La mamma mi aspetta per cena, prepara il risotto con le zucchine, una sua storica specialità, che da quando non c’è più papà cucina con sempre maggiore frequenza.

    Sono rientrato nella stanza per chiedere un’altra sigaretta. Marzio si è alzato. Ti accompagno alla porta.

    È basso, Marzio, un po’ pingue, e cammina con i piedi divaricati. Fai dello sport? gli ho chiesto senza riflettere.

    Mi prendi in giro? Non mi vedi? Mi sforzo di fare lunghe passeggiate a piedi in città, ma sembra che serva a poco. A proposito, perché non vieni anche tu domani, trovati alle otto sul Ponte della Misericordia, pensa, il centro senza automobili, da non perdere. Ci sarà senz’altro anche Dix.

    * * *

    Dicembre 1973, ho terminato da pochi mesi l’univer-sità, laurea in Filosofia, e svogliatamente sto cercando un lavoro. Mia madre, una donna mite, casalinga condannata per vocazione alla vessazione, continua a chiedermi, stropicciandosi le mani nel grembiule bagnato, quando mi deciderò di accasarmi, sposare Laura e inaugurare una nuova famiglia. Mamma usa questo termine, inaugurare, come si trattasse di aprire un nuovo negozio, aggiungendo come il suo desiderio più grande sia quello di essere nonna di una schiera di nipotini, una affermazione falsa e pretestuosa che m’infastidisce ascoltare. Per sua stessa ammissione mamma ha affrontato una fatica orribile nel mettermi al mondo e ad allevarmi e l’ultima delle sue ambizioni è quella di circondarsi di pargoli urlanti, ma a proposito degli obbiettivi che mia madre ha perseguito nella vita e che ancora può avere oggi devo sinceramente dichiarare che non saprei che dire.

    Non avrei mai trovato il lavoro che avrei preferito svolgere, per il buon motivo che non avevo idea di quali fossero i miei desideri. Laurea in Filosofia, novantotto, tesi su Heidegger, lo confesso, la copia esatta di quella di mio cugino, laureato tre anni prima, nessuno se n’è accorto, non mi hanno chiesto niente, non chiedono quasi più niente a nessuno.

    I muri dell’aula dove mi sono laureato erano colmi di scritte e di slogan. Alla fine, proprio l’ultimo anno, dopo quindici esami di gruppo, sui diciannove previsti, nei quali ho preso sempre trenta, per un sussulto di dignità volevo abbandonare. Ho proseguito, sospinto da Laura, che sosteneva che non potevo togliere questa soddisfazione a mio padre, che è venuto, con la mamma e lo zio, in quella sala oscena, i professori che fumavano, gli altri laureandi in attesa che discutevano tra loro a voce alta, quelle frasi sui muri, l’ho visto, papà, alzare gli occhi, e subito riabbassarli, non hanno sentito niente, hanno capito che era terminato quando mi sono accomiatato dalla commissione di laurea, senza neppure ricevere una stretta di mano.

    Tutto finito? mi ha chiesto mamma con la borsetta rossa, come le scarpe e il cappello, stretto forte tra le mani diafane.

    Ora sei dottore. Papà era orgoglioso, il suo unico figlio non avrebbe mai indossato la cappetta grigia per grattare disegni con la lametta, suo figlio era dottore.

    Mio padre era un disegnatore in forza a un grande costruttore di macchine movimento terra. Un giorno mi ha portato nella sala dove lavorava, un sabato mattina, doveva completare un lavoro urgente, avrò avuto quattordici anni, forse meno, la grande sala disegni pressoché deserta, solo un paio di colleghi, lontani dietro i loro tecnigrafi, con i quali ha scambiato appena un cenno di saluto.

    Papà ha infilato la cappa, ha controllato che nel taschino vi fossero le due matite e la china nera, ha acceso una sigaretta, che ha subito posato sul bordo interno della finestra, in corrispondenza di una piccola scanalatura ricavata nel legno dell’infisso, un gesto abituale, che ho capito ripeteva decine di volte ogni giorno.

    La luce filtrava grigia dalle grandi finestre appannate di unto, era freddo, al sabato non accendevano il riscaldamento, su un lucido papà rimuoveva con una lametta da barba l’inchiostro di una linea lunga e spessa, muoveva le dita con attenzione, cura, metodo.

    Sai, è questione di un attimo, e ti viene fuori un buco così, e il disegno è da buttare, all’inizio, tutti i giorni, ti dico, tutti i giorni un buco e un disegno buttato, mi chiamava il cavaliere, per dirmi che non era abitudine dell’azienda sprecare fogli da disegno a quel modo, altri anni, Francesco, altre cose, altre situazioni.

    Grattava, il mio papà, con gli occhi miopi incollati al disegno, io guardavo fuori nel cortile, le macchine operatrici in esposizione nel gelo, qualche cliente, in cappotto e cappello, si sforzava di seguire le spiegazioni del tecnico in tuta bianca che, agile, gli apriva la portina dell’alto escavatore e lo invitava a provare la seduta del posto di guida.

    La settimana successiva avrebbe iniziato a lamentare quegli strani dolori alle braccia, come se avesse portato dei pesi, forse dei reumatismi, o una contrattura muscolare, oppure le metastasi di un tumore silente al pancreas, che papà non aveva mai pensato, mai lontanamente immaginato, potesse essere il suo destino, così che nei mesi del dolore lottò soprattutto contro l’evidenza di questa disillusione.

    Povero papà, nel pigiama azzurrino e le ciabatte nuove che la mamma gli aveva acquistato per l’ospedale, dove non aveva voluto restare, preferendo la reclusione in casa, tra la stanza e la cucina, avanti e indietro, centinaia di volte, gli occhi sporgenti, la barba lunga. Le prime settimane erano state durissime, urlava senza ritegno, anche la notte, grida orribili, lancinanti, ma accidenti, papà, sei stato un soldato e un partigiano, trattieniti, Cristo, sei un uomo, non puoi lasciarti andare così.

    Dopo, progressivamente, il dolore si era chetato, lamentava piuttosto un senso di fastidio continuo, ogni tanto accusava delle fitte, ripeteva ossessivamente che andava molto meglio, di uscire però non se ne parlava, era terrorizzato dall’idea di stare male mentre attraversava la strada, o mentre giocava a carte al bar, così restava in casa, a tormentare me e mia madre, la mamma soprattutto, reclusa anche lei, sbalordita davanti a quell’evento.

    Sola, sua sorella non veniva più a trovarla, poiché la malattia la metteva in imbarazzo, amiche non ne aveva, e così, con il mestolo in mano, le spalle alla finestra della cucina, osservava quell’uomo pavido combattere una battaglia perduta, senza decoro, trascorrendo il tempo a inveire contro i dirigenti della sua azienda, dei ladri, i suoi colleghi, degli scansafatiche e dei ruffiani, suo fratello, un uomo inutile succube della moglie, avanti e indietro per il corridoio, centinaia di volte, sfilando curvo sotto lo sguardo allibito di sua moglie, che stringe il grembiule più stretto, e non sa più dove mettere le mani.

    È morto nel suo letto nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 1973, senza aver ripreso conoscenza. Al funerale è venuto un suo ex-collega, che mi ha stretto rapidamente la mano, senza dire nulla.

    * * *

    Quel sabato primo dicembre, Laura è venuta a casa dopocena, ha parlottato a lungo con la mamma in sala, in piedi, accanto al lucido tavolo rettangolare, un mobile conservato come una reliquia, con la tovaglietta all’unci-netto candida al centro ben stesa sotto il vassoietto di peltro colmo di caramelle, ci abbiamo tenuto, ma solo qualche volta, il pranzo di Natale, non credo sia stato utilizzato in più di cinque occasioni.

    C’è Laura! ha detto la mamma. Si è tolta il grembiule, sono le nove e un quarto. Io vado a letto, buona serata.

    Mamma, Dio santo, a letto alle nove e un quarto, che senso ha, per rigirarti per ore tra le lenzuola, ti sento, ascolto la rete del letto cigolare, lo schiocco dell’inter-ruttore della luce, quante volte ti alzi, per aprire le imposte, solo una fessura, per guardare fuori la notte, un auto che passa, il metronotte in bicicletta, a piedi nudi, hai freddo, richiudi la finestra, piano, torni a letto, spegni la luce, domani mattina devi ricordarti di andare trovare papà, perché è domenica, poi di lunedì, giorno feriale, a comprare lo stracchino, e i pomodori, e chissà a cosa pensi, a come sei, tra le bancarelle del mercato con la borsa della spesa semivuota, ti dimenticherai lo stracchino e per pranzo, da sola, ti nutrirai di pomodori sconditi accompagnati da un bicchiere d’acqua del rubinetto.

    Ciao Francesco, pranzi con me domani?

    No, mamma, resto fuori tutto il giorno, è domenica.

    A domani sera, allora, farò il pollo al forno, se vuoi venire anche tu, Laura.

    Grazie signora, ma domani…

    Grazie a voi, notte.

    Quando Laura l’ha sentita chiudere la porta della camera si è avvicinata, profuma di sapone di Marsiglia, ha una bella camicetta bianca. È impiegata in uno studio di avvocati, per uno stipendio da fame, senza gli straordinari pagati, risparmia tutto, per il nostro futuro, per abbandonare la famiglia, il padre in pensione, tutto il giorno a casa a sputare sentenze, il fratello senza lavoro,

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