La leggenda di Milan Jansvich
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Anteprima del libro
La leggenda di Milan Jansvich - Mauro Slavich
2012
Addio, miei cari.
Der Führer Gregorius Doppelmalz[1] stava rientrando in caserma, con lui c’erano altri quattro soldati ed avevano terminato il loro giro d’ispezione.
Il sole stava per tramontare ed illuminava di traverso le cime dei monti Beskydy, facendo sì che si ombreggiassero a vicenda come nel gioco del domino.
Gli restava da fare solo l’ultimo sentiero e sarebbe giunto in paese. La prima casa che incontrò era quella della famiglia Jansvich.
Piotr, il capo-famiglia, stava sul tetto con un martello e dei chiodi per ripararlo. Sua moglie, probabilmente era in cucina a preparare la cena, dal camino usciva del fumo. Nel cortile, i figli più grandi badavano alle bestie e rastrellavano l’erba; i più piccoli correvano intorno alla casa, ridendo.
Quando passò la ronda, le attività della famiglia Jansvich si fermarono per salutare i militari. Il Sergente rispose per tutti, portando la mano alla fronte.
Gregorius amava il momento del rientro. Quando attraversava il paese si credeva importante. Il fucile a tracolla, lo zainetto sulle spalle, il berretto con la visiera lucida, la giacca di lana rossa ed i pantaloni verdi. Si sentiva bello. Camminava con la testa alta e sbirciava le ragazze per vedere se lo osservavano. A volte capitava. Sapeva che non n’avrebbe, mai, conquistata una. Lui era austriaco e loro valacche. Non si poteva.
All’inizio del XVIII secolo gli Jansvich costruirono la loro casa ad ottocento metri dal villaggio di Frenštát, ai piedi del monte Pivǒt. La realizzarono con assi di legno, ricavate dagli alberi che si trovavano nei boschi delle loro montagne e terra argillosa. In fianco eressero la stalla per l’unico cavallo che avevano, un rifugio per le poche pecore, le galline e i due conigli, uno bianco e uno nero. Tutt’intorno misero uno steccato per delimitare la loro proprietà. La moglie di Piotr si adoperò per abbellire il cortile, seminando fiori e piantando quattro abeti. Una zona la destinò ad orto, coltivando insalata, patate e fagioli.
Il 17 dicembre del 1712, nel tardo pomeriggio, quando il giorno cede il posto alla notte, nacque l’ultimo dei loro figli. Pesava 4,2 chilogrammi e aveva la testa lucida come una palla di cannone. Era inverno e un metro di neve copriva villaggio e dintorni. Lo chiamarono: Milan.
A quel tempo, in paese, non c’era la scuola e Milan, come tutti gli altri bambini, aiutava i genitori nelle loro faccende.
All’età di sei anni, suo padre lo mandò in montagna con le pecore. Usciva da casa all’alba e rientrava al tramonto. Il suo compito era di non perderne, se si avvicinavano a dirupi o a situazioni pericolose doveva fare in modo di allontanarle; nell'eventualità che arrivassero i lupi, aveva il compito di spaventarli e cacciarli usando la fionda.
Quando compì otto anni, suo padre lo portò con sé in montagna. Quello fu il suo primo giorno di caccia e per quattro anni suo padre lo portò a caccia, tutte le volte che ci andava.
Ad undici anni suo padre gli svelò un segreto. Erano usciti da casa all’alba, come sempre. Si erano avviati sul sentiero nel versante Est del monte Pivǒt ed avevano camminato per almeno tre ore, attraversando tre montagne. Ad un certo punto, suo padre si fermò e si avviò per uno dei tanti piccoli sentieri che si addentravano nel bosco. Camminarono circa mezz’ora e arrivarono ad un costone di roccia. Suo padre si chinò spostando una lastra che chiudeva un buco, ma il buco non era un buco nella montagna, bensì l’ingresso di una grotta. Per entrare si dovettero coricare e strisciare per un metro e poi…si meravigliò. Alla fine del piccolo cunicolo c’era una larga grotta, più grande della loro casa e nel centro scorreva un fiume sotterraneo.
«Non farne parola con nessuno. Nemmeno con i tuoi fratelli e tua madre. Mi raccomando. Questo sarà il nostro segreto.»
Così gli parlò suo padre, tenendogli la mano e guardandolo negli occhi.
«Te lo giuro.»
Rispose semplicemente Milan, mentre si guardava intorno sbalordito.
Vide un piccolo arsenale. Barilotti di polvere da sparo, fucili, archi e frecce, corde, spade e pugnali, coperte e vestiario. Capì il perché del dover tener segreto il posto. Sapeva che suo padre era un rivoltoso, che non aveva mai accettato il giogo degli Asburgo.
Marzo 1724.
Una volta la settimana, sempre il venerdì sera, a casa degli Jansvich si organizzavano delle cene. Piotr e sua moglie invitavano uomini del paese, amici di vecchia data. Milan, alla fine, era mandato a letto insieme a suo fratello Goran.
Andavano sotto le coperte e sentivano il loro padre battere i pugni sul tavolo ed urlare, mentre diceva:
«Che m’importa se mio nonno ha giurato fedeltà all’Impero asburgico. Non è stata una sua libera scelta e tuo nonno Joshin ? ed il tuo Hochin ? ed il tuo Karlov ? Se non avessero giurato li avrebbero ammazzati.
Questi cani ci sfruttano, calpestano la nostra terra, arruoleranno i nostri figli nel loro esercito. Se non facciamo qualcosa per ribellarci, alla fine, la nostra gente perderà la propria identità e diventerà austriaca.»
I due bambini si guardavano con le facce stupite. Non avevano mai sentito il loro padre alzare la voce.
In famiglia era sempre dolce ed affettuoso, se qualcuno gli chiedeva qualcosa, rispondeva con gentilezza. Intanto, al piano terra, la discussione continuava e loro ascoltavano incuriositi. Sentivano gli amici del padre chiamarlo "comandante" e questo significava che lo ritenevano il loro capo.
«Siamo quasi pronti, ho nascosto un piccolo arsenale e quando verrà il momento glielo faremo vedere noi di che pasta siamo fatti.»
La voce del loro padre, seria, decisa, lasciava intuire che era una persona sicura di se. Un uomo che non aveva dubbi.
Karlov si mise in mezzo nel discorso di Piotr:
«Potremmo morire, noi e le nostre famiglie. Non ci hai pensato?»
«Certo che ci ho pensato. È un grosso rischio, dovremo fare molta attenzione. In ogni modo, è la nostra guerra e prima o poi, vinceremo. Rimanderemo i sauerkraut-fresser[2] a casa loro. Dovremo attaccarli, quando sono in pochi ed isolati. Ad esempio, quando mandano le loro pattuglie in montagna. Li colpiremo e nasconderemo i loro cadaveri in modo che non li possano trovare. Dobbiamo combatterli come facevano i nostri antenati.»
«Si! Ha ragione.»
S’intromise Joshin.
«Anch’io sono d’accordo.»
Disse Hochin.
I due bambini si guardavano ed erano orgogliosi del loro padre. Conoscevano la storia del loro popolo.
«Nostro padre è il comandante dei ribelli?»
Domandò Milan, rivolto al fratello.
«Si. Non hai capito?»
Rispose Goran.
«Ho capito. Non lo sapevo, però sono contento. È una persona importante».
Annuì Milan, guardando le travi del soffitto.
«Già.»
Replicò suo fratello.
La conversazione in cucina non era terminata.
«Morire? Può darsi. Io sono disposto a morire se è per una giusta causa e questa lo è.»
Piotr Jansvich espose con serietà ai suoi amici il suo pensiero e continuò dicendo:
«Dobbiamo cercare altra gente che si unisca a noi. Siamo pochi. Ci vuole qualcun altro.»
«Va bene. Vediamo se riusciamo a coinvolgerne qualcuno. Hai qualche idea? Chi possiamo avvicinare senza correre pericoli?»
Domandò Karlov.
«Non so. Guardatevi intorno e cercate di capire chi potrebbe far parte del nostro gruppo.»
A quel punto s’era fatto tardi e si salutarono rimandando al prossimo venerdì la discussione, con la speranza di avere nuovi compaesani nel loro piccolo gruppo.
Milan e Goran sentirono i passi dei loro genitori salire le scale. Li sentirono aprire la porta della loro camera per vedere se stavano dormendo e rimasero immobili, come chi dorme da un pezzo. Capirono che stavano bisbigliando e sorridendo e dopo chiusero la porta lentamente per non far rumore ed andarono nella loro camera.
Milan e Goran si guardarono e sorrisero con complicità. Ora, erano a conoscenza di un segreto.
«Buonanotte Goran.»
«Buonanotte anche a te.»
Luglio 1724.
Era una bella mattina, il cielo si presentava azzurro e limpido come di rado, solo una piccola nuvola bianca stava sopra la cima del monte Pivǒt sembrando lo sbuffo di una locomotiva. Milan si trovava in montagna con le pecore, quando i gendarmi entrarono a casa sua ed arrestarono i suoi genitori e i suoi fratelli. Alla fine di quel giorno stava tornando a casa e incontrò un amico di suo padre, questo lo avvertì di scappare e nascondersi perché gli austriaci lo stavano cercando. Gli raccontò che avevano arrestato la sua famiglia e di mettersi in salvo dato che i tempi erano brutti. Milan abbandonò le pecore e corse a rifugiarsi nella grotta segreta.
I boschi dei suoi monti li conosceva e gli piaceva attraversarli. L’aveva fatto tutte le volte che aveva portato le pecore e le capre al pascolo. Osservava le piante, gli insetti, gli uccelli e tutti gli altri, piccoli e grandi, esseri che lo abitavano.
Quando era nel bosco si sentiva libero e felice. Si sentiva vicino a Dio.
Tutto questo succedeva di giorno perché lui non aveva mai avuto un motivo per passare una notte nel bosco. Adesso, la sua nuova casa era nel mezzo del bosco e