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La cucina delle Marche in oltre 450 ricette
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E-book883 pagine5 ore

La cucina delle Marche in oltre 450 ricette

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Info su questo ebook

Profumi, sapori e immagini di una terra meravigliosa

Brodetto di San Benedetto • vincisgrassi • faraona in salmì • guazzetto di pesce • stoccafisso all’anconetana • olive all’ascolana • torrone di Camerino • biscotti alle visciole • vino cotto…
e molte altre ricette!

Brodetti, vincisgrassi, maccheroncini di Campofilone, arrosti morti, preparazioni in potacchio: Petra Carsetti, da anni coautrice con Carlo Cambi del bestseller Il Mangiarozzo, ha intrapreso un viaggio tra i profumi e i sapori delle terre marchigiane per compilare un ricettario completo e accurato, che ha lo spessore della ricerca, la praticità del ricettario e il fascino del romanzo. Con l’apporto di Emilia Migliorelli, ha scandagliato i libri di cucina dei conventi e delle case nobiliari, ha raccolto in presa diretta dalle “vergare” i segreti di cucina, ha sollecitato i ristoratori a svelare le loro preparazioni, ha carpito agli artigiani del gusto preziosi segreti come quello del torrone o dell’Alchermes. Petra Carsetti racconta queste ricette con lo stile agile di una casalinga, le cataloga con il rigore dello studioso, le accompagna con la descrizione dei luoghi e, valore aggiunto non secondario, abbina a ogni preparazione un vino marchigiano secondo i canoni della migliore sommellerie. Sono quasi 500 le ricette raccolte e sono altrettanti i vini raccontati e abbinati a ogni preparazione. Per narrare il gusto dell’eccellenza, i sapori e i profumi inconfondibili di una regione unica e meravigliosa.
Petra Carsetti
maceratese DOC , ha studiato con alcuni dei maggiori chef della Regione Marche e di tutta Italia. Da anni è la più stretta coadiutrice di Carlo Cambi ed è la coautrice della guida Il Mangiarozzo, bestseller pubblicato dalla Newton Compton. Ha inoltre collaborato alla redazione di Le ricette e i vini del Mangiarozzo, 101 osterie e trattorie di Milano dove mangiare almeno una volta nella vita, Le ricette d’oro delle migliori osterie e trattorie italiane del Mangiarozzo.
LinguaItaliano
Data di uscita16 mar 2015
ISBN9788854181670
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    Anteprima del libro

    La cucina delle Marche in oltre 450 ricette - Petra Carsetti

    257

    Le fotografie provengono dall’archivio Newton Compton,

    fotografi Neubauten Studio (pp. 1-6, 8-10, 12-30, 32),

    iStockphoto (pp. 7, 11, 31)

    Prima edizione ebook: marzo 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8167-0

    www.newtoncompton.com

    PETRA CARSETTI

    LA CUCINA DELLE MARCHE

    IN OLTRE 450 RICETTE

    Profumi, sapori e immagini di una terra meravigliosa

    Newton Compton editori

    L’autrice Petra Carsetti sarà grata per qualsiasi suggerimento, ricetta o spiegazione che possa contribuire a un miglioramento dell’opera:

    Petra Carsetti

    c/o Immagine

    via Mozzi 89

    62100 Macerata

    e-mail: petra@immaginemc.it

    info@newtoncompton.com

    www.newtoncompton.com

    A nonna Lavinia, che è stata mamma, culla di affetti, maestra di vita e che mi ha dato

    il senso del rispetto della natura, il valore dell’onestà, il piacere dell’amore.

    A mia figlia Carlotta, che possa avere altrettanto dalla vita.

    INTRODUZIONE

    Per campi, badie e coste la mia pentola al plurale

    Il lavoro è amore reso visibile...

    Poiché se cuocete il pane con indifferenza,

    cuocete un pane amaro che nutre l’uomo solo a metà.

    E se pigiate l’uva di malavoglia,

    il vostro malanimo distillerà veleno nel vino.

    Da Il Profeta di Kahlil Gibran

    Principia da un lessico familiare, da un diario minimo di sentimenti, di ricordi, di emozioni, questo tentativo di compendiare i sapori della mia terra: le Marche. Sono queste pagine un atto di riconoscenza verso la mia regione e sono il frutto di un lavo- ro, di un viaggio che ho condotto con amore. Ho premesso a queste mie note – che tendono ad illustrare il cammino che ho percorso, le sue motivazioni e le varie tappe alla ricerca delle tradizioni gastronomiche marchigiane – quel distico tratto da un li- bro che è una sorta di vangelo laico in cui si sente come la cultura dell’Occidente e dell’Oriente ben possano fondersi in unico valore universale. Il Profeta di Gibran è un libro di spunti e di sentenze e lo tengo caro in questa circostanza per due motivi: il primo è che vi è una riflessione illuminante sul lavorare con amore. Io sento di aver fatto questo mio minimo lavoro di ricerca mossa dall’amore, ma più ancora sono persuasa che non esiste vera cucina senza amore. È la cucina che mi è cara, quella che mi piace e che ho cercato di trasferire in questa raccolta di ricette: è la cucina di casa, dei campi, delle tradizioni marinare, che ho scovato tra ricettari custoditi nei conventi come quelle delle suore Clarisse del Convento di San Giuseppe di Pollenza o delle Clarisse di Camerino, tra i libri di cucina delle antiche e nobilissime famiglie marchigiane, non ultime le ricette dei Bonaccorsi o dei Conti Pallotta, tra gli usi degli osti e delle cuoche marchigiane, di cui sono molto orgogliosa e soprattutto onorata. È una cucina antimodaiola quella non creativa, alla fine poco amata dagli italiani che restano ancorati, e giustamente, alla gastronomia del territorio, alla cucina nutritiva e nativa. Alla cucina dell’amore, appunto. Il secondo motivo per cui Il Profeta mi è sembrato un possibilefil rouge intellettuale di questo mio lavoro è che, come ho già notato, esso co- stituisce una summa della possibile coesistenza della cultura d’Oriente con quella d’Occidente. Troppo spesso ragionando delle Marche si ha in testa che esse siano la terra dei Papi. È vero che lo Stato della Chiesa ha qui esercitato per lunghi secoli potere temporale e di condizionamento culturale, ma è altrettanto vero che da qui, proprio dalle Marche, è partito il ponte culturale verso l’Oriente. E penso – inevitabilmente – a padre Matteo Ricci, che fu non l’evangelizzatore ma il diffusore della cul- tura occidentale in Cina, e penso a Tucci che ne seguì le orme quasi quattrocento anni dopo, e penso ai tanti influssi balcanici, mediorientali e asiatici che la nostra cultura, anche quella gastronomica, ha subìto. Certo, a veder bene, si sente in fondo alla pentola delle mie terre sempre un sapore di campagna, che l’agricoltura è stata per le Marche, ma lo è ancora, un motore di sviluppo imprescindibile. In larga misura condizionato dall’understatement che ci è proprio: non siamo capaci di enfatizzare oltre lo stretto indispensabile i nostri valori. Lo testimonia, ad esempio, la scarsezza di prodotti DOP e IGP del nostro ricettario. A scorrere l’elenco ci imbattiamo appena nella Caciotta di Urbino, nel Prosciutto di Carpegna, nel Ciauscolo e nel Salame di Fabriano, e negli oli extravergine. Ma se io mi mettessi qui a fare l’elenco delle peculiarità agricolo-gastronomiche della mia terra finirei per scrivere un’enciclopedia. Citerò alcuni di questi prodotti per far capire subito quanto vasta e ricca e mutevole sia la nostra dispensa. Come avrò modo di notare più avanti, la cucina marchigiana è infatti una cucina fondata sugli ingredienti che hanno dato luogo anche ad una cospicua produzione artigianale di trasformazione. Nel libro vi sono molte ricette di confetture, di conserve, di elisir che mi sono state date da artigiani del gusto che hanno perpetuato prassi antichissime e che hanno addirittura recuperato frutti dimenticati. Ma ancor più vasta è la possibilità di declinare il coltivato col selvatico nel nostro ricettario marchigiano. Così la messe di prodotti è davvero ampia: si va dal fagiolo monachello al grano Senatore Cappelli, si va dalla genzianella dei Sibillini al tartufo nero di Pievetorina, a quello bianco pregiatissimo di Acqualagna, si va dal Pecorino di Visso al Caciofiore dei Sibillini, dal carciofo Violetto di Montelupone all’oliva Tenera Ascolana, dalla mela Rosa dei Sibillini alla pesca Percoca della Valle dell’Aso, si va dalla roveja selvatica alla lenticchia, dal farro alla mora di gelso. E anche questi prodotti, questi frutti, sono esperienze d’amore: per la terra, per il mare. Davvero il nostro paesaggio è, anche gastronomico, in bilico tra il Cantico delle creature di Frate Francesco che scelse le Marche come terra di predicazione contigua alla sua culla umbra, all’Infinito di Giacomo Leopardi. È di questa terra che ho parlato nel mio libro. Con orgoglio. E con lo stesso orgoglio tanti hanno contribuito a consolidarlo, dacché non v’è ricetta che io non abbia raccolto da un segreto di famiglia, da una prassi di ristorante, da una consuetudine conventuale, da un’usanza artigiana.

    Quando mi sono accinta a mettere mano a questo progetto avevo ben presenti le coordinate lungo le quali indirizzare la mia ricerca, ma certo non m’aspettavo di dovermi misurare con una realtà così complessa e complessiva. Dovevo peraltro esserne consapevole, sol che mi fossi ricordata di quanto scrive Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia: «Le Marche sono un plurale». E, a inorgoglirmi, questo maestro della descrizione nota: «Se si volesse stabilire qual è il paesaggio italiano più tipico, bisognerebbe indicare le Marche, specie nel maceratese e ai suoi confini. L’Italia, con i suoi paesaggi, è un distillato del mondo, le Marche dell’Italia». Macerata! Le mie colline, i miei fiumi, i miei boschi e quel rincorrersi di piccole badie, di pievi, di castelli, e quelle case sparse che sembrano un pigolare di pulcini all’ombra della montagna chioccia, e quei vapori di caminetto che tostano di profumo di bosco l’aria, e quel gorgogliare sommesso di fontanelle, il rosseggiare degli ammattonati delle città murate, la povertà essenziale e straniante delle case di terra. Il maceratese: vestigia d’arte quasi celate, nascoste nelle pietre ruvide dei palazzi aviti. Macerata e la mia vita trascorsa tra amicizie, brindisi, cene messe su con dedizione per incontrarsi, servizi ai tavoli e nelle cucine per pagarsi gli studi all’università in un’Ancona troppo vicina per essere un totale altrove, troppo lontana per generare affezione; quella mia minima biografia ispessita da sapori che riemergono dall’infanzia, scandita dalle corse tra i noceti e i castagneti delle colline attorno a Castelraimondo, increspata dalle follie in motorino giù per i dirupi. Il maceratese che davvero potrei assaporare con un verso di De Gregori quando tutto «è silenzio e funghi, buoni da mangiare buoni da seccare, da farci il sugo quando viene Natale». Il maceratese che è la mia canzone del cuore, da cantare con la voce rauca di Satchmo (Louis Armstrong), il mio piccolo, immenso wonderful world! Così è cominciato un viaggio sul filo della memoria alla ricerca dei nostri sapori più veri. Non nascondo che questo mio libro si è concentrato soprattutto sui sapori del maceratese. Le ragioni di questa mia scelta sono diverse: la prima e più consistente risiede nel fatto – e avrò modo di argomentarlo ulteriormente – che la cucina maceratese è insieme a quella dell’anconetano la più autentica tra tutte le gastronomie di Marca. Quando parlo del maceratese intendo un territorio allargato rispetto al confine amministrativo. Non si può infatti limitare un areale geoantropico alle sue coordinate geopolitiche. Così la Valle Esina ricade in questa sorta di Macerata grande, così vale per parte dell’Altopiano di Colfiorito ed egualmente per buona parte della fascia pedeappenninica dei Sibillini. Devo anche dire che non vi sono marcate differenze tra la cucina dell’entroterra anconetano e quella delle colline maceratesi, mentre lungo la linea di costa si sentono molto di più gli influssi locali: basti pensare ai brodetti che sono rossi fino ad Ancona, poi diventano gialli nel recanatese e si arricchiscono del peperone nella zona di San Benedetto. La seconda ragione per la quale mi sono orientata più sull’esplorazione delle ricette maceratesi (senza ovviamente trascurare gli altri meravigliosi territori della mia regione) è che in questa porzione delle Marche si è concentrata una forte variabilità della cucina in ragione del censo. E qui queste variabilità sono state anche documentalmente conservate. Come ho già sottolineato nel maceratese sono rimaste intatte alcune preziosissime fonti di cultura gastronomica: i conventi e le nobili famiglie. Devo alle suore di Matelica, devo alla Contessa Pallotta della Torre del Parco, devo a Ugo Bellesi l’avermi messo a disposizione alcune chicche. Penso ai biscottini delle religiose, penso alla frittata colorata di una famiglia nobile o al suo inusitato stracotto, penso alle carni di casa Bonaccorsi. E mi si para di fronte un infinito spazio di ulteriore ricerca. Mi sono proposta di farlo aggiornando di volta in volta questo mio compendio. Devo peraltro notare che a Macerata – sia pure con ritardo rispetto ad altre aree d’Italia, ma non rispetto alle Marche – si sta facendo strada l’idea di dare protagonismo alla tradizione gastronomica. Per farlo vi sono ragioni teoriche e culturali, ma anche motivazioni di tipo economico. Le ragioni storiche sono date dal fatto che Macerata (nell’accezione più ampia del suo territorio come già l’ho definita) ha prodotto nei secoli il Latini, il Nebbia e il Tirabasso, che sono tre pilastri della cucina italica; quelle culturali sono date dal fatto che Macerata era la città dei ceti colti e che dialogava intimamente con un’agricoltura altrettanto colta; le motivazioni economiche attuali sono date dal fatto che, riflettendo sul modello di sviluppo di queste nostre regioni, la Camera di Commercio, ad esempio, ha inteso dare nuovo impulso alle coltivazioni peculiari e molti enti si danno da fare per cercare di ricostruire una consapevolezza gastronomico-rurale del maceratese. È in questo filone di nuova attenzione alla cucina che si inserisce questo mio modesto lavoro, che mi ha richiesto però un prodromico lavoro di documentazione sia storica che agronomica. Perché senza la consapevolezza degli archetipi è poi difficile costruire un percorso divulgativo delle prassi.

    Al riguardo mi vien da citare uno studioso che manca, e molto, alle nostre vigne. Nel suo ultimo e postumo saggio, dedicato alla degustazione, il professor Tullio De Rosa – un grande del vino italiano – fa notare: «Il degustatore è una persona enologicamente educata, decisamente appassionata in questa sua attività, il quale dispone di un’esperienza la più lunga possibile nell’assaggio divini. In tal senso egli possiede nella propria mente un ricco o se possibile ricchissimo, archivio di impressioni degustative relative a molte centinaia, a migliaia addirittura, divini incontrati. A tale fonte di paragoni egli ricorre continuamente, fonte preziosa per lui, fonte che egli arricchisce e che aggiorna continuamente». Ma ciò che vale per il vino vale egualmente per il cibo e per la cucina come espressione sensoriale. Bisogna avere praticato centinaia di mense, masticato migliaia di cibi, annusato una miriade di profumi, conosciuto innumerevoli piante, assaporato un universo di sentimento e viste centinaia di mani operare. Bisogna aver amato, più che il cibo, le sue ragioni e averne incontrato le sue regioni per darne un minimo conto. Così altro non potevo fare se non abbracciare la mia terra in un contatto ancestrale per sentirne il gusto. È il mio orizzonte d’esperienza: oltre non volevo andare. E mi rendo conto che è solo una infinitesima porzione del mio universo quella che ho potuto esplorare. Perché per fare questo mestiere di collezionista di sapori ci vogliono quattro elementi indispensabili: pazienza, esperienza, umiltà e un profondo attaccamento alle radici. Dunque cercare pietanze, indagare le prassi culinane, collezionare e collazionare ricette è un continuo esercizio di memoria gustolfattiva, di sollecitazione di ricordi sentimentali, di conoscenza geografica e antropologica.

    Il mio vagabondare alla ricerca di preparazioni gastronomiche è stato dunque, prima di tutto, un lessico familiare: perché sono partita dalle mie, dalle nostre ricette di casa. Ma, con mia meraviglia, ho dovuto constatare che ciò che immaginavo fosse un’interpretazione soggettiva di un canovaccio territoriale era invece un patrimonio quasi esclusivo. Le mie consuetudini gastronomiche hanno certo per sottofondo la cultura culinaria della mia terra, ma la mia terra esprime infinite sfumature di sapori e infinite variazioni di prassi in cucina. Doveva ben ricordarmelo Piovene! Per tre fondamentali ragioni. La prima – la più ovvia – è che una terra plurale ha necessariamente una cucina plurima; la seconda, già mi pare più intrigante, è la considerazione che con il variare delle esperienze agrarie variano necessariamente gli ingredienti ed essendo le Marche una sorta di pettine che ha come spina dorsale l’Appennino, come sbocco l’Adriatico e come costituente vallate che corrono parallele le une alle altre, la contaminazione intervalliva sia degli usi agricoli che di quelli gastronomici è stata meno pervasiva; ma è la terza ragione che mi ha indotto a meditare, e molto, sul senso della nostra cucina: il fatto che nei nostri piatti c’è realmente il nostro paesaggio. Penso alla dovizia di erbe spontanee che siamo soliti usare, penso all’enorme mutevolezza degli ingredienti, penso alle differenze di consistenza e di cromatismo dei piatti medesimi. A cui si sommano le differenze di censo e di condizione, ma anche il calendario della tavola: un conto sono i piatti quotidiani, un conto sono quelli delle feste religiose che quasi si sovrappongono alle scadenze agricole. Così vi sono i menù per i santi patroni, vi sono quelli delle feste comandate, ci sono i pranzi della trebbia, quelli della pista (quando si ammazza il maiale), quelli della potatura e quelli dei solstizi. E poi ci sono i banchetti nuziali e quelli funebri. Infine le mense di ringraziamento. Ad ognuna di queste occasioni corrispondono ricette particolari. Così in un pranzo di nozze non doveva mai mancare la stracciatella che si portava in tavola per allargare lo stomaco, per la trebbia non si poteva rinunciare alla pasta con il sugo, a San Giuliano mai far mancare la papera, alla pista s’imbandiva una griglia di costolette e di braciole di maiale, per il ringraziamento era uso mangiare legumi come ai mesti desinari funebri. E altri usi gastronomici sono legati al mondo rurale, come ad esempio i pranzi della raccolta del grano, quando ci si dava una mano da un campo all’altro e l’unico compenso era appunto una solenne mangiata dove si dava fondo ai Ciauscoli (ormai sul punto d’essere troppo vecchi) e ai capocolli, dove arrivavano in tavola i vincisgrassi. E dove se per disgrazia era morta una bestia vaccina finalmente si mangiava carne, anche se più spesso si servivano in tavola le frattaglie sotto forma di trippa, animelle, cuore e paracuore stufati piuttosto che i pezzi pregiati che si cercava comunque di vendere. E in tempi durissimi di mezzadria di solito le parti migliori finivano in casa del fattore e (forse) del proprietario fondiario.

    Egualmente la nostra cucina risente come ho detto del censo e del rango. Vi era indubbiamente una cucina patrizia – ma che attingeva comunque a piene mani anche dalla tradizione contadina – e vi era una cucina claustrale. Su quest’ultima andrebbe fatta una riflessione e una ricerca ben più ampia di quanto io non abbia potuto fare in questo primo approccio a un compendio degli usi gastronomici marchigiani. Ne do un breve accenno perché è un capitolo fondamentale della nostra evoluzione, anche sociale. Non vi sfuggirà che la Valnerina è un continuum che dall’Umbria risale su verso le Marche, né che l’areale piceno e quello umbro sono di una contiguità palmare. Ebbene, da Norcia San Benedetto diffuse il suo cenobitismo proprio come prima terra nelle Marche. A testimoniarlo stanno le tante badie romaniche che punteggiano tutto il nostro territorio e in particolare la Valle Esina, ovviamente la Valnerina, e poi la Val di Chienti e quella del Potenza. L’uso conventuale del mangiare insieme e di acconciare la mensa con il frutto del lavoro dell’orto ha inciso profondamente sulla cultura gastronomica marchigiana, ma anche sull’uso di dare al pranzo il valore di comunità e di momento della trasmissione del potere. Questo è rimasto vero fino alle soglie della nostra contemporaneità. Nei poderi non si andava mai a tavola se la famiglia non era tutta riunita ed era il capoccia (il pater familias dei mezzadri) a dare l’ordine del si mangia con la sua prima inforchettata. Dal cenobitismo, dall’uso monacale e claustrale, abbiamo ereditato pure la capacità/necessità di dare alle ricette anche un significato farmacopeico: nel senso che molte erbe, molti piatti hanno un valore nutrizionale direttamente proporzionale alla loro capacità di mantenere in buona salute il corpo. A questo sono legate anche leggende, quasi che vi fosse nelle Marche – terra popolata da infiniti racconti e da altrettanti miti – una cultura druidica. Una prova, sia pure de relato, si può trovare ad esempio nella liquoristica marchigiana che fa grande uso di erbe per amari e infusi (si pensi al Mistrà o all’Anisetta), ma anche nelle tante marmellate di frutti selvatici diffuse soprattutto nell’areale preappenninico. C’è in queste prassi un doppio richiamo: druidico appunto e conventuale, con l’uso di frati e monache di tenere l’orto dei semplici e l’officina dei rimedi per realizzare medicamenti. Questa tradizione è così lunga che ancora oggi in un paio di conventi si coltiva l’aloe e se ne fanno unguenti, sciroppi, integratori richiestissimi perché hanno svariate proprietà curative. Non è peraltro un caso che l’Università di Camerino abbia una delle più antiche facoltà di botanica e farmacia d’Italia. Un’eredità della Storia, ma anche della nostra propensione a stare in armonia con la natura. Sicuramente ha questo senso il nostro uso a mangiare farro che fu per i Piceni il segno della prosperità e della fertilità, tanto che il matrimonio di questi emigranti umbri era celebrato con lo scambio tra l’uomo e la donna di ciotole di farro. Uso che passerà paro paro nel diritto romano, là dove la cerimonia della confarratio era di fatto il contratto pre-matrimoniale che si sanciva proprio con lo scambio di farro.

    Avrete senza dubbio letto da più parti che la cucina marchigiana è famosa per i secondi. Mi permetto di rifiutare – per quanto ho accennato poco sopra – categoricamente questa affermazione che non tiene minimamente conto dell’evoluzione culturale, antropologica, sociale ed economica delle mie terre. Che oggi nelle Marche la ristorazione di qualità (attenzione: non vuol dire quella che fa pagare un occhio della testa o che fa tendenza; intendo quella che fa dell’esercizio gastronomico prima di tutto un atto di rispetto dell’ingrediente, della tradizione ancorché rinnovata, del territorio e del cliente) sia in grado di offrire dei secondi piatti che da soli valgono il pranzo e il viaggio è fuori di discussione, ma che la nostra cucina sia ricca di secondi piatti e che siano queste pietanze a connotarla è un’approssimazione gastronomica che rasenta il falso. E che in qualche misura è anche un insulto a quanti si sono industriati nei secoli passati (ma fino al secondo dopoguerra, quindi assai prossimamente ai nostri giorni) a mettere insieme il desinare con la cena con espedienti culinari piuttosto che con abbondanza. Se poi si vuole dire che piatti fatti con carni di razza Marchigiana (una splendida razza vaccina dal mantello candido, il posteriore possente, che non a caso fa parte del Consorzio 5R e nulla ha da invidiare alla Chianina in fatto di sapidità), che la porchetta e le preparazioni in porchetta sono un unicum gastronomico delle mie terre, e si vuole ancora significare che i nostri brodetti sono il meglio della cucina di mare adriatica, allora ci sto: accetto che mi si dica che la nostra è una cucina dei secondi. Ma solo in questo senso. Perché vorrei qui ricordare che le Marche sono state grandi consumatrici di polenta, che nelle nostre terre il grano è stato ricchezza e dannazione insieme e oggi ci sono artigiani pastai di primissimo ordine (anche loro protagonisti di ricette presenti in questo libretto) proprio in virtù di questa eredità. Per tacere delle innumerevoli minestre e zuppe che sfruttano tutto il campionario vegetale: da quello spontaneo (penso alla roveglia) e dei boschi (e mi vengono a mente i rugni, le vitalbe, ovviamente i funghi), a quello coltivato (dal fagiolo monachello alla lenticchia). Sul grano ho però da spendere una riflessione. Mi è cara perché vengo da quel fazzoletto di terra che è appena lambito dalle acque del Potenza e che è un piccolo mondo antico incastonato sulle colline alte della valle: è Crispiero. Ne parlerò ancora e più diffusamente. Crispiero, famoso per funghi e castagne, ha dato i natali a un uomo che secondo me meriterebbe una fama universale: Nazareno Strampelli. È l’uomo che ha cambiato la cerealicoltura italiana e il suo intento fu prima di tutto dare ai contadini specie di grano che fossero più produttive per impinguarne, per quanto si poteva, i magri redditi. Tanto per dime una: il famosissimo grano Senatore Cappelli è opera sua. Ma Strampelli non è un accidente della storia. È la conseguenza del fatto che lo Stato Pontificio, una volta sostituite le diverse signorie delle mie terre, impose la coltivazione del grano ovunque. Si fecero disboscamenti imponenti e le tracce sono ancora visibili sui fianchi delle colline, e si trasformò la Marca in un immenso granaio (basta che vi rechiate al Castello della Rancia nelle campagne di Tolentino per scoprire che quello era un granaio fortificato). Tale massiccio investimento in grano relegò sulle montagne più alte la pastorizia che fino a quel momento era stata – grazie al pannolana – la principale attività agricola. Ma in cucina residua una cultura silvo-pastorale assai solida. Due fatti sui quali forse nessuno ha meditato come si dovrebbe; le Marche sono la culla di due razze ovine pregiatissime: la Vissana (ora praticamente scomparsa), poi incrociata con la Merinos e divenuta Sopravvissana (e anche lei non se la passa benissimo in quanto a numero di capi) e la Fabrianese (anche questa razza è fortemente compromessa). Mail portato gastronomico sono una miriade di piatti a base di agnello e di pecora (dalle coratelle alla callara, dal potacchio allo scottadito) e almeno tre formaggi pecorini di assoluto pregio: quello di Visse, la Caciotta di Urbino e il recentissimo riscoperto Caciofiore dei Sibillini ottenuto con il caglio vegetale del cardo selvatico. Faccio dunque proprio fatica a riconoscermi nell’affermazione che la cucina marchigiana è famosa per i secondi piatti. Semmai è una cucina di fusioni: sia in senso geografico che in senso censuale. È vero che nell’ascolano si sentono influssi sannito-abruzzesi, che nel pesarese di fatto non si è distanti dalla cucina romagnola e che forse la cucina marchigiana più autentica – fatti salvi i brodetti, il baccalà e lo stocco – è quella maceratese e quella dell’entroterra anconetano (come vi ho già detto), del pari è vero che piatti come il fritto all’ascolana – e segnatamente l’oliva ripiena e fritta – sono una preparazione popolare che però ha origine cortigiana. È in parte cucina del nascondimento (tutto ciò che è ripieno obbedisce ad una sorta di cucina latina dove si cercava di far diventare la pietanza una specie di scrigno che conteneva ingredienti a sorpresa) e in parte cucina dello stupore, sol che si pensi alla crema fritta che è erede dell’uso rinascimentale di fare tutto un po’ dolce. Con evidente origine cortigiana del piatto. Ritorno alle origini rurali attraverso il miele, che è uno degli ingredienti sovrani delle nostre preparazioni. Così come lo sono i tartufi che erroneamente ci rimandano ad una cucina per ricchi: no, i tartufi erano i frutti ipogei maggiormente disponibili per dare sapidità ai piatti. Vi basti sapere che oggi zone come Acqualagna o come i Sibillini o come Montemonaco sono giacimenti di questi preziosissimi funghi nascosti sotto terra che la credenza popolare – e per questo lungamente sospettati dalla Chiesa – pensava fossero figli del fulmine e dunque del maligno. Ma anche qui vi è una particolarità tutta marchigiana. Da noi il tartufo che più si consuma è il nero pregiato: quello che entra nelle ricette come esaltatore di sapidità e sopporta cottura, sia pure a temperatura bassa e per tempo non infinito. Basta al proposito leggersi i princisgrass del Nebbia per rendersene conto. Né posso tacere che la cucina marchigiana è doviziosamente irrorata dall’extravergine. È forse una delle gastronomie territoriali italiche che fa maggiore uso di olio, concedendo pochissimo allo strutto, alla sugna e al lardo nonostante alcune ricette con il piotto (la fetta grassa di lardo o di guanciale). La ragione è ancora una volta da ricercare nel paesaggio e negli usi agricoli. Le Marche, pur non producendo enormi quantità di olio, hanno un’infinita varietà di drupe: dalla Raggia alla Rosciola, al Piantone di Mogliano, alla Tenera Ascolana, alla Coroncina, per citarne alcune che si sposano con Frantoio, Leccino e Moraiolo, le specie endemiche del Centro Italia. Questa biodiversità olivicola ha fatto sì che ogni enclave territoriale sviluppasse una sua peculiarità nella produzione dell’extravergine e che questa peculiarità si trasferisse in cucina. Per dire di quanto sia complessa la nostra gastronomia vi faccio notare invece la povertà di dolci: il canovaccio è sostanzialmente quello del ciambellone e dei dolci secchi. Pochissimi sono quelli al cucchiaio, rare le panne, centellinato il burro. Ancora una volta la spiegazione risiede negli usi agricoli. Come ho già avuto modo di dire qui, nelle mie colline l’agricoltura è stata fino al secondo dopoguerra una delle principali attività. E la bestia vaccina che si usava era la Marchigiana: grande animale da lavoro e da carne, ma pochissimo produttiva in fatto di latte. Ed ecco che la pasticceria si è dovuta arrangiare. I dolci non potevano essere fatti con fiumi di nettare bianco, ma piuttosto andavano acconciati con tanta farina, ammorbiditi con l’olio o i grassi animali, addolciti con il miele e con il mosto cotto (che è poi sapa o vino Cotto, altri due gioielli della nostra produzione agricola), profumati con le erbe spontanee, ispessiti con ciò che dava naturalmente il bosco: dalle specie di frutta semiselvatiCa (penso alla mela Rosa dei Sibillini, alle more di gelso, alle more) o dalla frutta secca come i fichi, le noci, i pinoli, più le mandorle delle nocciole. Con queste coordinate geoantropologiche si è venuto compilando nei millenni il ricettario marchigiano e questi sono gli ingredienti che mi sono di continuo trovata a rintracciare nelle mie ricette.

    Mi sono dunque misurata con una cucina estremamente composita e ho sentito fortissimo l’insegnamento di Brillat Savarin, secondo il quale la gastronomia spiega tutto. Così scartabellando tra i ricettari antichi, delle biblioteche, dei conventi, di alcuni nobili famiglie locali, ascoltando i tanti che hanno conservato memoria e pratica dei mangiati tradizionali, recuperando da tante donne di casa le loro sapienze, ho redatto finalmente il mio primo ricettario marchigiano. Che non sarà certo l’ultimo. Tanto entusiasmante è stato questo viaggio – e spero che lo sarà anche per i lettori e le lettrici, soprattutto se vorranno mettere in pratica le preparazioni che ho qui raccolto – che ho già urgenza di rimettermi in caccia di altri segreti di cucina. È sorprendente, anche per me che ho la fortuna di praticarlo, come il lavoro di ricerca in fatto di tradizioni gastronomiche diventi una gustosa e felice coazione a ripetere. Il motivo risiede proprio nella gastrosofia di Brillat Savarin: la Physiologic du gout è essenzialmente un esercizio di curiosità intellettuale multidisCiplinare. Perché ad ogni ricetta corrisponde un passaggio di stato economico, culturale, sociale. E una porzione e una proiezione territoriale. Mi resta in mente quella definizione icastica e verissima di Francesca Rigotti nel suo agile e pregevolissimo La filosofia in cucina, critica della ragion culinaria, secondo la quale la ricetta è un processo di elaborazione filosofica perché dal molteplice degli ingredienti attraverso un processo rigoroso (e codificato, ma su questo ritornerò) si giunge all’unità: il piatto (che per la Rigotti corrisponde alla verità). Anche il mio libro si è venuto confezionando così: dal molteplice, che è un molteplice quasi cosmico perché comprende la pluralità della mia regione, attraverso un processo – Che mi auguro rigoroso – di indagine e di catalogazione, ma anche di prova pratica, sono giunta ad una unità: il volume.

    Per le ragioni che ho poco prima accennato il mio non è stato – e non poteva esserlo – un percorso lineare: ho dovuto compiere continue deviazioni, ho dovuto rispondere a continue sollecitazioni. La curiosità, anche intellettuale, è cresciuta ed è stata un magnete così potente da costringermi felicemente a ripercorrere le mie terre. In cerca di artigiani del gusto che custodiscono e perpetuano, gelosi, alcuni processi antichissimi di confezionamento del pane, dei liquori, dei nostri elisir di erbe che hanno pochi eguali al mondo, delle paste alimentari, degli ortaggi conservati, delle marmellate – per dirla con Tonino Guerra – di «frutti dimenticati». Questo saporoso peregrinare è stato anche l’occasione per rifrequentare, o addirittura scoprire, i nostri gioielli di territorio: da Matelica ad Arcevia, da Jesi ad Amandola, passando per Belforte, Pergola, Fano, Montemonaco, Visse, Caldarola, Majolati Spontini, Fabriano, Porto Recanati, Serra San Quirico, San Benedetto e cento altri borghi d’incanto che mi hanno fatto avvertire la densità antropologica delle Marche: una regione di bello infinito. Così vorrei che questo mio lavoro costituisse non solo un utile compendio di cucina, ma fosse un invito esplicito, narrato attraverso l’evocazione sensoriale della cucina, a vedere, vivere, assaporare le mie terre. Sono infatti persuasa che nessuna gastronomia possa comprendersi nel suo complessivo valore senza che si sia preso contatto diretto con i territori. E questo è ancor più vero per le Marche. Credo che in fatto di cucina un ricettario debba essere una sorta di inversione del processo di comprensione: si parte di solito dall’esperienza per arrivare alla conoscenza. Ecco, un ricettario è la codificazione di una conoscenza, ma che non è totalmente compiuta in mancanza dell’esperienza. E ha una duplice valenza: quella del fare, del praticare le ricette, ma anche quella del prendere diretta cognizione dei territori da cui si producono gli ingredienti e da cui sono state condizionate le prassi culinarie. Se questo mio libro ha un senso in più rispetto ai già numerosi compendi che sulla cucina marchigiana sono stati prodotti è proprio questo: invitare all’esperienza del territorio.

    Credetemi: le ricette marchigiane sono come una collezione di matrioske e ognuna ne contiene un’altra e poi un’altra e un’altra ancora. Le varianti, gli accenti di sapori, l’addizione di un ingrediente o il suo mutarsi sono questione di pochi chilometri, spesso da aia in aia c’è un procedere differente, un aggiungere o un levare, quasi che ogni famiglia marchigiana abbia una sua prassi gastronomica. Credo che, come già ho annunciato, chiusa questa prima edizione di ricette marchigiane dovrò necessariamente rimettermi in viaggio per dare conto di altri itinerari del buono. È un’esigenza prima di tutto mia personale.

    A guidarmi, in questo mio viaggio, sono state innanzitutto le esperienze gastronomiche di casa. Prima su tutte quella lasciata in eredità dalla mia infinita nonna: nonna Lavinia. Lavinia veniva da una frazione di Castelraimondo non distante da Camerino che conserva nonostante tutto fattezze e orgoglio ducale: Crispiero... sì, la culla di Strampelli; un piccolo paese immerso in una foresta di macchie, un grumo di case attorno a due chiese, adagiato piuttosto che aggrappato alle sue colline che sembrano onde pietrificate di un immenso mare di querce, di castagni e di corbezzoli, di ginestre e di scopeti. Aveva una spessa sapienza gastronomica: lei aveva cucinato per i signori e l’essenza rurale della sua vita coniugata con l’esperienza di cucina l’avevano eletta a custode dei segreti alimentari delle nostre tradizioni. Con semplicità ed eleganza era capace di apparecchiare ricette complesse e con arguzia era altrettanto abile ad ac­conciare un pranzo con ciò che era rimasto in casa. Ci metteva un ingrediente del tutto speciale: l’amore. Credo in cuor mio che non si possa cucinare senza affetto: questo mio compendio della cucina marchigiana è infatti prima di tutto un atto d’a­more per la mia terra, è un confermare ai tanti amici che a mio desco ideale non può mai mancare come primo nutrimento quello dei sentimenti. Me l’ha trasmesso, questo sentire che è sapere e diventa inevitabilmente sapore di buono, nonna Lavinia, alla quale devo anche l’aver imparato qualche pratica di cucina, l’occhio all’assenza di dosi certe e soprattutto che con poco si può acconciare molto. Ora che scrivo queste ricette non posso non sentire una profonda nostalgia di lei: con quegli occhi di cielo arguti, severi talvolta ma sempre amorevoli, con quella sua testa canuta che pareva una cometa quando svelta s’industriava in casa, con quel seno opimo che evocava nutrimento, con quelle mani d’arbusto che denunciavano annose fatiche e quella voce sempre sussurrata che dispensava ammonimenti e consigli, evitando il dialetto perché voleva che parlassimo correttamente, ma che poi quando erano i momenti della gioia o del rimprovero o del ricordo inevitabilmente scivolava nella sua lingua. Era una donna adusa alla fatica, ma anche alla gioia di vivere, e mi sovviene oggi un suo motto che si attaglia perfettamente a uno degli ingredienti indispensabili per avere quell’exactitude gastronomica tanto cara a Brillat Savarin: la pazienza. Usava cantilenare nonna, nei rari momenti in cui si concedeva il lusso di una vaga tristezza, di remoti rimpianti: «Pazienza vita mia che pati pena, se bona vita non l’hai fatta mai, pazienza vita mia che la farai». Non ci sentite tutta l’eco della civiltà rurale? Quella fiera sopportazione dei giorni passati, quella quieta aspettativa dei giorni che verranno? Senza illusione, ma con intelligente determinazione. E la cucina, a pensarci bene, è così: è in qualche modo un processo galileiaDo che va avanti per prova ed errore. Pazienza se quel piatto non venuto bene subito, verrà meglio. Ma non crediate ad un che di fatalistico: tutto c’è nella cultura marchigiana tranne che il pensare che i giorni migliori verranno come dono celeste. No, nella mia terra – e in questo mia nonna Lavinia era inconsapevolmente calvinista – semmai c’è una determinazione anglosassone: try, try, try. E del resto tre è il numero perfetto! Prova e comunque riprova con passo cauto, certo, ma con passo altrettanto deciso. Quella di noi marchigiani non è una recherche du temps perdu, la nostra è una recherche costante nel tempo. Senza nulla dimenticare, ma senza nulla enfatizzare.

    La mia è stata una buona sorte perché non si è interrotto, nella mia famiglia, il filo della sapienza domestica, che è prima di tutto conoscenza gastronomica. Nonna Lavinia l’ha trasmessa a mia madre Emilia. In molto le somiglia, ma ha acquisito una mo­derna esuberanza che non fa velo al suo essere mamma-chioccia e in questo perfettamente vergara (erano le donne della campagna: le mogli dei capoccia che governa­vano tutta la famiglia e le sorti economiche del podere e dunque erano le vere detentrici del potere guadagnato con la quotidiana fatica dell’accudimento), ma semmai la proietta in una dimensione dinamica di contemporanea efficienza e di disponibilità alla gioia di vivere. È in forza di questo dinamismo intellettuale e affettivo che mamma Emilia ha condiviso con me gran parte della lieta fatica di cercare le ricette, di metter­le insieme, di ordinarle per farle diventare libro. Come abbiamo collaborato per questa lieta e modesta fatica, così mia madre mi ha donato la sapienza di nonna Lavinia: il nostro femminile passarci il testimone non si è interrotto. Siamo fatte davvero, pur nelle differenze soggettive, tutte della stessa pasta. In fatto di vita e di cucina. Non pensiate che sia una sorta di arcadico gineceo quello che vi sto lumeggiando: è la soli­dità di essere donne che ci deriva dai millenni in cui abbiamo dovuto essere femmine e contemporaneamente provveditrici della famiglia. Noi marchigiane, almeno quelle che hanno avuto come me la fortuna di essere messe a parte dei segreti della nostra sa­pienza domestica senza che ci fosse frattura di esperienza e di conoscenza da una ge­nerazione all’altra, siamo al medesimo tempo Sibilla, la dea dell’estasi, dell’ignoto; Ancaria, la dea primigenia dei Piceni, la madre terra che nutre e sostenta, ma contem­poraneamente ammalia e affascina; e Cupra, la Bona Dea che è fertile e bella, che è opi­ma e conduce verso la pienezza del vivere. Partecipando di questo eterno femminino sentiamo la casa e la famiglia come un universo da sostentare, dominare, comprende­re. C’è in questo un doppio valore: quello dell’accudimento e quello della perpetuazione. Con un pizzico di fascino dell’ignoto e del sovrannaturale che accomuna noi donne. Non c’è da stupirsi se la nostra società rurale, anche se in apparenza regolata dai maschi, in realtà era sostanzialmente una comunità matriarcale. Almeno una volta che le donne fossero state maritate e, soprattutto, che fossero diventate madri. Credo che sia una antichissima eredità la nostra pervasiva e assoluta devozione alla Madonna. Certo c’è il faro di Loreto ad illuminare la fede dei marchigiani, ma il richiamo atavico al culto della Madre Terra e dunque il valore dell’eterno femminino sono, quasi inconsciamente, un collante antropologico della nostra società. Mi piacerebbe solo che le marchigiane ne fossero un po’ più consapevoli e un po’ più orgogliose per conservare meglio e rendere più esplicita questa nostra peculiarità. Che è visibilissima in cucina. La nostra è una gastronomia dell’accudimento, del nutrimento piuttosto che una cucina dell’apparenza. E anche se molti critici si ostinano a dire che è «gastronomia dai sapori forti» e dunque verrebbe da pensare virili, fanno – a mio modo di vedere – un’altra topica. La nostra è una cucina decisa perché le donne non cucinano affatto al femminile. Essendo guidate dall’istinto di sostentare, anche affettivamente, cercano di creare piatti che si facciano mangiare, che siano nutrienti, che abbiano un’esplicita attrattiva gastronomica. Dovrei concedermi una rilettura critica di LéviStrauss, ma questo mio lavoro diverrebbe eccessivamente serioso. Vi basti sapere che io ho sentito fortissimo il profumo di endocucina nelle ricette marchigiane, della cucina del focolare. Con alcune minime varianti date ad esempio dalla cucina di viaggio: quella dei pellegrini che proprio per via di Loreto, e per la centralità che le Marche hanno

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