La cucina sarda
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Info su questo ebook
Una gastronomia che da sempre custodisce ed esalta i grandi sapori della terra e del mare
La Sardegna, terra dai due volti, di mare e di montagna, ha fatto della sua cucina un’arte, capace di soddisfare il gusto e l’olfatto di chiunque ne abbia assaggiato i piatti tradizionali. La cacciagione si sposa con finocchio e foglie di mirto selvatico, il pesce con alloro e bacche di ginepro, e poi ancora aragoste, maialino cotto su una brace di legno profumato, formaggi, miele di corbezzolo e dolci di mandorle. Ricette di terra o di mare, il cui ingrediente principale resta sempre il profumo della macchia mediterranea.
Alessandro Molinari Pradelli
giornalista e scrittore bolognese, si occupa da anni di civiltà contadina, enologia, storia della gastronomia e artigianato. Con la Newton Compton ha pubblicato numerosi libri dedicati alla gastronomia delle regioni italiane e l’imponente volume La cucina regionale italiana in oltre 5000 ricette.
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Anteprima del libro
La cucina sarda - Alessandro Molinari Pradelli
115
In questa collana:
Laura Rangoni, La cucina piemontese
Laura Rangoni, La cucina milanese
Emilia Valli,La cucina del Veneto
Emilia Valli, La cucina del Friuli
Laura Rangoni, La cucina bolognese
Laura Rangoni, La cucina toscana di mare
Giuliano Malizia, La cucina romana e ebraico-romanesca
Luciano Pignataro, La cucina napoletana di mare
Luigi Sada, La cucina pugliese
Alba Allotta, La cucina siciliana
Laura Rangoni, La cucina sarda di mare
Prima edizione ebook: settembre 2012
© 1997 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-4616-7
www.newtoncompton.com
Edizione digitale a cura di geco srl
Alessandro Molinari Pradelli
La cucina sarda
Ricette della tradizione e nuove proposte per una gastronomia capace di custodire i grandi sapori della terra e del mare
Rosella,
forse nella vita ci si perde per ritrovarsi (rincontrarsi) migliori di prima.
A.M.P.
Introduzione
La prima emozione che si prova nel visitare la Sardegna è un senso di liberazione dai troppi condizionamenti della società moderna; tanto è immediata da suggerirci di affidare anima e corpo alla natura, al paesaggio, alle civiltà di questa terra.
Ancora oggi, sia la campagna che i centri abitati nascondono e conservano gelosamente antiche usanze e culture. Dentro la bellezza e il mistero della Sardegna c’è infatti la convergenza di più civiltà succedutesi nei secoli; e i sardi ne sono ancora fieri custodi e ambasciatori.
La terra, tremendamente ostile, è stata combattuta, condizionata, accarezzata, coccolata, per viverla e goderne i frutti. Lo testimoniano la singolarità dei prodotti alimentari, unici e al tempo stesso vari. Unici per qualità e doti; vari per tipicità e manipolazione tradizionale, frutto della fantasia e della ritualità. Perché, va detto, tutta la cucina sarda convive con le grandi ricorrenze della vita: in cucina, infatti, le festeggia e le ricorda attraverso i suoi piatti. A volte sconcertanti per la semplicità, ma pur sempre ammirevoli per il decoro e la fantasia: così, dai pani ai dolci, dalle zuppe alle carni, dalle verdure ai vini.
Capitolo dopo capitolo, in una progressione architettata e voluta per mettere a proprio agio il lettore (preoccupati di affascinare anche il neofita), abbiamo proposto gli alimenti come si è soliti organizzare un menù.
Seguiteci passo passo; vi accompagneremo dagli anfratti costieri più assolati alle ombre dei boschi e delle case; dalle trasparenze dell’acqua ai cortili e agli ovili per farvi gustare i frutti della pesca e della pastorizia, dell’orto e del vigneto, senza dimenticare la cacciagione, in una serie di ricette legate da un comune denominatore: la tradizione e la fantasia.
A.M.P.
Bisano di Monterenzio, maggio 1997
Il Pane
Pani e focacce
Il pane rappresenta la sacralità della mensa sarda, l’alimento primario della vita quotidiana, attraverso il recupero di valori simbolici. È pressoché impossibile riuscire a catalogare tutte le forme di pane, perché ogni paese, ogni famiglia ne ha di proprie, per accompagnare gli eventi fondamentali della vita: nascita, battesimo, matrimonio, feste, ricorrenze, funerali, ecc.
Secondo la differente farina utilizzata il pane si distingue in de sceddi (di fiore di farina), crivaxiu (di cruschello), poddini (crusca), orzatu (di farina d’orzo), de simbula (di semola).
Cabonischeddus
Piccoli pani dalle svariate forme, confezionati in particolari occasioni: ricorrenze famigliari, feste religiose, donativi a ospiti.
Carta da musica (o carta musica)
Antico pane azzimo, impastato con acqua, farina di frumento e (o) di orzo; croccante e leggero, a dischi sottili (una volta si arrotolavano, appunto, come la carta da musica), decorato
da puntolini scuri prodottisi durante la cottura. Conservandosi per lungo tempo inalterato, si utilizza soprattutto per inzupparlo nell’acqua, nel brodo, nel latte o nel caffè.
Secondo la tradizione, questo è il pane tipico dei pastori o dei marinai; di gran lunga più gustoso delle gallette.
Era fabbricato soprattutto nei territori settentrionali della Sardegna, più esattamente nel Logoduro e nel Nuorese, dove la pastorizia montana occupava gran parte della popolazione; e si consumava prevalentemente insieme ai formaggi di capra o di pecora, oppure con la ricotta.
Una curiosità: la sfoglia di pane veniva utilizzata come piatto, che durante il pasto, poco per volta, si mangiava assieme al companatico.
La sua dizione originale sarebbe pane carasau, ma già nel Nuorese queste pagine
sottili e croccanti si dicono pizas.
Ingredienti:
kg 4 di farina di grano duro
acqua
Impastate la farina con sola acqua, tanto da ottenere un amalgama liscio, piuttosto consistente e sodo.
La pasta spianatela con il matterello o con il palmo della mano fino a ridurla in fogli sottilissimi, a forma circolare; quindi, questi dischi lasciateli fermentare separati l’un l’altro da teli di lino, il tutto ricoperto da un panno di lana. Dopo alcune ore metteteli nel forno rovente e attendete che si gonfino; ritirati, apriteli tutt’intorno ai bordi, con un coltellino affilato, quindi depositateli gli uni sugli altri, lasciandoli asciugare e raffreddare. Ultima fase della lavorazione: ripassarli in forno, per dorarli e abbrustolirli.
Usate molta cura a sfornare, essendo i dischi piuttosto fragili e facili da sbriciolare.
Si conservano ammonticchiando gli uni sugli altri, entro le corbule (ceste di paglia), ricoperti da un telo.
Varianti
Questo pane, purtroppo, con il gusto moderno si è fortemente modificato; sia nella percentuale della farina (di grano o di orzo) sia nell’aggiunta del lievito e del sale, facendogli perdere la caratteristica dell’azzimo.
Con il lievito la preparazione è assai diversa da quella originale e antica, in quanto abbisogna di alcune ore di lievitazione (almeno 6) per l’impasto. Si consideri che il poco impasto lievitato va aggiunto alla restante farina, cosicché l’intera massa fermenti.
Oggi, in commercio, si trova la carta musica condita anche con poco olio e sale; e prende nome di pane guttiau.
Civrargiu
Pane ordinario, detto civraxiu nel Campidano, chibarzu nel Logoduro, chiariu nel Nuorese.
È un pane grande (può raggiungere il kg di peso), a base tonda, con la crosta piuttosto croccante e la mollica morbida.
Si usa anche, affettato, sdraiato in teglie di terracotta, e bagnato
(ammorbidito e insaporito) dal sugo di cottura delle carni di maiale o di agnello arrostite.
Risulta particolarmente gustoso se imbevete le fette con il latte; queste le passate nell’uovo sbattuto e le friggete (nell’olio o nello strutto). Prima di servirle, a piacere, spolverizzatele con sale o con zucchero.
Coccoi
Pane campidanese (ieri, esclusivo delle giornate di festa), della provincia di Cagliari; simile a quello prodotto in Gallura, chiamato però Pane de tricu riju, proprio quello utilizzato per preparare la rinomata zuppa gallurese.
Nel territorio di Cagliari questo pane si confeziona con farina scelta di grano duro e si chiama pane ’e scelti, oppure con sola semola, detto pane ’e simbula.
Oggi è il pane quotidiano, nelle sue innumerevoli varianti di sapore e formato; caratteristico per i decori che ricordano le corna delle lumache, oppure i carciofi; ma più spesso abbozzate corone reali.
A tal proposito meriterebbe potersi soffermare a spiare le ultime fasi della confezione dei coccoi, perché mani abili ritagliano l’impasto lievitato, lo tagliuzzano con la punta delle forbici, tanto da formare infiniti decori.
Variante
Coccoi a puppia, piccoli pani a foggia di bambolina, da regalare ai più piccini, secondo l’usanza di Dualchi, nel Nuorese.
Costeddas
Pane di piccole dimensioni, impastato con semola di grano duro, acqua e pochissimo lievito perché s’elevi di un nonnulla, adatto ad essere ritagliato a losanghe o spicchi. Ma si possono trovare i costeddas tondi, a forma piena, oppure forati al centro, rotondi o ovali.
Ieri erano pani dei giorni di festa, oggi il turismo...
Còzzula
Pane a forma di ciambella, tipico del Logoduro.
Focaccia sarda
Assomiglia ad una pizza ben condita.
Ingredienti:
gr 250 di patate
gr 200 di farina
un dl di latte
gr 5 di lievito
2 cucchiai di olio
una cipolla bianca tritata
gr 300 di pomodori freschi, pelati, privati dell’acqua di vegetazione e dei semi
pecorino fresco grattugiato
sale
Lessate le patate in acqua bollente salata, sgocciolatele e, dopo averle pelate, passatele nello schiacciapatate; poi, sul tagliere (spianatoia) o in una teglia grande intridete con cura la polpa di patate, la farina e il latte; unite il lievito (precedentemente sciolto in pochissima acqua tiepida), salate appena, mescolate bene e lasciate che l’impasto riposi, coperto da un telo, lievitando per almeno un paio di ore.
Intanto, in un tegame a parte, soffriggete nell’olio il trito di cipolla, aggiungete i pezzetti di pomodoro e lasciate sobbollire lentamente, a fiamma docile.
Riprendete la pasta e dividetela in tante pagnottine; queste stendetele con un matterello tanto da formare pizze circolari alte circa un cm. Sopra cospargetevi il sugo di pomodoro, spolverizzatevi abbondante pecorino appena grattugiato e infornate.
Servite la focaccia calda e soffice, ma è gustosa anche tiepida o fredda.
Fresa (o fresa isperrada o pillonca)
Sono schiacciate più o meno lievitate, impastate con la farina di orzo, rotonde e molto sottili, cotte nel forno a legna. Ricordano la carta da musica.
Lottura
Pane della Planargia, a forma di ciambella, più o meno decorato.
Mazzamurru
Ingredienti per 6 persone:
kg 1 di pane di semola di grano duro, raffermo
mezzo litro di latte
3 mestoli di salsa di pomodoro
formaggio pecorino fresco, da grattugiare
Dopo aver tagliato a fette il pane, bagnatelo nel latte, poi disponetelo nella teglia da forno a strati, intervallati con salsa di pomodoro e pecorino grattugiato.
Mettete in forno per pochi minuti, quindi servitelo caldo.
Moddizzosu
In provincia di Nuoro, a Dorgali, Oliena, Mamoiada e Fonni questi pani, tipici e rinomati per la morbidezza, li confezionano sempre con farina di grano duro ma, in più, vi aggiungono fettine di patate o ricotta freschissima.
A forma tonda o ovale, soffice sia la crosta
che la mollica, i moddizzosu si manipolano facilmente, tanto da risultare ideali per raccogliere la più occasionale farcia, fatta usualmente di formaggio fresco o di salumi.
Pane campidanese
Così scrive Marlena Camas nel suo volume La cucina dei sardi:
Il grano dovunque usato in Sardegna per la confezione casalinga del pane era grano duro. Già il giorno appresso a quello in cui si finiva di preparare il pane si lavava il grano che si sarebbe utilizzato per preparare la provvista successiva. Il grano lavato si lasciava asciugare, preferibilmente all’aperto, sparso su coperte di lana oppure dentro canistéddus. Dopo circa due giorni si purgava il grano dalle impurità non eliminate dal lavaggio, cioè si eseguiva la cerridura e la prugadura con due diversi tipi di cibiru. Il grano era quindi pronto per essere macinato con l’antica mola – asinaria – sarda [...].
Una volta macinato il grano, se ne ricavavano varie specie di farina usando stacci dl diverse dimensioni: due specie di fior di farina, detto scetti, due specie di crusca, detto poddini, due specie di semola, detta simbula. Una delle due specie era più pregiata e più fine dell’altra per tutte e tre le qualità di farina. Con lo scetti si confezionava il pane più comune e perciò di consumo giornaliero, detto civraxu. Con la semola più fine si preparavano i pani più pregiati e di forma più elaborata. Attraverso varie fasi di stacciatura si poteva ottenere anche una terza qualità di semola, detta simula iscerada, con cui si confezionavano i pani più pregiati in occasione di ricorrenze straordinarie, come le nozze. Con la crusca più fine si confezionava un civraxu scuro considerato di scarso valore, .mentre con la crusca più grossa, presso le famiglie più abbienti soprattutto, si confezionava un tipo di pane per i cani.
La sera prima del giorno stabilito per fare il pane, si eseguiva l’operazione arremissi su froméntu, cioè si squagliava un po’ di pasta fermentata (conservata dall’ultima volta per servire da lievito per la volta successiva) badando a che la quantità fosse ben proporzionata; si preparava anche la quantità prevista di sale e di farine di vario tipo e si pulivano gli strumenti che sarebbero stati adoperati; infine si metteva a scaldare una grande quantità d’acqua [...].
Ci si alzava molto presto per proseguire il lavoro. Di solito ciò non avveniva più tardi delle due del mattino.
La prima operazione era quella di cummossai, cioè di impastare la farina con acqua salata e calda. Si impastava prima di tutto la semola più fine per preparare i pani più pregiati, cioè i cosiddetti coccois e maritsosus, quindi tutte le altre qualità di farine per preparare i diversi tipi. Dopo la cummossadura, la pasta si amalgamava col lievito, ormai ridotto a una emulsione, adatta all’impasto. A questo punto si iniziava a ciuexi, cioè l’operazione più faticosa, intorno al grande tavolo (che in ogni cucina occupava il posto più riparato e veniva tenuto con la massima cura: era detto sa mésa po fai su pani, «il tavolo per fare il pane»), ciascuno col suo pezzo di pasta, e lo stiracchiavano e lo rigiravano, bagnandolo ogni tanto con acqua calda non salata. Questo trattamento era riservato però solo alla pasta di semola per i coccois, che venivano tanto più buoni e teneri quanto più la pasta veniva rimenata.
Intanto era trascorsa un’oretta e si faceva qualche minuto di pausa, durante la quale si beveva il caffè
, a questo punto tradizionalmente d’obbligo. Questa era la prima parte dell’operazione di ciuexi.
Quando si riprendeva l’opera, venivano assegnati a persone diverse tre compiti principali: parte iniziava la seconda ciuexidura, il lavoro di prima ripetuto per il pane pregiato, parte iniziava la spongiadura, cioè manipolava coi pugni chiusi, premendola e impastandola, la pasta contenuta dentro recipienti di terracotta detti sciféddas.
Una persona si incaricava di scaldare il forno, con legna o con paglia di fave. Fino a una trentina d’anni fa i più poveri usavano raccogliere sterco di bue o di altri animali e ne facevano provvista per bruciarlo per scaldare il forno.
Quando si riteneva che la pasta di semola era stata lavorata abbastanza, si tagliava, e a ogni pezzo si dava una di quelle più o meno svariate forme (a seconda della ricorrenza e della bravura delle donne, che sole si dedicavano a questo lavoro di fino) che fanno di certi coccois dei monumenti di pazienza e di abilità.
Quelli che stavano spongendu la pasta per il civraxu erano intanto giunti al termine della loro opera; si versava la pasta sul tavolo, la si cueziada un pochetto anche essa e quindi se ne formavano delle grandi pagnotte piatte e tondeggianti, dette civraxus.
Si lasciava lievitare il tutto per circa un’ora. Il forno era nel frattempo giunto al punto giusto di calore. [...]
Innanzitutto si introducevano nel forno caldo i pani meno pregiati, collocandoli nelle parti più esterne; per ultimi, al centro, venivano collocati i pani più pregiati ed elaborati. La cottura durava circa un’ora. Un modo per rendere lucenti i coccois era quello di bagnarli, quando erano quasi cotti, con acqua bollente e quindi reintrodurli nel forno per alcuni minuti.
Si panificava ogni dieci giorni circa.
Pane carasau
Originario del Nuorese, questo pane rimane il simbolo dei paesi montani, dove la pastorizia portava i suoi addetti lontano da casa anche per mesi. E le donne s’adoperavano per giorni a preparare un pane secco, asciutto, adatto a conservarsi a lungo.
La descrizione dettagliata di questo pane la trovate alla voce Carta da musica.
Pane cotto (pani cottu)
Ingredienti per 6 persone:
kg 1 di pane di semola di grano duro, raffermo
3 mestoli di salsa di pomodoro
formaggio pecorino fresco
Tagliate il pane a fette, quindi tuffatelo nell’acqua bollente. Appena si è ben ammorbidito, ritiratelo con la schiumarola e disponetelo nel piatto da portata, alternando strati di pane alla salsa di pomodoro e al formaggio pecorino grattugiato. Rifinite il piatto con un’abbondante nevicata di formaggio.
Pane di Ozieri
Ozieri va famosa per il suo pane, simile alla spianata.
Ingredienti:
kg 3 di farina
g 15 di lievito
g 15 di sale
acqua
Sciogliete il lievito in un goccio di acqua tiepida, poi impastatelo con la farina (nella proporzione di g 600 di pasta lievitata per kg 3 di farina); che converrà coprire con un panno e lasciar lievitare per diverse ore. Dopo, unitelo a tutta la farina, lavorando con la poca acqua necessaria, fino ad ottenere un impasto liscio, morbido ma consistente; formate tanti panetti grossi circa come un pugno, spianateli con il matterello, tanto da formare sfoglie tonde e sottili, quindi deponetele l’una sopra all’altra, separate da teli o da panni, prima di cuocerle.
Nel forno ben caldo (meglio se a legna) fate dorare le sfoglie e gustatele sia calde che fredde.
Pane ’e gerdas (pane di ciccioli)
Mentre si prepara il pane, se ne tiene da parte una piccola quantità; che poi verrà impastata unteriormente per arricchirla di ciccioli.
Ingredienti:
pasta da moddizzosu (pane di semola di grano duro, simile ad una focaccia)
ciccioli
Lavorate con cura la pasta tanto da inglobarvi uniformemente i ciccioli (piccoli ritagli rimasti dalla produzione dello strutto). Dividete l’impasto in tante piccole focacce, schiacciatele con il palmo della mano, infarinatele e mettetele in forno.
Pan ’e scetti
Pane preparato con la miglior farina, il fiore.
Pan e simbula
Pane prodotto di sola semola.
Pane frattau
Un piatto semplicissimo, ormai sinonimo della cucina sarda.
Ingredienti per 6 persone:
6 sfoglie di pane carasau
3 mestolini di sugo di pomodoro
6 cucchiai di formaggio fresco grattugiato
6 uova
sale
In una pentola grande fate bollire dell’acqua; prendete le singole sfoglie di pane carasau e immergetele velocemente nell’acqua, sgocciolatele poi tagliatele a spicchi e questi disponeteli nel piatto da portata o nel piatto singolo.
Condite con il sugo di pomodoro, un pizzico di sale e spolverizzatevi sopra il formaggio appena grattugiato. Per ogni commensale preparate un uovo in camicia (tuffando un uovo per volta in acqua bollente, salata; e con il mestolo forato aiutatevi a raccogliere e sovrapporre l’albume intorno all’uovo; dopo tre minuti di cottura è pronto, da sgocciolare e servire) e disponetelo al centro del piatto.
Varianti
Per bagnare le sfoglie di pane carasau potete usare brodo di carne, invece dell’acqua; certamente conferirà maggior sapore al piatto.
Per insaporire il sugo di pomodoro potete soffriggere nell’olio una cipolla tritata, versarvi il pomodoro, salare, pepare e lasciar sobbollire per circa un paio di ore. Mezz’ora prima di terminarne la cottura aggiungete 3 o 4 foglioline di basilico; che toglierete, al momento di usarlo.
Pane guttiau (sgocciolato)
Ingredienti per 6 persone:
6 sfoglie di pane carasau
olio extra vergine di oliva
sale
Cospargete con l’olio d’oliva le pagine
di pane carasau, salatele e mettetele nel forno, già caldo, lasciandole qualche minuto a dorare.
Pistokku
Nell’Ogliastra, era il pane quotidiano. L’impasto era formato dal fiore della farina e dalla semola, appena lievitato. Lo si confezionava in pezzi rettangolari, poi lo si metteva in forno. Appena dorato si toglieva, si tagliava a metà, in senso orizzontale, e lo si rimetteva al caldo a tostare.
I più abbienti lo preparavano con le farine migliori; mentre nelle case dei pastori o dei contadini in genere s’impastava il cruschello o la farina di orzo, ottenendo un pane di lunga conservazione, adatto ai lunghi lavori fuori casa, come la transumanza degli armenti.
A Bosa chiamano pistoccu una focaccia, che viene ricotta nel forno a legna, per conservarla integra e a lungo.
Pizzos
Pane bianco, a forma allungata, tipico della Planargia.
Spianata (ispianada o spianadas)
È un pane impastato con farina di grano duro, formato da due sfoglie rotonde, molto sottili; decorato, il più delle volte, con incisioni fatte con la rotella dentata (a stella, a cuore, ecc.), oppure con appositi timbri di legno o di ferro.
Solitamente viene confezionato in occasioni di feste famigliari o patronali, da offrire come buon augurio.
Si gusta come pane, ma soprattutto per merende, farcito con salumi vari.
Stripiddi (o pani d’orzo)
Ingredienti:
kg 2 di semola di orzo
acqua
sale
Mettete a scaldare l’acqua salata e quando è ben calda, ma non bollente, usatela per intridere la semola d’orzo. Lavorate adagio, con movimenti continui, fino ad ottenere un impasto liscio, omogeneo e soffice.
Confezionate tante piccole focaccette, schiacciatele e ponetele in forno (ideale se a legna), precedentemente scaldato, a calore vivace, per pochi minuti.
Gli stripiddi sono deliziosi sia caldi, appena sfornati, che freddi.
Variante
Una piccola quantità di lievito, sciolto in acqua tiepida; con il lievito l’impasto necessita di riposare (lievitare) per almeno un paio di ore, riparato da un panno.
Tunda o tundus
Pane ordinario di farina di grano, a forma rotonda; con crosta fine, discretamente croccante e mollica soffice.
Da non confondersi con l’omonima schiacciata nuorese, il più delle volte decorata con simbologie pastorali o stemmi di famiglia impressi con stampi di legno.
Zikki
Schiacciata, tipica di Bonorva.
Salumi
Salumi e insaccati
Capocollo
Lo dice la parola stessa, questo insaccato riguarda principalmente i muscoli della testa del maiale, che dopo la necessaria salatura vengono stagionati.
Producono un capocollo perfetto, secondo tradizione, i maiali allevati all’antica, al pascolo libero, nelle zone impervie delle montagne.
Lassù, la carne si fa squisita, tutelata dall’ambiente climatico ideale per procurare una perfetta stagionatura, tale da conferire dolcezza e profumo etereo, dolce e delicato, con la giusta fusione di aromi e profumi.
Coppa d’inverno (soppressata, testa in cassetta)
La coppa si produce bollendo in abbondante acqua le teste dei maiali, così, intere; s’intende, dopo averle pulite con cura e fiammeggiate, per togliere la peluria. Dopo alcune ore di bollore, la carne e la cotica si fanno morbide, facilmente staccabili dalle ossa, si tolgono dal bollore e si lasciano scolare (e raffreddare); con tanta pazienza si scarniscono, poi i pezzi più grandi si tagliano grossolanamente con un coltello; carni e cotiche si condiscono con sale, pepe macinato, cannella grattugiata e spezie garofanate; a piacere si possono aggiungere anche pinoli, pistacchio e noci. Ora, si unisce gelatina alimentare (in polvere o in foglietti, precedentemente sciolti in acqua tiepida), s’impasta bene tutta la massa e, ancora tiepida, s’insacca nelle budella grosse, legando i capi ogni 20-30 cm. Dopo averla confezionata, la coppa rimane a riposare almeno l’intera notte; il giorno dopo passa in un locale fresco e buio (o nella cella frigo), per venir consumata a fette già dopo 2 o 3 giorni.
Guanciale
Ovvero, la parte che ricopre le guance e il collo del maiale, debitamente rifilata (al punto che se ne ottiene un taglio a forma triangolare), salata, pepata e messa sotto pressatura esattamente come i prosciutti.
Dopo alcuni giorni di aromatizzazione, il guanciale si appende per asciugarlo e stagionarlo (all’aria o a leggera affumicatura); infine, trascorsi un paio di mesi, lo si consuma maturo e perfetto, sodo e profumato.
Il guanciale viene utilizzato sempre più spesso nelle preparazioni di antipasti misti e, ridotto in fettine sottili o minuscoli cubetti, per cucinare particolari condimenti, lardellare (insaporire) spiedi di cacciagione, arricchire verdure lessate (ideale con le fave).
Mustela
Con questa dizione s’intende la carne del filetto del maiale, macinata o tagliuzzata come quella per confezionare la salsiccia, conciata con sale e pepe; a volte aromatizzata con l’aglio; da lasciar riposare e macerare nel vino bianco o nell’aceto per circa una settimana.
Essendo preparata con carni molto magre e tenere, risulta un salume squisito, profumato e gustosissimo, di colore variante tra il rosa e il rosso vivace.
La mustela consumata ancora fresca si presta per esser fritta in padella o arrostita sulle braci.
Se, invece, siete riusciti a procurarvene della stagionata, allora consigliamo di affettarla e gustarla come antipasto regale, caso mai accompagnata da vino capace di reggere al rango: ad esempio, Malvasia o Vernaccia, nel tipo secco.
Ortau
Piatto antico, della cucina popolana. È un impasto di sangue di maiale, con sugna (grasso solido adiposo) e interiora varie; il tutto aromatizzato, insaccato, bollito e servito caldo, appena arrostito.
Ingredienti per 6 persone:
kg 1 di sangue di maiale
kg 1 di interiora (fegato, cuore, polmoni, lingua, milza)
g 350 di sugna di maiale
3 spicchi di aglio tritato
un pugno di prezzemolo tritato
sale e pepe di mulinello
budelle di maiale, quelle dell’intestino crasso
In un ampio catino mescolate insieme il sangue con la sugna tritata finemente; a cui aggiungete, sempre tritate, le interiora, profumate con aglio e prezzemolo, condite con sale e pepe appena macinato. Con questo composto riempite le budella (intestino crasso) poco più della metà, cucite o legate i due capi, quindi mettetele a bollire in abbondante acqua, reggendo i due capi, per poter agitare le budella insaccate e mescolare al meglio l’impasto contenuto.
Lasciate cuocere per altri 10 minuti, poi toglietele dal bollore, asciugatele e mettetele ad arrostire vicino al fuoco. Vanno servite calde.
Pancetta
Dalla parte adiposa del ventre del maiale si ricava la pancetta; la quale, per la conservazione, abbisogna di abbondante salatura, quindi di svariati metodi di aromatizzazione, a seconda delle usanze domestiche o locali, quali il pepe macinato, i semi di finocchio, la noce moscata o la cannella, infine l’aglio.
Dopo alcune settimane di riposo, sempre secondo tradizione, c’è chi usa pressare la pancetta, poi lasciarla essiccare o affumicare.
In certi casi si profuma con un trito di erbe aromatiche, per terminarne la confezione arrotolandola strettamente e legandola con lo spago.
Si consuma, prevalentemente, in piatti misti di affettato oppure, soffritta e tagliata a dadini, per insaporire sughi, minestroni di verdure, cereali o legumi.
Prosciutto
Dalle cosce anteriori e posteriori del maiale si ottiene il prosciutto. Qui, nell’Isola, la sua lavorazione è ancora, in prevalenza, di tipo domestico, in quanto scarseggia quella industriale o artigianale.
Le carni, ricavate soprattutto da maiali selvatici, abituati al libero pascolo, dalle carni magrissime, intensamente colorate, con lo spiccato sapore di selvatico, tanto simile al più nobile prosciutto di cinghiale, si lavorano a crudo, salate e stagionate lungamente, fino ad un anno. Appena affumicate, durante l’asciugatura nei pressi del camino.
Da sempre, nelle case di campagna si lavora la coscia del maiale secondo tradizione, con l’uso di semplici ingredienti, come il sale, l’aceto, l’aglio e il pepe nero.
Se volete provare a stagionare un prosciutto, procuratevi una coscia fresca, rifilatela con cura attorno all’osso centrale, quindi sdraiatela su un piano inclinato, ricopritela di sale fine, ponetevi sopra dei pesi consistenti e lasciate in salagione per diverse settimane, rigirando la coscia 2 o 3 volte la settimana, fino a che non finirà di far acqua.
Secondo l’uso antico, dopo aver tolto i pesi, la coscia si immerge nell’aceto di vino per un paio di giorni, forse qualcosa in più. Una volta sgocciolata, si frizionano le superfici con gli spicchi di aglio e poi si avvolgono, le sole parti nude (cioè senza cotica), di abbondante pepe nero appena macinato; quindi il prosciutto va appeso per la stagionatura, badando di scegliere un locale fresco, buio e ventilato.
Ieri, quello prescelto era la cucina, dove fra i travi del soffitto (del tetto) si rincorrevano continui refoli e dal camino fuoriusciva poco e adagio, ma persistente, un fumo leggero, aromatizzato dai legni bruciati: così, il profumo della carne assorbiva una leggera affumicatura, caratteristica dell’antico prosciutto casalingo.
Quello più tipico è di color carico, molto profumato; le parti grasse, bianchissime, sono pure eccellenti, con impercettibili venature rosa.
Le zone rinomate per la produzione del prosciotto si riducono soprattutto nell’Ogliastra e nella Barbagia; naturale, dato l’ideale incontro dei venti montani che scendono dal Gennargentu.