L'ora segnata dal destino. Ricordi di un "volontario" universitario
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L'ora segnata dal destino. Ricordi di un "volontario" universitario - Gaspare Grancagnolo
- I -
La cartolina precetto
Il 17/02/I941 venne pubblicato sui giornali l’annuncio della chiamata alle armi degli studenti, arruolati con la classe del I921, che beneficiavano del ritardo militare per ragioni di studio.
Si precisava che gli interessati avrebbero ricevuto la cartolina precetto
con la quale dovevano presentarsi, trascorsi dieci giorni dal predetto annuncio, al Distretto Militare in essa indicato.
Tale provvedimento governativo era stato preso in accoglimento della richiesta degli studenti stessi, che, in diverse manifestazioni autorizzate, svoltesi nei mesi precedenti nelle sedi universitarie e nelle piazze delle principali città italiane, avevano invocato a gran voce
di essere inviati al fronte
, in prima linea, per avere l'onore
di combattere contro gli inglesi, rinunciando volontariamente al beneficio del ritardo militare.
Frequentavo allora il secondo anno della Facoltà di Giurisprudenza presso l'Università di Catania.
Nel mese di gennaio di quell'anno, dietro invito del G.U.F., pervenutomi a mezzo posta, dovetti partecipare ad una adunanza effettuatasi nell’aula magna dell'Università, concessaci per l’occasione dal Rettore.
L'aula era piena di studenti, tutti venuti come me dietro invito, ed era addobbata di bandiere e di gagliardetti.
Dopo una serie di discorsi patriottici, tenuti da alcuni attivisti, fummo sollecitati, alla fine, a dare la nostra spontanea adesione
per essere elencati tra coloro che chiedevano di essere inviati il più presto possibile al fronte per difendere la patria in armi.
Dei partecipanti alla riunione, parecchie centinaia, solo uno si fece avanti…
Appresi la notizia della chiamata alle armi quella stessa mattina del 17 febbraio, da alcuni miei colleghi, che incontrai all’ingresso dell’Università, dove mi recavo tutti i giorni, per frequentare i corsi annuali della mia Facoltà.
Poiché la notizia mi interessava personalmente (ero stato arruolato con la mia classe del 1921 ed usufruivo anch’io del ritardo militare), comprai il giornale e lessi l’articolo con particolare attenzione.
Si parlava di un corso di tre mesi, superato il quale, avremmo avuto la nomina a sergente. Con tale grado saremmo stati successivamente inviati in zona d’operazione.
Inoltre, si precisava che eravamo considerati volontari
a tutti gli effetti di legge.
Nei dieci giorni successivi alla pubblicazione di tale articolo, si fecero molte ed interminabili discussioni, sia in casa tra i familiari che fuori tra i colleghi.
Si comprava il giornale tutti i giorni, nel caso portasse qualche notizia in merito ai Corsi A.U.C., ai quali partecipavano, fino ad allora e sempre su richiesta, gli studenti diplomati o laureati e dai quali si usciva con la nomina a sottotenente di complemento.
Nel frattempo mia madre, che era rimasta alquanto turbata da quell’annuncio, mi preparava il corredo
, cercando di mettervi tutto quello che, secondo lei, credeva sarebbe stato necessario per la mia permanenza sotto le armi.
Il 25/02/’41, di pomeriggio, mi venne recapitata la cartolina precetto. Ero invitato a presentarmi il 27 mattina al Distretto Militare di Catania, per la visita di controllo.
Il giorno della visita, accompagnato da mio padre, mi presentai alle ore sette al Distretto Militare.
Qui, assieme a molti altri, mi passarono una sommaria visita medica e mi assegnarono al 65° Rgt. Ftr. Autotrasportato, di stanza a Piacenza.
Mi consegnarono, inoltre, uno zaino, un gavettino, una gavetta, una borsa tattica, una borraccia, una coperta da campo, più due scatolette di carne e quattro gallette per il viaggio.
Alla fine, unitamente a coloro che erano domiciliati a Catania, fui rimandato a casa con l’ordine di ritornare la mattina successiva alle ore sette.
Il giorno dopo, puntualmente, mi recai al Distretto sempre in compagnia di mio padre, con la roba militare ed una valigia piena del corredo preparato da mia madre.
L’addetto all’ufficio viaggi mi consegnò un foglio di viaggio collettivo per quattro persone, col preciso incarico, in qualità di capo drappello, di condurre l’intero gruppo a destinazione, senza ritardi ingiustificati.
Alle ore tredici circa, assieme ad altri numerosi drappelli che erano stati formati, fummo inquadrati e condotti a piedi, sotto gli ordini di alcuni ufficiali, alla stazione ferroviaria centrale, passando per via Etnea, tra gli applausi di una folla schierata lungo i marciapiedi, che ci dava il suo saluto augurale.
Mio padre mi seguiva a poca distanza, su uno dei marciapiedi. Giunti alla stazione prendemmo d’assalto la tradotta, che era posta sul primo binario.
Una gran folla di parenti e di amici si riversò, subito dopo, dentro la stazione medesima. Mi rividi allora con mio padre e, assieme a lui, rimasi in attesa della partenza.
Nel frattempo, alcune gufiste
e giovani italiane
in divisa ci distribuirono delle arance e dei limoni, augurandoci buon viaggio. Mi sentivo stordito ed emozionato.
Dopo circa un’ora di attesa e di confusione, ci ordinarono di salire sulla tradotta.
Il treno si mise lentamente in moto, avviandosi, sempre più celermente, alla volta di Messina.
Ultimi saluti, col fazzoletto, dal finestrino, e molte lacrime di parenti ed amici.
A Messina arrivammo dopo circa tre ore. Scesi dal treno, ci avviammo di corsa, con tutta la nostra roba, verso la stazione marittima per imbarcarci sulla nave - traghetto.
Là, salutati da una marea di gente, si unirono a noi gli studenti messinesi, chiamati anch’essi sotto le armi. La traversata dello stretto fu la mia prima esperienza di viaggio per mare, anche se breve, ma molto suggestiva. La giornata era stata piena di sole, con una temperatura quasi primaverile, ed il mare era calmo. Rimasi in coperta per tutta la traversata.
A Villa S. Giovanni, scesi dal traghetto, riprendemmo il treno.
Si passò la Calabria e la Campania di notte. Nel mio scompartimento, e in molti altri della lunga tradotta, non si dormì, fin verso le due.
Si cantava spesso e si discuteva con animazione. Eravamo tutti eccitati dalle emozioni di quel giorno. Solo verso le due ci fu un po’ di silenzio ed alcuni, semi-sdraiati sui sedili di legno, vinti dal sonno, finirono con l’addormentarsi. Nell’intento di riposarmi meglio, mi distesi sulla plancia del posto del bagaglio, sopra quello a sedere, anch’essa di legno.
Altri si distesero a terra. Mi coprii come meglio potei, con la coperta da campo, ma, sia per il continuo rumore del treno sulle rotaie che per la durezza del posto, non riuscii a chiudere occhio per tutto il resto della notte.
In mattinata giungemmo a Roma, dove la tradotta si fermò per poco tempo e ripartì, a tutta velocità, per Firenze - Bologna.
Vedevo scorrere, per la prima volta sotto i miei occhi, la campagna romana e quella toscana. Mi sembrava un altro mondo. Stavo ore ed ore attaccato al finestrino, rispondendo di tanto in tanto al saluto dei contadini. A Bologna ci fu una sosta di circa tre ore, per smistare quelli che proseguivano per la linea di Venezia.
Si ripartì alle ore ventidue e si arrivò a Piacenza all’una di notte. Durante queste ore, sebbene fossi molto stanco, rimasi sveglio per non correre il rischio di non accorgermi dell’arrivo del treno alla stazione di Piacenza, in quanto avevo la responsabilità, come ho detto, di capo drappello.
- II -
Pagliericci
Appena scesi dal treno, fummo avvicinati da due ufficiali, che ci aspettavano per condurci al Deposito del 65° Rgt. Ftr.
Costoro ci fecero riunire in un posto, assieme ad altri, che erano stati assegnati anch’ essi al 65°.
Eravamo una trentina provenienti dal meridione, in gran parte siciliani.
Attraversammo silenziosi la città, illuminata debolmente da piccole lampade azzurre, che sostituivano allora, a causa dell’oscuramento, la normale illuminazione rossa.
Dopo circa mezz’ora, giungemmo alla caserma De Sonnaz
, sede del Comando.
L’ufficiale di picchetto, al quale fummo dati in consegna, dopo aver preso i nostri fogli di viaggio e aver segnato il nostro arrivo in un registro, ci avvertì che, non avendo ricevuto disposizioni in merito, dovevamo arrangiarci
come meglio avremmo potuto, per il resto della notte.
Eravamo stanchi per il lungo viaggio e per le due notti insonni e insistemmo, perciò, per avere almeno un po’ di paglia; ma non c’era nemmeno quella.
Il tenente, allora, dopo aver pensato un po’ sul modo di sistemarci, ci condusse attraverso il cortile, dinanzi ad una costruzione bassa a solo piano terra, che era servita, in tempo di pace, da sala rancio.
La porta d'accesso era però chiusa dal di dentro. Vi dormivano un gruppo di studenti arrivati lo stesso giorno, di pomeriggio. Bussammo ripetutamente con colpi sempre più forti ed insistenti. Qualcuno di noi provò anche con i piedi.
Finalmente, dopo circa dieci minuti di attesa, ci venne aperto. Entrammo in un gran salone rettangolare. Ai due lati vicino all’ingresso, a terra, su dei pagliericci, c'erano una ventina di studenti, quasi tutti svegli per il nostro insistente bussare.
Si erano sistemati alla meglio, buttandosi a dormire su quei pagliericci, vestiti, coprendosi con la sola coperta da campo che avevano ricevuto dal loro Distretto Militare. A quell' ora, in piena notte, erano tutti intirizziti dal gran freddo.
Subito fraternizzammo con i siciliani, parecchi dei quali, provenienti dalla provincia di Enna, erano imbacuccati con berretti, passamontagna, sciarpe e guanti di lana.
Dopo circa mezz’ora, sia per il sonno che per il freddo, cercammo di sistemarci alla meglio, per trascorrere il resto della notte.
Alcuni trovarono un posticino sul pagliericcio del compaesano; altri invece, come me, si sistemarono, raggomitolati sulla persona, con la coperta a terra e con la borsa tattica sotto la testa.
Ero stanchissimo. Quella era la seconda notte che non dormivo.
Cercai di prendere sonno, ma, non riuscendo ad addormentarmi e anch'io già tutto intirizzito dal gran freddo (nei giorni precedenti era caduta abbondante neve) e dall'umidità, mi alzai e cominciai ad andare su e giù e a fumare nervosamente in fondo alla camerata, dove non c’erano pagliericci. Altri seguirono il mio esempio e, senza volerlo, ci mettemmo a discutere animatamente, sebbene a bassa voce, sul modo in cui eravamo stati accolti, dopo un viaggio così lungo e disagevole. Conversai per più di un’ora con un certo Ruggeri della provincia di Messina, che al suo paese era un esponente del partito tra la gioventù studiosa.
In quel momento, però, non seppi controllarmi ed a poco a poco cominciai a criticare il Governo e tutto l’apparato burocratico - dittatoriale che gravava sul popolo italiano da circa vent’anni. Era allora molto rischioso criticare il Governo. Si veniva considerati sovversivi
e, come tali, arrestati subito, su semplice delazione di un milite
qualsiasi o anche di un balilla
.
Non fui denunciato da quel Ruggeri probabilmente perché, proprio in quel momento, la mia rabbia era anche la sua.
Alle quattro circa del mattino, stanchi di andare su e giù, ci sdraiammo di nuovo per terra e, pur con quel freddo e in quella scomoda posizione, riuscimmo a prendere sonno. Alle sette suonò la sveglia. Uscimmo fuori per lavarci, portando con noi, oltre all’asciugamano personale, il gavettino per il caffè.
C’era nebbia e il cielo stentava a schiarirsi. Il cortile era pieno di fango e di gelo.
Ci lavammo vestiti come eravamo, alla meglio, in un lavatoio che era posto in un angolo del cortile, con cinque rubinetti e, pertanto, dovemmo fare una lunga fila, in attesa ciascuno del proprio turno.
Sul tardi il sole sciolse quel gelo e il cortile fu quasi interamente coperto di fango.
Un ufficiale venne e dispose per la pulizia della camerata, che fu fatta molto accuratamente.
Poi, uno alla volta, andammo a prelevare il pagliericcio e la coperta e ci furono distribuite pure parecchie balle di paglia. Cercammo tutti di riempire i pagliericci con quanta più paglia era possibile e ci sistemammo a terra, nel posto assegnatoci, allineati ai due lati della camerata in modo da riempirla in gran parte. L’adunata per il rancio fu quasi del tutto disertata. Ciascuno di noi aveva ancora qualcosa da mangiare nella valigia.
La sera, sebbene fossimo vestiti con abiti borghesi, dietro nostra insistenza, ci lasciarono andare in libera uscita.
Andai un po’ in giro per la cittadina. Ebbi l’impressione di girare per le vie di un grosso paese siciliano più che di un capoluogo di provincia. Eccetto il centro storico, piazza Cavalli e adiacenze, il resto, in gran maggioranza, era costituito da vecchie strade non tutte lastricate, con case altrettanto vecchie e basse. Mi diressi verso il ponte sul Po, che attraversai interamente.
Molta gente si recava a passeggio lungo la strada, che si innestava, alla fine, col ponte. Le ragazze portavano quasi tutte capelli lunghi fino alle spalle ed erano in genere più alte delle siciliane e più spigliate. La città era piena di militari. Oltre al 65° Rgt. Ftr., c’era il 66° Rgt. Autieri, il cui Deposito era nella caserma Farnese.
Erano da poco andati via alcuni reparti di bersaglieri, che, si diceva, avevano fatto strage di cuori, per cui era oltremodo difficile farsi la ragazza.
Alle venti e trenta circa rientrai in caserma. Al silenzio
andai a dormire sul pagliericcio, che mi sembrò morbido come una piuma e, ben presto, col tepore delle coperte, mi addormentai.
Durante la notte, intorno all’una e mezza, arrivò un altro scaglione di studenti, provenienti anche loro dal meridione, i quali, com’era accaduto per noi, vennero fatti entrare nella nostra camerata.
Non avevano altro che la coperta da campo per coprirsi.
Il Comando non aveva disposto nulla per il loro arrivo. Dovevano, pertanto, arrangiarsi con noi e come noi nella notte precedente.
Sentii parlare in dialetto siciliano. Chiesi allora se tra loro vi fosse qualche catanese ed ecco che mi sentii, all’improvviso, chiamare per nome. Era un mio vecchio compagno di scuola, Pietro Spampinato, anche lui della classe del 1921.
Eravamo stati assieme sin dal primo ginnasio e ci eravamo entrambi iscritti alla Facoltà di Giurisprudenza. Grande fu quindi la nostra gioia nel ritrovarci, insperatamente, nel medesimo reggimento. Pietro era stanchissimo per il lungo viaggio e morto di sonno. Compenetrandomi del suo stato, divisi il mio posto con lui, sistemandoci alla meglio. Così trascorsi il resto della