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Sei storie di quaderni
Sei storie di quaderni
Sei storie di quaderni
E-book55 pagine48 minuti

Sei storie di quaderni

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Info su questo ebook

Il quadernone con Maradona in copertina vittima della “vendetta” di alcuni ragazzi juventini; l’esule politico che non può leggere libri, e può scrivere solo quaderni; il cartolaio che propone i suoi quaderni come fossero argenteria; il compagno di scuola che voleva scrivere, ma quaderni non ne aveva; il maestro di pensiero che riconcilia con la scrittura “quadernografica”; il grande critico cinematografico con un quaderno segreto. Sei racconti tra l’autobiografico, il fanta-biografico e il surreale, che compongono un affresco di una cinquantina di pagine sulla passione per la scrittura sul supporto da cui nasce ogni passione per scrivere, il quaderno. Ogni racconto è concluso da un disegno originale dell’autore.
LinguaItaliano
EditoreStreetLib
Data di uscita30 lug 2016
ISBN9788822826213
Sei storie di quaderni

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    Sei storie di quaderni - Gianluca Vivacqua

    Indice

    Dannato Maradona

    Il quaderno nero di Mereghetti

    Quaderni dal carcere

    Giovanni Papini

    Vonnegut

    Il cartolaio dotto

    DANNATO MARADONA

    In questa storia si narra di un bambino privo di passioni calcistiche che viene preso di mira da due compagni di scuola juventini, per via dei suoi quadernoni dove appare effigiato l’odiato Maradona. Il bambino vittima di questi soprusi si appassionerà in seguito al calcio, ma attraverso traiettorie che non hanno nulla a che fare col tifo.

    A lui il calcio, in fondo, non interessava. Ma agli altri sì.  E se portava in classe articoli di cartoleria che avessero qualche riferimento anche solo velato con la serie A, e magari con qualche squadra avversaria, erano guai.

    Era il 1987. La Juventus era appena passata dalle capaci mani di Trapattoni a quelle altrettanto collaudate di Marchesi, ma il periodo d’oro sembrava finito. Platini era all’ultimo anno in bianconero: avrebbe chiuso col botto la carriera alla corte dell’Avvocato?

    Appariva grigio l’orizzonte per gli juventini, non solo a Torino; le cricche degli amanti della zebra in tutta Italia si erano messe ad odiare colui che stava definitivamente oscurando l’astro di Roi Michel. Era un argentino, giocava per il Napoli già da qualche anno, era fresco di trionfo al Mundial messicano e il suo nome faceva venire a molti, molti avversari s’intende, la voglia improvvisa di scoprirsi grecisti: volentieri, infatti, ne riconducevano la radice a quella parola greca che significa finocchio, con tutte le possibili allusioni a margine. In realtà, però, egli era decisamente un maschione e per i vesuviani addirittura un dio; loro erano certi, sin dal 1984, che avrebbe finalmente dato al Napoli quelle soddisfazioni che neppure Achille Lauro e la sua megalomania erano riusciti a dar loro. E questa certezza, all’indomani della vittoria al mondiale, cresceva: per loro il fatto che si chiamasse Maradona significava soltanto che era il Fidippide che, prima o poi, li avrebbe portati a tagliare il traguardo dello scudetto alla fine di un’esaltante corsa.

    Ma tutte queste cose a Luigi, che a quel tempo portava il fiocchetto rosso, non importavano assolutamente. La mamma gli comprava i quaderni e i quadernoni con l’immagine di Maradona e la scritta Numero 10 senza fare particolarmente caso al soggetto: se anche ce ne fossero stati con Platini, glieli avrebbe ugualmente comprati.

    Ma non ce n’erano, di Platini. Non ce ne erano stati mai, neppure negli anni dall’82 all’86, quelli dei grandi trionfi bianconeri trapattoniani, che avevano visto proprio il transalpino tra i protagonisti.

    Invece per Maradona, tutto ad un tratto, sembrava essere scoppiata una sorta di mania collettiva: di sicuro l‘argentino poteva giovarsi del fatto di giocare in una piazza calorosa come Napoli, popolata di un’umanità per natura espansiva ed entusiasta. Torino, invece, con la sua aristocratica freddezza, sembrava sempre gioire con distacco delle sue vittorie, forse anche perché erano la routine. Eppure, se la Juventus era la più amata in tutto lo stivale, lo si doveva anche al fatto che, a partire dagli anni ’70, aveva imbarcato nel suo undici tanti giocatori di origine meridionale, un po’ come la Fiat stava facendo nei suoi stabilimenti. E dunque al fatto che, attorno alla Juventus, nascevano tante juventinità parallele, ad uso e consumo delle varie latitudini nazionali. Squadra di massa, una sorta di Dc del pallone, come poche altre (Milan, Inter). Il Napoli, invece, squadra identitaria, con un seguito concentrato nella sua area geografica ed antropologica, poteva ancora raccogliere il suo tifo intorno ad un’idea di comunità. E che comunità.

    Ma non mancavano le exclaves. Specie in quel periodo. Fanatiche, certo, però con gioia, con allegria, senza prepotenza. Molte juventinità che gravitavano intorno alla Juve, invece, erano fanatiche in senso deleterio. Proprio come capitò di sperimentare in prima persona al povero Luigi, scambiato, con i suoi quaderni, per il rappresentante di un’exclave partenopea.

    Le 9.00. Un’ora prima della ricreazione, era arrivato il momento di correggere gli esercizi di italiano. Luigi,

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