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Il potere a ogni costo
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E-book181 pagine2 ore

Il potere a ogni costo

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Varia - saggio (159 pagine) - Le sorprendenti analogie nella scalata al vertice fra Nerone e Donald Trump


Gli amori, la personalità, la famiglia, la scalata al potere: sono i quattro “terreni di confronto” tra Lucio Domizio Enobarbo Nerone, quinto imperatore romano, e Donald Trump, magnate dell’edilizia e quarantacinquesimo presidente Usa. Attraverso una ricerca che spazia dai classici latini agli articoli di rotocalco il saggio cerca di mettere in luce i sorprendenti punti in comune che legano le due figure.


Gianluca Vivacqua, giornalista pubblicista, storico e poligrafo, nel campo della biografia storica prima de Il potere a ogni costo aveva già pubblicato, sempre con Delos Digital, il saggio I grandi protagonisti della storia (2018). Questo suo nuovo lavoro si può definire una sperimentazione sul terreno della biografia comparativa; una variazione sullo schema plutarcheo.

LinguaItaliano
Data di uscita19 apr 2022
ISBN9788825420067
Il potere a ogni costo

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    Anteprima del libro

    Il potere a ogni costo - Gianluca Vivacqua

    Capitolo I

    L’ascesa – Eliminare i tanti britannico (e un’Agrippina)

    La prima analogia che si può osservare mettendo a confronto Donald Trump e Lucio Domizio Enobarbo, meglio noto come Nerone, riguarda un tratto somatico, meglio ancora pogono-tricologico: c’è qualcosa di rosso a incorniciare il viso di entrambi, la barbetta nel caso di Nerone (Enobarbo significa proprio con la barba ramata), i capelli in quello di Trump (almeno del Trump giovane affarista rampante).

    La prima differenza che è possibile invece cogliere riguarda la scalata politica: se Nerone fu aiutato in modo determinante dalla madre Agrippina, Trump ebbe più ostacoli che aiuti (al netto naturalmente delle dietrologie che lo vorrebbero protetto dai russi). Nel 2016, abbandonata la tentazione di presentarsi da indipendente, praticamente Trump si candidò tra i repubblicani per sgominare il suo stesso partito prima ancora che quello democratico. Eppure secondo alcuni era un predestinato al successo finale: qualche mese prima dell’inizio della vittoriosa campagna presidenziale (più precisamente in luglio), cominciò infatti a circolare in rete (e non è escluso che fosse stata fabbricata ad arte) una didascalia di una celebre foto dell’11 marzo 1987 che ritraeva l’allora presidente Reagan mentre stringeva la mano a Trump, in visita alla Casa Bianca con la moglie di allora.

    La didascalia era una frase che sarebbe stata pronunciata proprio da Reagan dopo l’incontro con il bilionario: una frase in cui egli sfoderava una virtù profetica degna di padre Pio, capace, com’è noto, di vedere in Karol Wojtyla un futuro papa solo guardandolo in faccia: quasi allo stesso modo a Reagan sarebbe bastata una semplice stretta di mano per capire che chi gli stava davanti un domani avrebbe abitato al n. 1600 di Pennsylvania Avenue.¹ Nerone, invece, era tutt’altro che un predestinato, ma la sua strada fu spianata spietatamente dall’ambizione materna. Predestinata, semmai, era proprio lei, Agrippina, però a morire in modo violento: sapeva, infatti, per aver consultato un’astrologa, che il prezzo da pagare per assicurare il potere assoluto al figlio sarebbe stato la morte per mano sua.²

    In fondo, però, Nerone aveva solo un ostacolo tra lui e il potere (al netto della stessa presenza materna): e cioè il fratellastro Britannico, figlio dell’imperatore Claudio, secondo marito della madre. Molti di più, al contrario, erano gli impedimenti sulla strada di Trump: gli altri 16 candidati delle primarie repubblicane.

    Se è vero che Trump, a differenza di quanto il giovane Nerone fece con Britannico,³ non avvelenò o non fece avvelenare nessuno dei suoi avversari, è certo però che non si fece scrupoli sin da subito ad avvelenare prepotentemente l’atmosfera della competizione elettorale. Sia all’interno del suo stesso partito – per fare il vuoto intorno a sé – che nella sfida decisiva – il magnum discrimen – con la candidata democratica, Hillary Clinton. Forse però parlare di veleno a proposito di Trump è imperfetto, improprio, e in un certo senso anche scorretto: non ci troviamo, infatti, di fronte a un maestro di intrighi o a un gran tessitore di trame bizantine (nell’animo di Nerone invece la componente intrigante ereditata dalla madre è parte fondamentale): Trump è un uomo feroce come un toro e cattivo come un serpente, però è schietto, diretto, per natura più esplosivo, collerico e umorale che portato alla macchinazione cerebrale, silente e insidiosa.

    Ecco perché il veleno trumpiano non è vero e proprio veleno ma è più Trumpicum acetum: nell’abbattere un avversario, infatti, Trump assai spesso non disdegna la battuta greve, l’insulto puntuto, la provocazione urticante; e nell’ esercitare la sua vis polemica volentieri imbarca anche dicerie del tutto infondate o costruite ad arte. Secondo Andrew Spannaus, una chiave del successo di Trump nelle primarie repubblicane è stata la sua capacità di caricaturizzare gli avversari e di colpirne i punti deboli, senza troppi complimenti. Eppure nel 2016, scrive Wolff,⁴ Trump era preparato a perdere: e forse fu proprio questa sua tranquillità a indurlo a condurre una campagna elettorale senza freni inibitori, che alla fine risultò trionfale al di là di ogni aspettativa. Perché fu una campagna di pancia, capace di arrivare dritta, appunto, alla pancia dell’elettore medio.⁵

    David Cay Johnston⁶ nota come in realtà Trump accarezzasse il sogno della Casa Bianca sin dal lontano 1985, ma, anche dopo aver incassato la presunta benedizione di Reagan, i suoi tentativi di candidarsi furono sempre velleitari, tutt’altro che convinti e per nulla animati da vera passione politica;⁷ quello del 2016 sarebbe dovuto essere l’ennesimo tentativo a vuoto, ma stavolta la sorte gli aveva riservato un biglietto vincente.⁸

    Difficile dire se Trump, nella fase delle primarie, fu più bulldog o bulldozer, più azzannatore o più demolitore: certo è che l’operaio licenziato del Midwest, quello in collera con la società e la politica, guardando dal divano di casa i dibattiti dei candidati del Gop imparò prima a divertirsi con Trump e poi, le patatine tra i polpastrelli, a tifare per lui.

    Molto criticamente Spannaus nota che in campagna elettorale la mancanza di un minimo senso del politically correct – in altre parole la sua tendenza a insultare chiunque lo critichi – fu a un tempo il più grande limite e la più grande risorsa per Trump. Trump infatti è riuscito a far sì che il suo limite diventasse un punto di forza agendo abilmente in due modi: smorzando i toni alla bisogna o ammettendo spesso che molte delle sue provocazioni, in realtà, sono pura finzione da re dell’intrattenimento. Niente di paragonabile, comunque, all’ipocrisia dei politici di professione. Ha aiutato poi Trump, e molto, il fatto che i suoi oppositori si siano appuntati molto sulla provocazione in sé – dal punto di vista verbale e scenico – e non sui temi di urgenza sociale ed economica di cui le sue provocazioni si facevano portavoce.

    Forse il modo di muoversi di Trump tra gli altri candidati della prima fase ricorda più esattamente quello di Messala nella corsa delle bighe di Ben Hur. Uno dopo l’altro il costruttore miliardario sbaragliò Jeb Bush, Ted Cruz e Marco Rubio, accostando opportunamente le sue ruote rostrate al loro carro.

    Per quanto riguarda il primo, uno dei favoriti della vigilia se non altro perché figlio e fratello d’arte, Trump andò a urtare la ruota delle responsabilità pregresse: della triste e turpe eredità, cioè, che gli lasciava il fratello George Walker con la guerra in Iraq.¹⁰ Indirettamente Trump cercava anche di incitare gli americani a considerare finito il tempo dei Bush, e così Jeb finì a terra, il corpo giacente sulla rena destinato a essere schiacciato da qualche altro carro sopraggiungente.

    Nel fianco a fianco con Rubio, invece, la perforazione fatale ebbe la forma della presa in giro cattiva, provocatoria e sminuitoria: prese a dargli un soprannome, Piccolo Marco, che non era un modo con cui un settantenne di grande esperienza dava del ragazzino a un avversario più giovane (con i suoi 44 anni, Rubio era in effetti il candidato più giovane in lizza), ma piuttosto alludeva alla bassa statura,¹¹ accoppiata a un modo di fare troppo nervoso e frenetico. Rubio provò a sua volta a fare il Messala, ma non gli riuscì molto bene dal momento che di Messala ce n’era già uno e piuttosto valido: provò, cioè, a contrattaccare con quella frusta che Messala tentò inutilmente di adoperare contro un Ben Hur il cui carro non voleva saperne di cedere. E quindi scese allo stesso livello di Trump, uscendosene con una battuta che accusava l’avversario di avere un organo sessuale di piccole dimensioni,¹² a giudicare da quelle delle mani. Questo attacco fece calare paurosamente le quotazioni di un candidato che sembrava promettere molto.

    Con Cruz, infine, lo sperone di Trump affondò sulle origini del candidato:¹³ il senatore del Texas, infatti, è figlio di immigrati cubani (lo è anche Rubio) e inoltre è nato in Canada. Trump protestò che la sua candidatura era quantomeno incostituzionale, dal momento che la Costituzione Usa stabilisce che possa essere eletto presidente solo e soltanto un cittadino naturale degli Usa, nato, cioè, sul suolo statunitense.

    Per quanto riguarda gli altri pretendenti – Spannaus cita ancora, come candidati di prima fascia, Scott Walker, governatore del Wisconsin; Chris Christie, governatore del New Jersey; Rand Paul, senatore del Kentucky; John Kasich, governatore dell’Ohio; Ben Carson, celebre chirurgo afroamericano, e Carly Fiorina, ex ceo (amministratore delegato) della Hewlett Packard – o si ritirarono dalla corsa anzitempo oppure furono stracciati oppure uscirono non necessariamente perché eliminati dagli altri candidati del quartetto di cui abbiamo parlato sopra. Rubio, in realtà, rappresenta un caso particolare perché in effetti non fu il confronto con Trump, comunque deleterio, a scaraventarlo fuori dalla pista, bensì un altro faccia a faccia, quello con Christie, che però poi sgombrò il campo per passare dalla parte trumpiana. Una prefigurazione di quello che sarebbe stato il suo schieramento, di lì a poco, si può vedere nei toni con cui Christie si assicurò il successo in quel dibattito, davvero molto trumpiani. E da Rubio ottenne la medesima reazione che questi aveva già opposto al miliardario.¹⁴

    Ancora una volta la metafora della gara ippica di Ben Hur fa al caso nostro: a Messala, proprio come a Trump, non fu necessario eliminare la totalità dei concorrenti. Quelli che, nel circo di Antiochia (l’esatta individuazione geografica del teatro della gara è un dato che desumiamo dal romanzo, giacché nel kolossal non se ne fa menzione), con Messala, rappresentante di Roma, e Ben Hur, campione di casa, partecipavano alla corsa a cui Ponzio Pilato in persona diede il via, vantavano queste provenienze: Alessandria, Messina, Cartagine, Cipro, Corinto, Atene e Frigia. Questo, almeno, è il catalogo che compare nel film. Nel romanzo, invece, abbiamo un corridore di Atene, uno di Corinto, uno di Bisanzio e uno di Sidone.

    Facciamo prima la telecronaca della sequenza cinematografica. Ebbene, a Messala fu sufficiente abbattere l’auriga di Cipro che, impaurito dai rostri del romano, si accostò troppo alla parete sotto la tribuna e franò a terra; e poi quelli di Corinto e di Atene, effettivamente arpionati nel gioco letale messaliano; l’ateniese, poi, nella caduta coinvolse anche il collega di Frigia o di Messina (vedendo la celebre sequenza del film non si capisce con nettezza). Uno tra questi due dovrebbe anche essere quello che, proprio a inizio corsa, subisce l’incidente che lo mette fuori gioco senza essere entrato in contatto con alcuno. Con Messala e Ben Hur, al giro decisivo, erano rimasti in pista solo l’auriga di Alessandria (riconoscibile dalla livrea rossa) e quello di Cartagine (contraddistinto dalla divisa color pelle scamosciata) che, avendo impostato fin dall’inizio una gara prudente e di accorto accentramento per evitare le insidie laterali, ben si contentarono di un piazzamento di prestigio alle spalle del vincitore, e dunque di un gettone di presenza che, se non fa bacheca, almeno confluisce negli almanacchi.

    Questo, invece, è il racconto della gara nel testo originale di Lewis Wallace,¹⁵ che presenta sostanziali differenze. In pratica l’unico corridore a subire il contatto mortale con Messala – contatto che però sembra essere del tutto fortuito – è l’ateniese, che ha anche un nome, Cleante. Il romano non cerca (ammesso che lo cerchi) l’urto con le ruote o con la carrozzeria, ma con i cavalli, che si imbizzarriscono. Perso ormai il controllo del suo cocchio, Cleante va a franare contro il bizantino, e finisce schiacciato sotto gli zoccoli dei suoi stessi equini.

    Diversamente da quanto si vede nel film, Messala limita le sue scorrettezze al solo duello con Ben Hur, mentre non commette irregolarità nei confronti degli altri concorrenti. In fondo, par di capire leggendo i capitoli 31 e 32 del romanzo (cioè quelli che narrano la corsa), la superiorità tecnica di Messala e di Ben Hur come aurighi, ma anche la superiorità dei loro cavalli, è tale che sin dai primi giri appare evidente come la lotta sarà a due, e che gli altri corridori dovranno rassegnarsi a essere figure di contorno. Per la verità, allo scoccare dell’ultimo giro, il sidonese tenterebbe un allungo, ma viene subito ripreso dai colleghi di Corinto e di Bisanzio, oltre che dai due big, che immediatamente si riportano al comando e così fino alla fine. Fino a quando, cioè, il testa a testa (e il corpo a corpo) decisivo vede soccombere il romano e trionfare il giudeo.

    Ora, appare evidente che, nelle primarie repubblicane, i corridori di Cipro, Corinto e Atene (o semplicemente quello di Atene, se si considera il romanzo piuttosto che il film) rappresentano gli avversari che Trump eliminò direttamente attraverso le sue tattiche o con il suo urto inesorabile; quelli di Cartagine e di Alessandria (o, fedeli al testo wallaciano, quelli di Corinto, Bisanzio e Sidone) i candidati che, pur essendo riusciti a completare la corsa, alla fine si sono accontentati di perdere onorevolmente; quelli di Frigia e di Messina, infine, si possono paragonare tanto a quelli che sono stati eliminati in corsa ma non direttamente da Trump, quanto quelli che si sono ritirati anzitempo, senza venire a contatto con nessuno e anzi proprio per far sì che ciò non avvenisse (scoraggiati dai primi rovesci o dalla mancanza di mezzi adeguati).

    Da un punto di vista strettamente correlato alla metafora trumpiana, verrebbe da dire che la sceneggiatura del kolossal con Charlton Heston e Stephen Boyd privilegia un’analisi dei meccanismi dell’ascesa di Trump nella fase delle primarie, mentre nel romanzo di Wallace ciò che conta è quasi esclusivamente il magnum discrimen con Hillary Clinton. La Clinton, infatti, in questa metafora circense equivale senz’altro a Giuda Ben Hur (e naturalmente non ci sfugge che nella nostra storia è Messala a vincere e non Ben Hur), mentre nel parallelo con Nerone riveste quasi necessariamente il ruolo di Agrippina, l’ultimo e più coriaceo ostacolo tra lui e la conquista del potere. L’eliminazione di Agrippina richiese a Nerone uno studio lungo e meticoloso, un impegno insonne alla ricerca del delitto perfetto;¹⁶ per Trump fu invece l’occasione di mettere in campo

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