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Obiettivo Uxtlan
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E-book443 pagine6 ore

Obiettivo Uxtlan

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Info su questo ebook

Anni Sessanta, guerra fredda. Un sottomarino sovietico con un carico misterioso, un archeologo discendente del popolo Maya che sogna di scacciare tutti i Bianchi dalle Antille, un agente britannico del SIS e uno della CIA che tentano di fermarlo sono i protagonisti di un thriller ambientato tra l'Inghilterra, il Vietnam, la Giamaica e un'isoletta del mar dei Caraibi durante il duro confronto tra USA e URSS.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ago 2016
ISBN9788822835895
Obiettivo Uxtlan

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    Anteprima del libro

    Obiettivo Uxtlan - Giorgio Ressel

    Giorgio Ressel

    Obiettivo Uxtlan

    Romanzo

    Tutti i contenuti di quest'opera sono protetti

    dalla Legge sul diritto d'autore

    Obiettivo Uxtlan

    Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi

    citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di

    conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia

    con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse è

    assolutamente casuale.

    1. Riflessioni di un lupo di mare

    Petrov barcollò annaspando in cerca di un sostegno. Di nuovo quei sudori freddi e le palpitazioni, poi un velo nero davanti agli occhi e un fischio nelle orecchie che diventava sempre più acuto. Si lasciò cadere sul primo seggiolino vuoto, chinò la testa e chiuse gli occhi. Come le altre volte compì una serie di inspirazioni ed espirazioni lente e profonde, una tecnica che aveva imparato nelle sedute yoga di rilassamento. Trascorsi un paio di minuti tutto era tornato normale. Nessuno aveva notato la scena, ma ormai non c’erano più dubbi: era al limite del collasso. Un paio d’ore di sonno gli erano assolutamente indispensabili, e non poteva più rimandare.

    Il vice prese il comando, assicurandogli che lo avrebbe chiamato se ci sarebbero state novità. Nel suo alloggio Petrov si sedette nella scomoda brandina umidiccia. Si tolse faticosamente le scarpe, si allungò e si stiracchiò. Poi si distese e, con un profondo sospiro, spense la luce. Ma nonostante la sensazione di pesantezza e di fatica, non riusciva ad addormentarsi. L’immagine dell’U-2 in volo continuava a tormentarlo e a risaltar fuori non appena scacciata dalla mente. In un modo o nell’altro, a causa di quell’aereo Petrov aveva già assistito a due gravi crisi internazionali. Ora c’era il rischio che succedesse per la terza volta. E lui sarebbe stato nell’occhio del ciclone.

    Abbassò le palpebre e, da qualche parte nei meandri del suo cervello che scivolava nel dormiveglia, venne dato l’ordine di proiettare un film. Era composto da spezzoni di ricordi di due decenni: colori e immagini, suoni e rumori di oltre vent’anni di carriera nella marina militare, mescolati a immagini televisive e prime pagine di quotidiani come la Pravda (la Verità) o l'Izvestija (le Notizie).

    Il suo primo incontro con l’U-2 era avvenuto nel 1960. Petrov si trovava a Kapustin Yar, una base segreta nelle vicinanze del mar Caspio dove si collaudavano i missili a media gittata - tra i 900 e i 4500 chilometri - da impiegare principalmente contro l’Europa Occidentale. Lui doveva seguire dei corsi di base, in previsione dell’imminente imbarco sui sottomarini dei vettori Sark - i primi di quel genere realizzati in Unione Sovietica.

    Ormai da anni si sapeva che gli U-2 compivano regolari missioni di spionaggio sul territorio sovietico. Ma l’altissima quota a cui volavano - 24.000 metri - ne aveva fino ad allora impedito l’abbattimento. Il primo maggio il sistema Tallin, un’efficientissima rete di radar e di difese antiaeree a guardia dei confini, aveva individuato l’ennesima intrusione. La base di Kapustin Yar era stata messa immediatamente in stato di allarme. E stavolta per gli Americani c’era stata una brutta sorpresa.

    Da terra era stato lanciato un missile S-75 Dvinà (Guideline nel codice NATO) che aveva colpito in pieno l’U-2. L’aereo era caduto nelle vicinanze di Sverdlovsk e il pilota - un certo Francis Gary Powers, della CIA - era stato catturato e in seguito processato pubblicamente con l’accusa di spionaggio. Da quel momento i voli di ricognizione sopra l’URSS erano cessati.

    L’episodio dell’U-2 aveva fatto cancellare il vertice sulla distensione tra le due super-potenze che si doveva tenere a Parigi alcune settimane più tardi, ma non aveva avuto altre gravi conseguenze politiche. Una conseguenza personale spiacevole c’era stata invece per Petrov che, come esperto nelle tattiche di guerra in mare, avrebbe dovuto far parte della delegazione sovietica a Parigi. Aveva perso una bella occasione di visitare la ville lumière e quell’occasione non si era mai più ripresentata.

    Ma il nervosismo e la sindrome da attacco imminente aveva talmente contagiato i Sovietici, che il primo luglio un RB-47 del SAC (Comando Aviazione Strategica) era stato abbattuto mentre sorvolava il mare di Barents. Il bombardiere, dotato di sei turbogetti e che era stato trasformato in aereo spia e riempito di apparecchiature elettroniche, era stato mitragliato da un MiG. I piloti e i tecnici avevano dovuto abbandonare il velivolo lanciandosi coi seggiolini a espulsione.

    Quattro dei sei uomini dell’equipaggio erano morti, gli altri due erano stati recuperati da dei pescherecci. Erano stati trasferiti a Mosca, incarcerati nella Lubianka e sottoposti a lunghissimi interrogatori. Gli Americani avevano urlato tutto il loro sdegno, sostenendo che mai, lungo tutta la sua rotta, l’RB-47 era penetrato nello spazio aereo sovietico. Qualche mese dopo i due piloti superstiti erano stati liberati.

    A Mosca Petrov aveva avuto occasione di assistere ad alcune sedute del processo a Powers. Come sede del dibattimento era stata scelta la Sala dei Sindacati del tetro Palazzo di Giustizia. Il luogo, con i colori pastello delle pareti, le ricche decorazioni e gli scintillanti candelabri, si mostrava ingannevolmente rassicurante. Ma quella stessa sala negli anni Trenta aveva fatto da palcoscenico ai processi-farsa scatenati dalle feroci purghe staliniane.

    A Petrov l’imputato aveva dato l’impressione di un giovanotto confuso e un po’ ingenuo. Powers era stato condannato a dieci anni di prigione e rinchiuso a Vladimir, un carcere dove c’erano soprattutto detenuti politici. Ma in fondo gli era andata bene, perché dopo due soli anni di reclusione aveva ottenuto il rimpatrio. Sul famoso ponte di Glienicke, nei pressi di Berlino, era stato scambiato col colonnello Rudolf  Ivanovich Abel, che a New York aveva messo in piedi un’eccellente rete di spionaggio. La copertura del suo studio fotografico aveva retto per anni, finché un collega del KGB non aveva tradito Abel, defezionando a Parigi e chiedendo asilo all’ambasciata degli Stati Uniti.

    Due anni dopo c’era stata l’altra grave crisi. A quell’epoca Petrov aveva un incarico temporaneo al GRU - il servizio segreto militare - e aveva così avuto la possibilità di conoscere di persona il colonnello Oleg Penkovskij, l’alto funzionario che tra il ‘61 e il ‘62 aveva passato all’MI 6 e alla CIA una quantità impressionante di informazioni segretissime.

    Tra queste, anche la notizia della presenza di missili sovietici a Cuba. La conferma si era avuta il 14 ottobre 1962, quando un altro U-2 (dell’USAF, stavolta) che volava sopra la località di San Cristóbal, aveva fotografato sei rampe di lancio quasi operative per missili balistici Sandal e altre quattro appena iniziate. Le rampe erano puntate verso gli Stati Uniti e, dato che i Sandal avevano una gittata di 1800 chilometri, avrebbero potuto colpire buona parte del territorio USA, compresa Washington D.C.

    Ovviamente gli Stati Uniti non potevano permettere una simile minaccia a centoquaranta chilometri dalle coste della Florida. Così era iniziata la famosa crisi dei missili. Quella era forse stata l’occasione in cui più che mai si era sfiorato lo scontro nucleare e il conseguente reciproco annientamento. Petrov aveva assistito a questi avvenimenti da una posizione, per così dire, privilegiata.

    Comunque, nella partita a poker con Kennedy, Krusciov non aveva avuto il coraggio di vedere e si era ritirato dal gioco. Dando inizio all’operazione di San Cristóbal, aveva probabilmente contato sulla giovane età del presidente americano, sulla sua scarsa esperienza nello spietato mondo della politica internazionale, e sul triste ricordo della baia dei Porci - un disastro avvenuto sulle spiagge di Cuba solo qualche mese dopo l’inizio del suo mandato, nella primavera del ‘61.

    Ma Krusciov aveva fatto male i conti: Kennedy e il suo staff erano stati fermissimi, anche perché erano tenuti costantemente informati da Penkovskij. Alla fine Nikita aveva dovuto cedere. Per non perdere completamente la faccia, aveva ottenuto dagli Americani la solenne promessa che non avrebbero più tentato di invadere l’isola caraibica e che avrebbero ritirato il loro missili (degli Jupiter con testata nucleare) installati in Turchia e in Italia.

    Così, le rampe erano state smantellate, i tecnici e i militari erano stati rapidamente rimpatriati e le navi sovietiche richiamate. Gradualmente, la tensione si era allentata e il mondo era tornato a respirare. Ma per Krusciov era iniziata la parabola discendente ed esattamente due anni dopo, nel 1964, il premier sovietico era stato defenestrato.

    Con un lamento Petrov si girò su un fianco. Ancora il collo: era sempre da quel punto, alla base della nuca, che si irradiavano le fitte di dolore quando era sotto tensione.

    La crisi dei missili gli fece rammentare un’altra famosa operazione dei Sovietici. Il comandante si rivide ventenne. Era appena uscito dall’accademia ed era alla vigilia del suo primo imbarco come ufficiale: giovane, entusiasta e ambizioso. Anche allora il mondo si era pericolosamente avvicinato allo scoppio di una guerra totale. E sarebbe stata la terza nel giro di trentaquattro anni.

    Era il giugno 1948 e l’URSS aveva deciso il blocco delle strade di accesso a Berlino Ovest. Il blocco avrebbe dovuto ridurre alla fame quella parte della città e provocare la sua caduta nelle mani dei Russi. Petrov, che non aveva partecipato alla seconda guerra mondiale, aveva pensato che finalmente avrebbe provato l’emozione della battaglia. Che stupidaggine! pensò.

    Ma così non era stato, perché Americani e Inglesi avevano realizzato un gigantesco ponte aereo col quale erano riusciti a rifornire i Berlinesi di cibo e carbone. L’inverno era stato terribile, ma Berlino aveva tenuto duro. Nel maggio dell’anno seguente i Sovietici avevano tolto il blocco. Non solo non avevano ottenuto alcun risultato con questa operazione, ma era stata gravemente danneggiata la loro economia. Infatti, per ritorsione gli alleati avevano decretato l’embargo di tutte le loro merci dirette in Unione Sovietica. Un fiasco completo.

    Petrov si scosse dai suoi ricordi polverosi: in quel momento aveva ben altro cui pensare che alla sua gioventù e al destino di Nikita Sergheievic. Si considerava soprattutto un marinaio e un patriota, e la politica non lo interessava. E in quanto a indottrinamento comunista, provava più o meno i sentimenti che prova uno scettico nei confronti della religione, dei suoi riti e dei suoi sacerdoti.

    Ma pian piano tutti quegli episodi avevano instillato in lui dubbi sempre più forti sul senso di responsabilità e sulle capacità di comando degli uomini che occupavano le più alte posizioni di potere. Gli uomini che avrebbero dovuto guidare il suo Paese verso la pace e la prosperità, secondo la dottrina ufficiale comunista, ma che invece parevano  tramare costantemente per fomentare la guerra. 

    Lo zampolit - l’ufficiale politico - ovviamente non la pensava così. Era un fanatico e, anche se non aveva mai discusso con Petrov di questi argomenti, era chiaro che lo considerava quanto meno troppo tiepido politicamente, se non addirittura sospetto.

    Ma Petrov aveva dalla sua un curriculum di tutto rispetto e - strano a dirsi nel mondo sovietico - questo era bastato per farlo diventare comandante di un sommergibile con armamento nucleare. Lo zampolit, che non possedeva né le capacità di comando, né le conoscenze tecniche, né l’esperienza marinara di Petrov, si sentiva costantemente messo da parte e pretendeva di dare il suo prezioso contributo alle operazioni.

    Il comandante sbadigliò e decise che avrebbe affrontato il problema dello zampolit al suo risveglio. Dopo qualche minuto si addormentò.

    Quando il sommergibile era entrato nel mar dei Caraibi il vice aveva fatto avvisare Petrov, come d’accordo. Arrivato in plancia ancora insonnolito, il comandante non aveva potuto evitare l’incontro con l’ufficiale politico che lo attendeva impaziente e intendeva onorare Petrov dei suoi preziosi consigli. Sentendosi preso poco sul serio dal comandante, aveva alluso alla lontana parentela che vantava di avere con un membro del Soviet supremo per fargli impressione, ma Petrov aveva limitato la sua reazione a un breve sogghigno mentre fissava con occhi gelidi il giovanotto. Allora lo zampolit si era lanciato in un discorso degno del banchetto in un kolkhoz in occasione del Primo Maggio:

    «Compagno comandante, nell’interesse del successo della nostra missione e per la supremazia della dottrina marxista-leninista in tutto il mondo e la fine del capitalismo, e anche per la sicurezza della nostra unità, costata così tanti sacrifici ai nostri compagni lavoratori, e per la sicurezza stessa delle nostre vite, quantunque indegne e sacrificabili...»

    Petrov sospirò e lo interruppe senza complimenti:

    «Compagno zampolit, abbiamo tutti molto da fare perciò veniamo al punto. Se avete qualcosa da dire, ditela. Ma in fretta.»

    «Il punto è che siamo entrati - diciamo così - nel giardino di casa degli imperialisti americani, che troppo bene sanno proteggere i propri esecrabili interessi per mantenere tante popolazioni sotto il loro tallone con i più moderni e sofisticati mezzi che le loro ricchezze riescono a procurarsi.»

    «Compagno...»

    «Le loro spie, umane ed elettroniche, sono troppo pericolose per poterle sottovalutare; e la loro tecnologia è all’avanguardia nell’individuazione dei mezzi nemici. Navi, aerei, forse anche satelliti spia potrebbero localizzarci in qualunque momento.»

    «E quindi?»

    «Sono convinto che proseguire la navigazione a quota periscopica è assolutamente troppo rischioso. Insisto con la massima fermezza per immergerci immediatamente ad almeno cento metri.»

    Petrov aveva faticato a mantenere la calma.

    «Compagno zampolit, ancora non siete stato nominato comandante di questo sottomarino. E il comandante ha deciso che per il momento si continua a navigare a quota periscopica, facendo uso del dispositivo Schnorchel.»

    «Ma...»

    «Finché il mare si mantiene moderatamente mosso - come in questo momento - è estremamente difficile per un aereo individuare in mezzo alle onde la scia prodotta dal nostro periscopio. In ogni caso, non intendo discutere le mie decisioni con voi. La vostra competenza si limita alle questioni politiche e dottrinarie e, fino a prova contraria, il tipo di navigazione che assume questo sottomarino non è una questione politica e neppure dottrinaria.

    «Ma io...»

    «Attenetevi ai compiti che vi sono stati affidati e non impicciatevi di questioni che non vi riguardano.»

    Petrov lo squadrò con durezza, e lo zampolit, che non si aspettava una reazione così decisa, si mostrò palesemente sorpreso.

    «In qualità di componente di questo equipaggio credo di avere pieno diritto di esprimere...»

    «Basta così, compagno Novak. Potete ritirarvi.»

    Quell’individuo aveva il potere di fargli perdere le staffe. Era esasperante e non riusciva più a sopportarlo. Se non si fosse tolto subito dai piedi, Petrov era pronto a sbatterlo fuori con la forza. L’altro - basso di statura e piuttosto gracile - si rese conto di quello che rischiava e si allontanò offeso, con movimenti rigidi da marionetta.

    «Per fortuna abbiamo lo Schnorchel» disse Petrov rivolto al suo vice. «Uno dei migliori congegni prodotti dai Tedeschi durante l’ultima guerra. E io non amo certo i Tedeschi...»

    Il vice fece un sorriso di circostanza ma non commentò. Per quanto possibile preferiva mantenere buoni rapporti con Novak.

    «Quella piccola spia di Mosca vorrebbe bruciare le ultime energie delle batterie adesso che non è necessario, mentre potrebbero essere la nostra unica salvezza se dovessimo venire scoperti.» Petrov sospirò nuovamente. «Maledetto idiota!»

    In effetti, si doveva a questo apparato se il Rodina (Patria, in russo) era arrivato a poche centinaia di miglia dalla meta. Dei due tubi telescopici che componevano lo Schnorchel, uno prelevava l’aria per il motore diesel e l’altro scaricava i gas combusti direttamente in acqua. In questo modo si potevano risparmiare le preziose e ormai esauste batterie di accumulatori, e contemporaneamente si proseguiva veloci verso la meta finale, nascondendo anche i fumi di scarico nell’acqua.

    L’individuazione radar del periscopio dal cielo era poco probabile, e comunque avrebbe attivato un congegno all’interno del sottomarino, segnalando che erano stati scoperti.  La localizzazione da parte di un mezzo di superficie era ancora meno verosimile, data la minore portata del radar - che si trovava pochi metri sopra il livello del mare - e l’interferenza delle onde marine. E il sonar era lento perché si affidava alle onde sonore invece che alle onde radio, e poco affidabile perché variazioni nella densità e nella temperatura dell’acqua avrebbero prodotto riflessioni anomale dei suoni e, in definitiva, indicato una posizione errata del Rodina. Certo, si trattava di un azzardo; ma anche navigando sott’acqua non si annullavano i rischi di venire scoperti.

    Otto ore lunghe e noiose erano passate. Fino a quel momento non c’era stato alcun allarme e il sottomarino stava procededendo tranquillo lungo la sua rotta. Solo altre cinque ore di navigazione e sarebbero arrivati nella zona assegnata.

    A una trentina di chilometri di distanza oltre l’orizzonte verso nord, l’imponente prua della portaerei Enterprise, alta come una casa di tre piani, avanzava sollevando due enormi baffi di schiuma bianchissima sulle sue fiancate. I potenti reattori nucleari spingevano le sue novantun mila tonnellate a oltre venti nodi. I grandi radar di sorveglianza, sull’isola raccolta e massiccia, ruotavano continuamente con ritmo lento e regolare, come le antenne di uno strano insetto.

    Il radar di ricerca di superficie aveva individuato per un attimo un puntino anomalo. Nel Centro Informazioni di Combattimento - in sigla, CIC - l’oggetto aveva lampeggiato ancora una volta sul grande schermo circolare e poi era sparito definitivamente. Avrebbe potuto essere benissimo un falso allarme: forse un grosso cetaceo che faceva provvista d’aria prima di immergersi, o l’albero di alluminio di una barca a vela, o un’anomalia elettromagnetica. Il pennello elettronico continuava a ruotare sul quadrante dalla luce verdastra, ma nulla era più apparso sullo schermo.

    I radaristi fissavano attenti il raggio luminoso che spazzolava la superficie circolare del monitor, ma ora non segnalava più niente. Tuttavia alcuni giorni prima, la presenza di un sottomarino nemico era stata ritenuta altamente probabile dal Servizio Informazioni della Marina, e poi era stata confermata dalla catena Caesar, una lunga serie di sensori magnetici posati sul fondo marino nelle vicinanze della costa americana. In condizione di all’erta permanente non si poteva trascurare neanche un episodio all’apparenza insignificante, e l’ultima segnalazione sembrava confermare la presenza di un’unità avversaria.

    Un Grumman Hawkeye, specializzato nella individuazione di aerei e missili in volo, venne sollevato sul ponte e sistemato in pochi minuti sullo shuttle di dritta, il meccanismo di trascinamento della catapulta. Avrebbe avvisato la portaerei, le navi di scorta e gli altri apparecchi in volo di eventuali attacchi. Il radar di scoperta aveva la forma di una grossa padella dipinta a stelle e strisce ed era fissato sul dorso del Grumman, appena dietro le lunghe ali diritte.

    Due addetti in casacca verde e con in testa un casco dello stesso colore sollevarono i pesanti cavi di traino e li fissarono ai ganci dell’aereo. La catapulta a vapore stava per lanciare lo Hawkeye con una spinta che lo avrebbe accelerato da zero a centocinquanta chilometri all’ora nel tempo di un profondo respiro. Le due eliche iniziarono a girare, prima lentamente con qualche incertezza, poi sempre più veloci e regolari, mentre i motori si scaldavano.

    Le ruote già fremevano in attesa del via, bloccate dai potenti freni idraulici. Quando le due turboeliche Allison urlarono al massimo della potenza, il ponte di volo era già stato invaso dal vapore della catapulta. Dopo pochi secondi la pressione raggiunse il valore corretto e l’addetto al decollo, inginocchiato di fianco all’aereo, abbassò deciso il braccio dando il go al lancio. Un colpo sordo accompagnato da un sibilo, uno strappo in avanti della gigantesca fionda d’acciaio che incollò i cinque uomini dell’equipaggio ai loro sedili, e il velivolo venne proiettato verso il mare aperto. Divorò in un attimo il ponte e si sollevò con una certa fatica, dopo essersi abbassato di qualche metro.

    Pochi minuti dopo fu la volta di un Grumman Tracker, specializzato nella ricerca antisom. Il Tracker era stato progettato una decina di anni prima dello Hawkeye, ma la sua dotazione di apparecchiature di ricerca era eccellente, e comprendeva il radar di scoperta, il rilevatore di anomalie magnetiche e il sistema di ricerca acustico passivo con trentadue boe. In più, un armamento temibile - costituito da cariche di profondità, siluri a testata autocercante e razzi - lo manteneva tuttora un mezzo molto efficace nella lotta contro i sottomarini.

    I piloti del Tracker erano allegri e su di giri, come sempre quando si trovavano in volo. Molti lo avrebbero giudicato un lavoro come un altro, ma loro lo consideravano il più bello al mondo. La soddisfazione di riuscire a dominare perfettamente quel giocattolo da tredici tonnellate aveva qualcosa di sessuale. Come i piloti di auto da corsa, ad un certo punto si sentivano diventare una cosa sola con l’aereo: lo sentivano vivo e palpitante sotto il loro controllo.

    Il comandante orientò sapientemente il muso dell’apparecchio verso sud, mentre questo guadagnava quota. I due operatori agli strumenti elettronici sganciarono i seggiolini, ruotandoli dalla posizione in avanti - obbligatoria al decollo - a quella rivolta verso il lato di babordo della fusoliera. Si concentrarono ciascuno sul proprio compito, osservando con attenzione lo schermo del radar di scoperta e il rilevatore di anomalie magnetiche.

    Sulla vasta superficie marina l’individuazione di un sottomarino era un evento piuttosto raro, che metteva a dura prova perfino le numerose tonnellate di strumentazione elettronica di bordo. E negli ultimi giorni le segnalazioni false non erano mancate. Segno di un marcato nervosismo a bordo dell’Enterprise, o forse del bisogno impellente per l’equipaggio di un paio di settimane di franchigia dopo quarantacinque giorni di navigazione ininterrotta.

    Quei sette giorni di franchigia, che l'ammiraglio aveva promesso come premio per chi fosse riuscito a individuare il sottomarino sovietico, facevano gola a tutti. Oltre a ciò, era diventata un’autentica sfida tra Marina e Aviazione imbarcata, cosa che non dispiaceva affatto agli ufficiali.

    Da tre ore ormai continuava inutilmente la perlustrazione del Tracker. Gli uomini dell’equipaggio erano stanchi e annoiati. La necessità della continua attenzione richiesta dagli strumenti elettronici di sorveglianza e la monotonia di quel paesaggio verdeazzurro - solo raramente interrotto da un’isoletta, da un semplice scoglio, o da una secca - stavano diventando insopportabili.

    La mente dei due operatori era occupata da un unico pensiero, o più precisamente un desiderio: terminare il proprio turno di pattuglia e tornarsene a casa sull’Enterprise. Altri avrebbero preso il loro posto, in modo che il controllo sul mar dei Caraibi non subisse la minima interruzione. E tanto peggio per quelli a cui toccava quella noia mortale.

    Il radar di sorveglianza continuava a scandagliare invano la superficie calma del mare. Lo schermo restava desolatamente vuoto - a parte i puntini che rappresentavano il Gruppo di battaglia della Enterprise - e tutti si erano ormai convinti che era solo fatica sprecata e non valeva la pena di continuare.

    Ma quando, al passaggio del fascio elettronico, comparve nitida sul cinescopio una macchietta luminosa, e quando poco dopo i pennini tracciarono una lunga serie di linee a zig-zag sul tamburo di registrazione collegato all’idrofono, fu come se una pellicola, che fino a quel momento aveva proiettato scene al rallentatore, mostrasse ora l’attività dell’equipaggio a velocità accelerata. Un’attività frenetica in cui ognuno sapeva esattamente qual era il suo compito e non intralciava gli altri.

    La sonoboa - uno stretto cilindro lungo un metro - era stata lanciata in mare dall’aereo antisom non appena questo era arrivato in zona operazioni. Toccata la superficie, aveva calato un idrofono - un orecchio elettronico - ad alcune decine di metri di profondità e contemporaneamente aveva innalzato un’antenna radio per comunicare al Tracker i suoni percepiti sott’acqua.

    Il radar aveva ricevuto un’eco da un oggetto metallico in superficie, e ora la boa stava trasmettendo. L’operatore all’oscilloscopio studiò attentamente quei segnali ondeggianti, mentre s’indaffarava col dispositivo di sincronizzazione e con i comandi di regolazione della frequenza, della messa a fuoco e della luminosità del tubo catodico. Contemporaneamente ascoltava in cuffia i suoni prodotti dal sottomarino.

    Per un non addetto ai lavori, avrebbero avuto un significato paragonabile ai ghirigori tracciati su un foglio di carta da un bambino di tre anni. Ma un esperto poteva riconoscervi la cosiddetta firma, il tipo di rumore caratteristico di un certo battello. Talmente caratteristico da equivalere quasi all’impronta digitale di un uomo. Spesso si poteva indovinare il genere e anche il modello del sottomarino scoperto.

    «È un Golf

    I tracciati non lasciavano dubbi e il tono dell’operatore era assolutamente convinto. Golf era la denominazione che la NATO aveva stabilito per quel tipo di sottomarino. Immediatamente venne avvertita l’Enterprise. A bordo del Tracker si doveva tentare adesso di determinare la rotta del battello subacqueo. Ma innanzitutto occorreva stabilirne l’esatta posizione.

    Poco dopo, il segnale del radar era scomparso, segno che il sottomarino si era immerso. Ora bisognava fare affidamento sugli idrofoni. Vennero sganciate alcune sonoboe direzionali che avrebbero indicato, in modo più accurato di prima, il rilevamento - cioè l’angolazione rispetto al nord magnetico - tra ciascuna boa e il sottomarino. Proseguendo lungo la linea indicata dalla sonoboa col segnale più forte, e sganciandone via via altre, ci si sarebbe avvicinati sempre più alla preda. Si trattava di procedere per approssimazioni successive.

    Ma la propagazione dei suoni nell’acqua è capricciosa, perché soggetta a innumerevoli bizzarrie e - visto che dipende da molti parametri - non è raro assistere a riflessioni e rifrazioni stranissime. Variazioni irregolari di temperatura, salinità o densità possono riportare l’eco di una nave mercantile che procede a molte miglia di distanza e mascherare la presenza di un sottomarino che si trova proprio sotto il naso di un aereo da ricognizione.

    Differenze di temperatura degli strati d’acqua possono produrre un effetto analogo a dei tunnel, in cui i suoni s’incanalano e vengono trasportati a distanze enormi rimanendo pressoché inalterati nell’ampiezza e nella frequenza. Così si ricevono segnali chiarissimi provenienti da chissà dove.

    Tuttavia nel caso del Tracker, la caccia appena iniziata sembrava procedere in modo piuttosto soddisfacente. Il Golf doveva essere a una distanza di nove o dieci miglia. Ora bisognava stare attenti agli scarti improvvisi: con tutta probabilità il comandante avrebbe ordinato dei repentini cambi di rotta - che nel gergo della US Navy erano stati battezzati Matto Ivan - o una navigazione in circolo per confondere e fuorviare gli inseguitori. O forse avrebbe fatto appoggiare lo scafo sul fondo, avrebbe fatto arrestare i motori e tacitato ogni fonte di rumore. Ma per il momento il Tracker continuava ad avvicinarsi alla sua preda. Lento ma costante.

    2. Giocando a rimpiattino nell'oceano

    Base dei sottomarini di Nerpitchia Gouba, due settimane prima.

    Nella spettrale atmosfera nordica delle cinque del mattino, la prua affilata del Rodina tagliava le fredde e grigie acque della baia avanzando silenziosa verso il golfo di Kola. Il sottomarino lanciamissili era entrato in servizio nel 1960, e i suoi novantasette metri di lunghezza - considerando che il propulsore era un tradizionale diesel - ne facevano un’unità di eccezionali dimensioni, maggiori di quelle di molti sottomarini nucleari. Ma la sua caratteristica più evidente era la torretta, particolarmente ampia, che ospitava nella parte posteriore tre missili balistici Serb disposti verticalmente. I Serb erano i primi missili sovietici lanciabili anche in immersione, e la loro gittata di 1300 chilometri permetteva al Rodina di colpire comodamente tutti gli Stati sud-orientali degli USA, anche incrociando ben a sud dell’isola di Cuba.

    In piedi sulla plancia della torretta il comandante Petrov osservava distratto e annoiato un paesaggio che gli era ben noto. La sua mente era impegnata altrove: riviveva l’ultima notte appassionata trascorsa con Tanya, la sua seconda giovane moglie. Pensava che sarebbero dovuti passare tre lunghi mesi prima di poter riabbracciare quel corpo caldo e sensuale, e si domandava se nel frattempo lei non avrebbe trovato consolazione in qualche altro letto. Probabilmente sarebbe andata proprio così: era questo il destino dei marinai, e gli era già accaduto in passato.

    Ancora una volta Petrov si domandò perché non si decideva a piantare tutto e a chiedere un impiego a terra. Ma in effetti si trattava di una domanda oziosa, dato che la risposta la conosceva perfettamente. Gli sarebbe mancato il mare, che per lui rappresentava uno strano miscuglio di sfida e senso di libertà, e saziava la sua aspirazione sempre coltivata a una vita eccitante e ricca di sorprese. Era qualcosa di simile al gusto degli americani di essere costantemente on the road; era il desiderio di vedere che cosa c’è al di là e il timore forse di mettere radici profonde e legarsi troppo a qualcosa o a qualcuno.

    Una volta Tanya lo aveva accusato di essere infantile e di sfuggire alle responsabilità. Lui ne aveva riso divertito: come poteva il comandante di un’unità da guerra, che si portava a spasso per l’oceano dei missili armati di testate atomiche, temere le responsabilità? Ma ora, riflettendoci con distacco, pensò che forse sua moglie aveva ragione: lo spaventavano le responsabilità che comporta una famiglia. O forse era solo la paura d’invecchiare in qualche squallido ufficetto a compilare moduli inutili, stilare rapporti che forse nessuno avrebbe mai letto e riempire il resto del suo tempo a litigare con i colleghi per futili motivi. In ogni caso non avrebbe saputo rinunciare a quel tipo di vita, era nato per navigare.

    Ma navigare trascurando le più elementari norme di sicurezza era ormai diventata una regola a Nerpitchia Gouba. E questa era una cosa che lo mandava fuori dai gangheri. Quante volte aveva discusso con gli addetti alla manutenzione a proposito delle batterie?

    «Certo, sono dei congegni tecnologicamente semplici. Ma richiedono una costante manutenzione per funzionare bene e durare a lungo» insisteva.

    E quelle del sottomarino Rodina - glielo aveva ripetuto fino alla nausea - avevano ormai subito troppi cicli di ricarica. Secondo le raccomandazioni della Casa costruttrice, avrebbero dovuto essere sostituite almeno un anno prima. E ogni volta era la stessa storia: il magazzino ricambi ne era sprovvisto; erano attese giorno per giorno, ora per ora; sicuramente sarebbero arrivate in tempo per la partenza del Rodina... E infatti il giorno prima di salpare non erano state ancora consegnate. La società sovietica non brillava per la sua efficienza.

    «Se questa è la situazione per il materiale militare, che ha la precedenza su tutto» rifletté Petrov «mi domando come può farcela la popolazione civile.»

    Doveva essere solo per l’enorme pazienza, la capacità di sopportazione e la rassegnazione fatalistica dei Russi. Petrov aveva protestato con il comandante in capo della base e naturalmente non aveva ottenuto alcun risultato. Allora era andato direttamente a Severomorsk - una località a una cinquantina di chilometri da Murmansk - dove il Comando della Flotta del Nord occupava un vasto complesso di bunker in cemento.

    Petrov aveva girato in lungo e in largo per gli uffici, percorrendo a grandi passi i labirintici corridoi. Aveva battuto i pugni e minacciato rapporti e lettere di protesta a Mosca e Leningrado. Non c’era stato nulla da fare: l’ammiraglio Guzenko era stato irremovibile. Aveva deciso di far partire il Rodina il giorno successivo e non aveva voluto neanche sentir parlare di rinvii.

    Di fatto, Petrov non riusciva a capacitarsi di come i comandanti di scrivanie sottovalutassero o addirittura ignorassero i rischi conseguenti all’uso di materiale inadeguato, usurato o danneggiato. Ciò che lo stupiva era che quei sordidi apparatcik sembravano davvero in buona fede. Pareva proprio che non si rendessero conto... Si trinceravano dietro le loro scrivanie coperte da file di telefoni - uno status symbol per i Sovietici - e minimizzavano senza neppure ascoltare le sue ragioni.

    Del resto, non erano loro a correre rischi e per di più in territorio nemico. L’unico rischio di cui parevano veramente preoccupati era quello di perdere l’appartenenza alla nomenklatura e i privilegi della posizione che si erano faticosamente conquistati.

    Un colpo di vento quasi gli strappò dalle mani la busta sigillata. Sorrise tra sé: un bel guaio se la busta con gli ordini del quartier generale della flotta gli fosse volata in mare. Come avrebbe potuto giustificarsi? Il fatto era che non aveva alcuna voglia di aprirla, perché già sapeva che cosa avrebbe letto. E non gli piaceva.

    I grandi burocrati non si fidavano dei loro dipendenti, e i capi militari erano ancora peggio. E così anche lui, come ogni comandante di sottomarino, aveva sempre alle costole lo zampolit che osservava e riferiva tutto ciò che accadeva a bordo: dagli ordini di manovra impartiti, alle barzellette sul Primo Segretario. Petrov aveva ben poco spazio per le decisioni autonome. Nella busta avrebbe trovato gli ordini che specificavano la rotta, la velocità e la quota da tenere. Tutto nello spirito di una stretta centralizzazione e di una rigida pianificazione dall’alto.

    Non gli restava che eseguirli nel miglior modo possibile, cercando di tenersi amico lo zampolit, che lui e l’equipaggio consideravano niente di più che una squallida spia e disprezzavano sommamente. Come ufficiale, gli sembrava di portare sulle spalle tutta la responsabilità, senza avere in cambio una corrispondente gratificazione. Se non fosse stato per le tre testate nucleari che trasportava, Petrov si sarebbe sentito meno importante di un qualunque comandante di cargo.

    Ma lui, l’equipaggio e il quartier generale sapevano bene che tutto questo valeva solo per la normale routine. Quando capitava un’emergenza, allora era davvero lui quello che prendeva le decisioni e se ne assumeva interamente la responsabilità. Petrov pensò che a quella noia mortale avrebbe senz’altro preferito un’emergenza.

    «Aumentare di un terzo la velocità.»

    Il comandante trasmise l’ordine dal telefono di plancia, mentre ai lati del sottomarino sfilavano lentamente le coste scavate dal movimento del ghiacciaio nel corso dei millenni. Il mare era grigio violaceo e basse onde color acciaio si rompevano con ritmo regolare sulle fiancate del Rodina.

    «Profondità?»

    «Centotrenta metri, compagno comandante.»

    L’addetto al sonar guardava rilassato lo schermo fosforescente.

    «A centocinquanta, immergiamo. Quota periscopica.»

    Il comandante osservò l’orizzonte un’ultima volta. Richiuse il boccaporto sospirando e si calò all’interno della torretta. Chiuse il secondo portello ruotando con forza il volantino di bloccaggio e scese fino alla camera di manovra.

    «Pronti per l’immersione.»

    L’ufficiale di rotta attendeva paziente l’ordine di allagare le casse di zavorra e quelle

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