Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La spia che cambiò il mondo
La spia che cambiò il mondo
La spia che cambiò il mondo
E-book490 pagine6 ore

La spia che cambiò il mondo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Una storia vera

Una storia di spionaggio degna di John Le Carré
 
Finalmente svelati gli archivi segreti di Klaus Fuchs, la spia che ha cambiato la storia

Luglio 1945. I tre uomini più potenti del mondo – Truman, Churchill e Stalin, a capo di Stati Uniti, Gran Bretagna e Russia – siedono al tavolo delle trattative alla fine della seconda guerra mondiale.
In quell’occasione, il presidente americano informa Stalin che gli USA sono pronti a usare un’arma devastante: la bomba atomica. Ma il leader sovietico non sembra troppo sorpreso da questo tragico annuncio. Anche l’URSS sta preparando le sue testate nucleari, grazie all’opera di uno scienziato sfuggito alle persecuzioni naziste e rifugiatosi in Gran Bretagna: il dottor Klaus Fuchs. In possesso di informazioni di vitale importanza per americani e inglesi – il famoso Progetto Manhattan per lo sviluppo della bomba atomica – Fuchs decide invece di affidare ogni dato in suo possesso al KGB. E il suo lavoro di spionaggio – oltre alle sue indiscusse conoscenze tecniche – cambieranno per sempre il mondo: da quel momento, infatti, i due grandi blocchi si fronteggeranno per quasi cinquant’anni. È la scintilla che dà inizio alla guerra fredda, combattuta su un piano totalmente diverso da quello del conflitto appena conclusosi: non più campi di battaglia, ma codici cifrati, agenti segreti, spionaggio e controspionaggio.

Dall’autore bestseller del Sunday Times.
Una testimonianza unica.
Finalmente svelato il più importante segreto del XX secolo.

1949. L’Unione Sovietica annuncia al mondo che ha fatto esplodere la sua prima bomba atomica.
Pochi mesi dopo viene arrestata una spia che aveva passato informazioni sugli esperimenti nucleari americani al governo russo.
Il suo nome è Klaus Fuchs e questa è la sua storia.

«Un’avvincente storia di spionaggio che sembra appartenere alla
penna di John Le Carré.»
Daily Express

«Coinvolgente e ben congegnato.»
The Guardian

LinguaItaliano
Data di uscita6 ago 2014
ISBN9788854166516
La spia che cambiò il mondo

Correlato a La spia che cambiò il mondo

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Guerre e militari per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La spia che cambiò il mondo

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La spia che cambiò il mondo - Mike Rossiter

    233

    Titolo originale: The Spy Who Changed The World

    Copyright © 2014 Mike Rossiter

    First published in Great Britain in 2014 by Headline Publishing Group

    The right of Mike Rossiter to be identified as the Author of the Work

    has been asserted by hom in accordance with

    the Copyrigt, Disignes and Patents Act 1988

    Traduzione dall’inglese di Daniele Ballarini

    Prima edizione ebook: settembre 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6651-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Progetto grafico: Carol Gullo

    Realizzazione: Sebastiano Barcaroli

    Foto: © Hayden Verry / Arcangel Images

    Mike Rossiter

    La spia che cambiò il mondo

    Una storia vera

    Introduzione

    Un viaggio a Mosca

    Fino a che punto Klaus Fuchs era una grande spia? Lo arrestarono e lo misero in galera in Gran Bretagna nel 1950 per aver svelato all’Unione Sovietica le ricerche scientifiche sulla bomba atomica. All’epoca, la stampa britannica lo definì un traditore che aveva venduto ai russi i segreti nucleari ma, non appena l’isteria passò per appuntarsi su altre crisi e spie, i fatti più clamorosi di questo caso apparvero ambigui, nonostante le inchieste di scrittori più seri e autorevoli rispetto ai giornalisti della stampa popolare. Rebecca West, la celebre autrice, redasse The Meaning of Treason, un libro di denuncia sul tradimento attribuito a Fuchs. Due anni dopo il processo, uscì The Traitors di Alan Moorehead, un’opera sulle «spie nucleari», ma si scoprì che essa era stata commissionata dall’

    MI

    5, il Servizio di sicurezza britannico, che inoltre aveva fornito all’autore notevoli sovvenzioni. Alcuni anni più tardi, Margaret Gowing, l’eminente studiosa di storia, volse la sua attenzione al caso di Fuchs nell’ambito di un’esauriente cronaca in più volumi sullo sviluppo delle armi nucleari inglesi.

    Ciononostante, i fatti sui cui potevo basarmi apparivano esigui. È vero che Fuchs, uno scienziato tedesco in fuga dalla Germania nazista, aveva collaborato alle ricerche atomiche e che la sua condanna a quattordici anni di prigione scaturiva dalla sua stessa confessione. Ma il resto sembrava contraddittorio. Fuchs era uno scienziato di secondo piano, come si deduce dalla storia ufficiale del programma atomico inglese, che si limitò a rivelare il lavoro compiuto da altri? O aveva qualche segreto da vendere? Alcuni professori erano convinti che i russi sarebbero stati in ogni caso capaci di sviluppare l’atomica, anche senza i suggerimenti dello scienziato tedesco. Ma che genere di individuo era costui? Un malvagio cospiratore o un uomo un po’ represso, ingenuo e avulso dalla realtà, che col tempo si sarebbe accorto del suo comportamento sbagliato? Era vero, come si sostiene nel libro finanziato dall’

    MI

    5, che William Jim Skardon, l’investigatore principale, riuscì a capire la psicologia di Fuchs per indurlo alla confessione?

    Pensavo di essere arrivato al fondo di questi interrogativi alcuni anni orsono, allorché mi recai a Mosca per intervistare una persona che, in qualità di scienziato nucleare, era stata in intima connessione con il lavoro di Fuchs. Ebbi un appuntamento con Georgij Flërov, il docente universitario che aveva svolto un ruolo molto importante per la prima atomica dei sovietici. Era stato lui, nel 1942, a scrivere una lettera ai capi di stato maggiore del proprio Paese per indicare la fattibilità di un’arma nucleare, affermando che gli scienziati tedeschi, britannici e statunitensi si stavano già occupando della questione, sicché pure l’

    URSS

    avrebbe dovuto avviare in fretta un suo programma in tal senso.

    Flërov era in seguito andato a Berlino, nel maggio 1945, poco dopo la sconfitta definitiva della Germania hitleriana, viaggiando con la divisa da colonnello dell’

    NKGB

    ¹, il Servizio di sicurezza sovietico. Doveva scovare gli scienziati tedeschi che, durante il conflitto, avevano lavorato al programma atomico nazista per convincerli a passare dalla parte dei russi. Non era facile rifiutare un invito simile. Dopodiché, era stato lo stesso Flërov l’ultimo scienziato a lasciare la torre di prova atomica quando venne fatta esplodere la prima arma nucleare russa.

    Fu difficile riuscire a vedere Flërov. Avevo scritto in prima battuta all’Accademia sovietica delle scienze, senza ottenere alcuna risposta. Ma erano nell’aria vari cambiamenti per il Paese: era salito al potere Michail Gorbačëv e si stava annunciando una politica di maggiore apertura. Verso la fine del 1988 ricevetti dall’ambasciata francese a Londra la telefonata di una donna che lavorava nell’ufficio dell’attaché scientifico. Mi disse di avere un messaggio da parte dell’accademico Flërov, il quale avrebbe soggiornato in un albergo della stazione termale di Granville, sulla costa della Normandia, per la sua convalescenza dopo un intervento all’anca. A parte il numero telefonico dell’hotel, la donna non volle comunicarmi altro.

    Nel gennaio 1989 m’imbarcai su un traghetto da Portsmouth a Saint-Malo. Malgrado le ventilate riforme in atto a Mosca, la Guerra Fredda non era ancora finita. Uscendo da Portsmouth, il traghetto transitò vicino a un «motopeschereccio» russo, ancorato appena fuori del limite delle tre miglia e i cui congegni superiori alloggiavano una serie infinita di antenne e ricevitori satellitari, tutti tesi a monitorare la base navale britannica. Era sera, e le luci di navigazione illuminavano perfettamente il mare scuro, che stava già mostrando i segni di una tempesta in arrivo. La burrasca divenne talmente violenta da impedirci di completare il viaggio: fummo costretti a ormeggiare a Cherbourg. Alle cinque di mattina mi trovavo sulla corriera che percorreva la lunga strada litoranea verso Saint-Malo.

    Georgij Flërov era un uomo calvo, di bassa statura, sulla settantina; aveva sopracciglia folte e marcate. Il suo sguardo era penetrante e si accompagnava a un’espressione leggermente buffa. Conversammo per quasi quattro ore sui suoi esperimenti col plutonio e sulle lettere che spediva ai capi di stato maggiore, ma soprattutto presi accordi per poterlo filmare all’Istituto Kurčatov di Mosca, che era stato il primo centro sovietico per la ricerca sulle armi atomiche. Esso mutuava il nome da Igor Kurčatov, il giovane e infaticabile scienziato che aveva guidato il programma nucleare, coordinando il lavoro scientifico che avrebbe portato alla prima esplosione. Georgij mi disse altresì che gli sarebbe piaciuto farsi riprendere da noi all’Istituto unito per la ricerca nucleare di Dubna, dove ricopriva la carica di professore emerito, anche se prima doveva procurarsi un’autorizzazione speciale.

    Gli chiesi informazioni sul ruolo delle spie come Klaus Fuchs. Flërov ammise che le notizie ottenute dai delatori gli avevano fatto risparmiare del tempo, al massimo un paio d’anni. Comunque, per lui era obbligatorio sperimentare ogni cosa, e gli scienziati sovietici dovevano confezionare in patria gli esplosivi convenzionali, i reattori e il plutonio.

    Georgij stava ancora recuperando la salute in seguito all’operazione chirurgica e, dopo quattro ore di conversazione, si sentiva stanco. Mi confermò tuttavia che si sarebbe adoperato per agevolarmi la visita a Mosca, dopodiché mi congedai.

    Sul traghetto per tornare a Portsmouth ripensai bene alle sue parole. Mi sembrava che lui non avesse voglia di parlare di spionaggio o del contributo offerto dagli scienziati tedeschi all’opera degli omologhi sovietici. Eppure, se le informazioni da loro trasmesse avevano fatto veramente risparmiare due anni di fatiche, questo lasso di tempo non era affatto breve. In fondo, gli

    USA

    avevano impiegato tre anni per costruire la bomba: il risparmio di un paio d’anni di soldi e lavoro non era una cosa da sottovalutare.

    Quattro mesi dopo, mi trovavo su un volo dell’Aeroflot diretto a Mosca. Le intese erano state assai complicate: mi avevano concesso l’autorizzazione di intervistare Flërov all’Istituto Kurčatov solo a patto che adoperassi una troupe sovietica per le riprese, il che dovetti purtroppo accettare. Il compromesso si sarebbe rivelato un errore, ma questa è un’altra storia.

    Era la prima volta che visitavo la capitale sovietica e ciò che scoprii fu per me qualcosa di sconvolgente. In precedenza, un diplomatico britannico mi aveva confidato in un’intervista che l’Unione Sovietica equivaleva all’Alto Volta, ma coi razzi. Mi era sembrato un giudizio aspro. Da ragazzo mi ero acceso d’entusiasmo per Jurij Gagarin, il primo uomo a solcare lo spazio, russo pure lui, e ne dedussi che quel diplomatico fosse snob e arrogante.

    Mi era stata paradossalmente riservata una stanza all’Hotel Cosmos, nella zona periferica di Mosca, poco fuori della circonvallazione, vicino al parco scientifico e al museo dei cosmonauti, che celebrano i successi del programma spaziale russo. L’albergo è un edificio massiccio che si apre su un’enorme parete curva, donde scende una scalinata immensa che dà sulla strada; qui si erge stranamente una statua di Charles de Gaulle, che fronteggia una grandiosa arcata che funge da accesso al parco. Esso era stato costruito per alloggiare gli stranieri in visita alle Olimpiadi moscovite del 1980 e vantava ben 1700 camere. Adesso lo usava l’agenzia Intourist per ospitare gli uomini d’affari occidentali che venivano invitati nella capitale dai vari ministeri russi, in seguito ai primi tentativi gorbaceviani di liberalizzare l’economia. L’atrio e i bar dell’albergo erano stracolmi di donne russe coi loro magnaccia; sembrava che questi non avessero difficoltà nel superare lo sbarramento degli addetti alla sicurezza, i quali stazionavano davanti agli ingressi per impedire l’entrata ai normali cittadini. La nostra referente russa, che mi aveva accolto all’aeroporto, spiegò che ciò dipendeva dal fatto che l’albergo era un’area a moneta forte, talché i russi non sarebbero stati comunque in grado di acquistare alcunché. Sembrava ignorare del tutto le transazioni che avvenivano attorno a noi, nei tavolini del bar, sebbene debba ammettere che in quel caso i russi vendevano, non compravano mica.

    Le cronache sui giornali inglesi che riferivano della moribonda economia sovietica non mi avevano comunque preparato alla verità. Al di fuori dell’albergo, ragazzi di dieci o undici anni assalivano qualsiasi straniero offrendogli distintivi per berretti dell’Armata rossa o tutta una serie di spille di partito da fissare sul risvolto della giacca: in cambio, volevano dollari o sigarette. Presi la metropolitana fino alla piazza Rossa e mi recai nel famoso

    GUM

    , il grande magazzino di cui tutti parlavano come se fosse l’Harrods sovietico. Sugli scaffali non c’era niente. Trovai un paio di panetterie molto affollate, ove gli avventori erano aggressivi, mi pareva che detestassero la mia presenza lì. Tornando verso l’albergo, mi fermai nella piccola bottega all’angolo di una strada. Un posto sudicio, le tavole del pavimento erano ricoperte di sporcizia, e tutto quello che veniva esposto era una cassetta di patate dalla buccia raggrinzita. Al pari dei negozi cittadini, il ristorante del Cosmos pareva sprovvisto di derrate alimentari. La colazione era il caos più totale: torme di stranieri in abiti eleganti davano la caccia ai vassoi dei panini, o delle uova sode, che facevano presto a esaurirsi. A cena, gli unici piatti disponibili erano il pesce sottaceto e il pollo fritto alla Kiev.

    Conobbi un uomo d’affari, direttore di un’azienda inglese che produceva computer portatili molto robusti. Lo aveva invitato a Mosca il ministero dell’Industria pesante, eufemismo con cui si indicavano le fabbriche statali per la produzione di armamenti: lo avevano allettato con un contratto d’insegnamento e l’offerta d’acquisto di cinquemila dei suoi costosi computer. Così, lui avrebbe strappato un utile netto di un milione di dollari per la sua azienda, cifra che nel 1989 non era per nulla disprezzabile. La sua prima giornata era stata all’altezza delle aspettative; l’autista passò a prenderlo con puntualità e lo condusse in un ufficio, dove il direttore avrebbe tenuto una conferenza davanti a una classe di burocrati di medio livello per spiegare loro il valore e il funzionamento dei calcolatori portatili. Dopo tre giorni, l’autista passava a prenderlo alle undici di mattina e metà dei partecipanti non si presentava più al seminario. All’inizio della seconda settimana, il mio uomo aveva smesso completamente di insegnare perché l’autista si era volatilizzato. Un giorno, lo portarono invece in una sede ministeriale e gli chiesero se volesse prendere in considerazione un baratto: in cambio dei cinquemila portatili, gli avrebbero dato diversi milioni di paia di scarpe. Lui prese l’offerta sul serio, ma dall’azienda inglese gli dissero che nessuno desiderava comprare scarpe russe, a prescindere dal prezzo. Il direttore rimase nel limbo del Cosmos.

    Io mi chiedevo cosa avrebbe pensato Fuchs di questo tipo di società. Era questo il fine per cui aveva fatto la spia?

    Durante la seconda giornata della mia permanenza, Flërov trovò il modo di farmi visita. Nella mia ingenuità, non immaginavo che potesse superare gli addetti alla sicurezza e l’accozzaglia di piazzisti nell’atrio. Però me lo vidi arrivare leggermente claudicante, dal fondo del corridoio. Appariva calmo e tranquillo. Era giunto in albergo con un’enorme

    ZIL

    nera, la limousine usata dai funzionari di livello superiore e dai leader di partito; poi era riuscito ad accedervi senza incontrare ostacoli. Rimase con me per un’oretta, rammaricandosi per il mancato permesso di visitare Dubna. In compenso, il giorno dopo, una volta arrivati all’Istituto Kurčatov, avrebbe potuto raccontarci tutto quel che volevamo sapere.

    Ma ciò che mi disse in seguito mi fece comprendere quali fossero le sue reali motivazioni per dimostrare tanta apertura. Lui aveva saputo che moltissimi libri e documentari vertevano sul Manhattan Project, il programma statunitense per lo sviluppo dell’atomica, e quindi gli sembrava fosse venuto il momento di riconoscere gli sforzi fatti dai suoi compagni. In particolare, si dedicavano troppe attenzioni al lavoro spionistico. Capii allora qual era il suo obiettivo appassionato: Flërov riteneva che l’

    NKGB

    si fosse arrogato un merito eccessivo per il successo del programma nucleare. Adesso, gli scienziati volevano rivendicare la loro opera in questo campo.

    Il giorno successivo, mi pareva che la troupe televisiva sovietica e l’autista del pulmino con le attrezzature fossero riluttanti a recarsi all’Istituto Kurčatov. Ne parlavano come di un luogo segreto, di cui non sapevano nulla. Quando finalmente arrivammo, non riuscivo a capire il loro atteggiamento. L’entrata racchiusa da mura color ocra era ubicata alla fine di una via, Akademik Kurčatov; davanti all’ingresso principale, sorgeva un busto in marmo nero, alto circa sei metri, di uno scienziato, proprio di fronte al corpo di guardia (un edificio a due piani). Nei primi tempi dello sviluppo dell’atomica russa, quando era al culmine la guerra contro la Germania nazista, Kurčatov aveva giurato di non radersi mai la barba fino all’esito favorevole del progetto. La statua nera riproduceva il barbone che gli era cresciuto, ma non sapeva mostrare l’acuta intelligenza e il sottile umorismo che gli attribuivano. Entrammo in auto e seguimmo una scorta che, attraverso ampi terreni boscosi, ci precedette a una dacia di legno.

    Flërov mi salutò cordialmente all’entrata e fui stupito nel vedere che c’era una ventina di persone riunita in una grande sala. Erano stati sistemati parecchi tavoli con enormi portate di pane, caviale, carne fredda, sottaceti e insalate. Cominciai a intrattenermi con qualcuno dei presenti e mi accorsi subito che molti avevano collaborato con Kurčatov, per cui si apettavano di essere intervistati. Una donna, Zinaida Eršova, si era recata a Parigi nel 1937 per studiare sotto la direzione di Irène Curie, la figlia di Marie Curie. Poi aveva lavorato con Kurčatov a Mosca fin dagli inizi.

    La troupe televisiva aveva installato le luci e la telecamera in una nicchia, separata da alcune porte a fisarmonica dalla sala principale dov’era sistemato il buffet. Notai che i vecchi scienziati dell’atomica russa avevano provveduto a disporre le sedie in cerchio, così che tutti potessero osservare l’interazione. Secondo me, ciò non sarebbe stato utile qualora Flërov avesse voluto dire qualcosa di indiscreto, però non è che avessi tanto tempo a disposizione.

    Non appena iniziarono le riprese, Flërov si mise a fornirmi le sue impressioni su Kurčatov, dopodiché raccontò la sua ormai trita storiella della lettera che aveva spedito all’Alto comando. Le sue parole differivano di poco rispetto a quelle che aveva adoperato per mettermi al corrente della cosa alcuni mesi prima, alle terme di Granville. Non era evidentemente sul punto di rivelare nessun segreto.

    Poi cominciò a narrare del modo in cui Lavrentij Berija, il capo dell’

    NKGB

    , si era impadronito del progetto. Quella era la ragione per cui lui stesso aveva viaggiato a Berlino, nel 1945, con la divisa da colonnello del servizio segreto. Flërov era sorprendentemente esplicito nei giudizi su Berija: lo definì un rozzo delinquente che non capiva un’acca del progetto atomico. Riferì la circostanza in cui Berija domandò minacciosamente a uno scienziato se conoscesse i locali della Lubjanka, la prigione all’interno del quartier generale dell’

    NKGB

    . Approssimandosi il primo test atomico, il capo divenne sempre più ansioso circa gli esiti dell’esplosione, e tutti gli scienziati sapevano che avrebbero perso la vita se avessero fallito. Non mi attendevo che Flërov si soffermasse su questo punto e, durante la pausa per inserire una nuova pellicola, mi volsi per constatare la reazione degli altri membri dell’Istituto. Eravamo soli. Le porte a fisarmonica si erano chiuse discretamente dietro di me, e gli anziani scienziati, che fino a quel momento avevano assistito alla scena, erano stati nascosti, messi a distanza di sicurezza dall’aspra critica che Flërov aveva rivolto a Berija.

    Poi Georgij ribadì la sua convinzione sull’eventuale risparmio di diciotto mesi, o un paio d’anni, ottenuto grazie all’attività di spionaggio, benché non sapesse dire come o tramite quali informazioni ciò fosse stato possibile. Lui personalmente non aveva mai visto alcun dato proveniente dall’

    NKGB

    ; tutto ciò che faceva o su cui lavorava era stato la conseguenza del suo lavoro con altri scienziati sovietici. Forse Kurčatov aveva esaminato del materiale procurato dalle spie, ma questo era un supersegreto, un segreto mortale, come tutto ciò che aveva a che fare con Berija. E Kurčatov non ne aveva mai parlato.

    L’accademico Flërov decise che l’intervista era finita. Mi rese educatamente edotto di non aver altro da dire, poi si alzò. Fu la signora Eršova a prendere il suo posto sulla sedia. Era magra e di bassa statura, certamente più che ottantenne. Iniziò a parlare con notevole compostezza e palese eloquenza, aveva una parlantina ininterrotta e non riuscivo mai a interloquire. Descrisse il suo lavoro, che consisteva nel risolvere il problema fondamentale della raffinazione dell’uranio, cosa che aveva cominciato a fare nel 1942. Riesumò i diversi incidenti e le esplosioni avvenute negli impianti moscoviti, citando la totale mancanza di comprensione, da parte degli scienziati, dei pericoli derivanti dalle radiazioni. Era un miracolo che fosse ancora viva. Riferì i mutamenti intervenuti nella direzione e negli impianti quando, nel 1943, l’

    NKGB

    cominciò a sovvenzionare le ricerche, spiegando le cose per cui gli scienziati tedeschi furono di grande aiuto, oltre a quelle di cui essi non sapevano niente. Nemmeno lei poteva dire qualcosa di preciso sullo spionaggio, né sapeva se arrivasse del materiale dal Servizio segreto. Di questi fatti, diceva, non si parlava mai, e nessuno ne seppe mai nulla. Eppure, gli scienziati tedeschi erano stati a Mosca e poi a Sukhumi, sul mar Nero; li si conosceva, però le loro cognizioni erano limitate a dati specifici.

    Lasciai l’Istituto Kurčatov e Mosca senza saperne di più su Klaus Fuchs. Pochi mesi dopo crollò il Muro di Berlino e i Paesi del blocco sovietico iniziarono a sfaldarsi, a livello sia politico sia economico. Gli ex funzionari dell’

    NKGB

    , o

    KGB

    come si chiamava dal dopoguerra, cominciarono a scrivere le autobiografie e concedevano interviste assai colorite ai giornalisti occidentali. Si resero disponibili alla consultazione di cronisti e ricercatori diversi archivi sovietici, ma i documenti contenuti erano di ardua decifrazione e i segreti della catalogazione restavano confinati nella mente delle signore attempate che ne erano le uniche custodi.

    Col passare degli anni affiorarono gradualmente sempre più informazioni, sia negli

    USA

    che nel Regno Unito. Inoltre, poco prima di morire, nel 1988, Fuchs aveva concesso un’intervista a una troupe televisiva della Germania Est: per la prima volta nella sua vita, aveva parlato del suo lavoro di scienziato, e di spia. Anche questo documentario divenne disponibile dopo la riunificazione tedesca. Certi documenti dell’

    MI

    5 vennero consegnati all’Archivio nazionale britannico, sebbene rimangano ancora sottoposti a forte censura. Tutto ciò significa che oggi è possibile mettere assieme vari frammenti di questa storia nascosta, rimpolpando così la precedente storia dei banali aneddoti e delle disinformazioni che per tanti anni ha costituito lo scheletrico resoconto dell’attività di spionaggio di Klaus Fuchs. Cosa rivelano ora queste nuove informazioni?

    Il mondo è stato sotto l’incubo della Guerra Fredda per un quarantennio, a volte sembrava che si stesse avvicinando la paurosa battaglia finale dell’Apocalisse. Nel 1940, un conflitto nucleare era ancora fantascienza; cinque anni dopo, era divenuto una realtà. Cinque anni ancora ed era già in atto la corsa agli armamenti atomici, e dopo un altro lustro, nel 1955, alcune terribili esplosioni termonucleari stavano avvelenando l’atmosfera planetaria, talché sembrava illimitata la possibilità distruttiva scatenabile dagli scienziati. Klaus Fuchs era direttamente collegato a tutto ciò e svolse un ruolo basilare nello sviluppo dei congegni nucleari per ciascuno dei tre alleati della Seconda guerra mondiale, che poi sarebbero diventati i principali nemici nella Guerra Fredda; e fu lui ad aiutarli a creare le bombe

    H,

    ancor più potenti.

    Non fu soltanto la sua opera di fisico e matematico a contribuire alla situazione di stallo atomico. Furono la sua politica e la sua convinzione della necessità di agire a catalizzare la nascita dell’era nucleare. Un’era che, ovviamente, non è terminata, si è solamente trasformata. Klaus Fuchs è stato la spia più importante del

    XX

    secolo, la spia che ha cambiato il mondo.

    ¹ I servizi segreti dell’Unione Sovietica mutarono nome e organizzazione varie volte nel periodo che qui si tratta. Onde evitare complicazioni e inutili cambiamenti di acronimi, parlerò di

    OGPU

    prima del 1934, e mi riferirò all’

    NKGB

    dopo tale data. Il controspionaggio militare dell’

    URSS

    , cosiddetto

    GRU

    , era un’organizzazione distinta che rimase tale.

    1

    Trinity

    Alle 4:30 della fredda e scura mattina del 16 luglio 1945, Klaus Fuchs era tra la folla di scienziati e altri invitati sulla cima di un’altura detta Compania Hill, nel New Mexico. L’incongruo e mal assortito gruppo sulla collina si stava addensando dalle due, arrivavano con gli autobus dell’esercito, uscivano con gli arti intirizziti, tremavano dopo il tragitto notturno da Los Alamos. Sul luogo, volgevano lo sguardo verso una torretta lontana, illuminata dai fari bianchi dei proiettori. Una nottata di tempo pessimo, soffiavano venti a cinquanta chilometri all’ora, pioveva, e i lampi rendevano la tensione e l’incertezza di quel momento ancor più drammatiche.

    Fuchs era un uomo di trentaquattro anni dall’aspetto giovanile, sembrava un ragazzo, era snello, aveva il labbro inferiore pronunciato e una maniera interrogativa di fissare da dietro gli occhiali, come se volesse calcolatamente disarmare. Si accese una sigaretta e si guardò attorno, nel tentativo di riconoscere i volti nel buio. C’era il suo capo, Hans Bethe, direttore della Divisione teoretica, un brillante fisico, pure lui tedesco ed esule dal nazismo. Fuchs nutriva per lui un immenso rispetto, non solo per la sua intelligenza ma anche per la pazienza e la forza caratteriale. Poi riconobbe altre persone. C’era il suo amico e collega Rudolf Peierls, capo degli scienziati inglesi a Los Alamos, un ebreo berlinese con cui collaborava dal 1941, quando si erano trovati all’università di Birmingham. C’era l’ungherese Edward Teller, altro studioso di fisica teoretica di cui Fuchs stimava la forza mentale, che però era anche molto testardo e aveva un ego gigantesco. Scocciatosi di Bethe, Teller era uscito dalla Divisione teoretica, creando così spazio per Fuchs e Peierls, che avevano preso le mosse dal suo lavoro.

    Per essere presente, James Chadwick era giunto dalla lontana Washington. Già vincitore del premio Nobel, era il responsabile della missione scientifica britannica negli Stati Uniti, e quindi doveva gestire sia Fuchs sia Peierls. Faceva parte dell’aristocrazia dei fisici nucleari inglesi che avevano studiato sotto l’egida di giganti della materia come Hans Geiger e Ernst Rutherford: la sua scoperta della particella subatomica detta neutrone aveva spianato la strada all’evento per cui si erano riuniti in quella mattina.

    In cima alla torre, appena visibile dal fondo della vallata, a venticinque chilometri di distanza, c’era una capanna di lamiera ondulata, al cui interno si trovava una congerie di strani blocchi ad alta esplosività, modellati per formare una sfera del diametro di un metro e mezzo. Dentro questa forma globulare c’erano due pezzi di un metallo raro ed esotico, il plutonio, pure loro assemblati a mo’ di sfera, ma molto più piccoli, cioè con un diametro di quindici centimetri. Le due parti della sfera di plutonio erano ricoperte da un sottile strato di luccicanti oro e nichel. Il plutonio era talmente radioattivo da risultare caldo al tatto; uno scienziato disse che gli sembrava di tenere in mano un coniglietto appena nato. La sua esistenza era top secret e la sua formazione in questo piccolo ed elaborato manufatto, situato nella culla di un esplosivo devastante, era ciò per cui avevano faticato indefessamente i giovani scienziati sulla collina e le centinaia di persone nel campo base e nei bunker di servizio vicini alla torre.

    Fuchs non aveva un’idea precisa delle dimensioni dello sforzo compiuto, ma sapeva che il complicato macchinario di metallo esplosivo rappresentava l’apice del lavoro di migliaia di scienziati e ingegneri, tutti provenienti dalla gamma completa delle professioni e delle discipline della moderna società. Lui era strabiliato dalla velocità con cui succedevano le cose negli

    USA

    . Era venuto dalla Gran Bretagna bombardata e privata di energia elettrica, dove ogni cosa scarseggiava o veniva razionata, ed era difficile da fare. Qui, in America, c’era abbondanza alimentare, l’energia e le risorse apparivano illimitate.

    Insieme alle élite scientifiche di due continenti, gli operai nelle grandi miniere, nelle fabbriche e nei laboratori dell’intera America settentrionale avevano cooperato con inesauribile energia per produrre l’oggetto al riparo della pioggia e dei venti nella capanna di lamiera ondulata, in cima alla torretta. L’impresa era così segreta che Harry Truman, il presidente statunitense che aveva assunto la carica in maggio, dopo la morte del predecessore, Franklin D. Roosevelt, ne era venuto al corrente da poco. Eccolo lì, adesso, l’oggetto: dopo tante delusioni, dopo tutti i ritardi e gli errori di un programma scientifico e ingegneristico mai visto prima. Rimaneva una sola domanda: avrebbe funzionato?

    Gli scienziati attorno a Fuchs e agli altri nel campo base erano consapevoli di avere una responsabilità speciale in rapporto a tale domanda. Il congegno sulla torre era l’espressione finale della fisica nucleare, una scienza che non aveva neppure cinquant’anni. I lavori pionieristici sulla radiazione compiuti da Rutherford e Marie Curie avevano dato il via a un processo di sperimentazione che aveva rivelato la struttura degli atomi e delle particelle che li compongono. Questi esperimenti avevano inoltre dimostrato che il nucleo atomico poteva contenere un’energia enorme e che gli atomi di certi metalli radioattivi potevano sprigionarla in fretta. In quale precisa forma e con quanta rapidità erano gli interrogativi principali che avevano affaccendato Fuchs, Bethe e le decine di altri scienziati riuniti sulla Compania Hill. Il congegno sulla torre aveva quella forma e quelle dimensioni non perché un ingegnere aveva detto che si trattava del modo più facile per assemblarlo, ma piuttosto perché Fuchs e i colleghi della Divisione teoretica avevano calcolato la forma e le dimensioni indispensabili affinché esso sprigionasse l’energia negli atomi di plutonio, liberandoli tanto velocemente da farne conseguire una tremenda esplosione.

    Al momento della detonazione degli esplosivi che la rivestivano, la piccola sfera di plutonio si sarebbe compressa e le radiazioni sotto forma di neutroni sarebbero penetrate nel nucleo degli altri atomi e li avrebbero divisi. Ciò avrebbe liberato altri neutroni e reiterato questo processo, ma a una velocità tale da ricomprendere tutti gli atomi, il che avrebbe scatenato simultaneamente la loro energia. Secondo i calcoli degli scienziati, tutto ciò avrebbe creato un’orribile esplosione, così grande che il campo base non doveva situarsi a meno di dieci chilometri dalla torre.

    Tuttavia, erano stati già sollevati alcuni allarmanti dubbi circa l’esito del processo. Due giorni prima, era fallito un collaudo per la sfera degli esplosivi, che dovevano detonare in sincronia perfetta per creare un’onda d’urto uniforme.

    Bethe e gli altri della Divisione teoretica che avevano effettuato originariamente i calcoli avevano dedicato ore a verificare i risultati del test. Alla fine, capirono di non aver sbagliato, che l’errore risiedeva solo nella registrazione dei risultati. Perciò, la prova col congegno vero doveva essere portata avanti. Questo comunque non eliminava l’ansia. Se qualcuno degli scienziati o dei matematici si fosse dimostrato erroneo nei suoi calcoli e questo segretissimo e costosissimo campione di plutonio fosse stato sprecato, il generale Leslie Groves, direttore del programma atomico americano (Manhattan Project), non avrebbe esitato a punire il colpevole. La crocifissione sarebbe allora stata un’opzione preferibile.

    Molti scienziati sapevano che esisteva più di un modo per sbagliare e, negli ultimi giorni, erano scoppiate varie discussioni sull’intero progetto, che alcuni temevano si fosse trasformato in qualcosa che non avevano previsto, estranea all’impegno che avevano assunto. Gente come Peierls, Bethe, Fuchs e altri scienziati di primo piano erano scappati dai regimi fascisti che, negli anni Venti e all’inizio degli anni Trenta, si erano diffusi in Europa come la peste medievale. Gli atenei tedeschi erano la sede delle Facoltà di fisica teoretica più creative, e tutti sapevano che esistevano scienziati teutonici disposti a fare esperimenti per i nazisti. L’orribile possibilità secondo cui Hitler avrebbe potuto dotarsi di un’arma nucleare prima degli Alleati era stato l’incentivo per chiunque fosse coinvolto nel Manhattan Project. Ma ora le cose erano cambiate. Il Führer era morto e la Germania nazista si era arresa senza condizioni, nel precedente mese di maggio. In Europa, la guerra era finita, il fascismo era stato battuto. Nel Pacifico infuriava ancora il conflitto contro i giapponesi, ma le città nipponiche venivano rase al suolo dalle incursioni dei Boeing B-29, gli aerei per le operazioni a lunga distanza, e chiunque sapeva che era solo una questione di tempo prima di sconfiggere anche il Giappone. Perché allora si stavano proseguendo senza pause gli esperimenti con le armi atomiche?

    Leó Szilárd, un ungherese ormai naturalizzato cittadino americano, era stato il primo, nel 1933, a congetturare la possibile reazione a catena della fissione nucleare. Insieme all’italiano Enrico Fermi, aveva avanzato l’ipotesi di un reattore nucleare e, nel 1939, aveva inviato una lettera al presidente Roosevelt, cofirmata da Albert Einstein, per spronarlo ad autorizzare lo sviluppo di un qualche tipo di arma atomica.

    Ora si stava attivando e faceva pressioni per scongiurare l’uso di quest’arma. Aveva chiesto di incontrare Robert Oppenheimer, referente scientifico dell’intero Manhattan Project, e il generale Groves. Aveva cercato insistentemente Jimmy Byrnes, ex consigliere personale di Roosevelt, uno della cerchia ristretta del presidente. Szilárd si era persuaso che l’uso dell’atomica, o la sola dimostrazione della sua esistenza, avrebbe avviato una corsa incontrollabile agli armamenti. Ed era terrorizzato dall’idea che, adoperando l’ordigno contro il Giappone, il governo statunitense ritenesse di avere in mano uno strumento per trattare da posizione vantaggiosa con l’

    URSS

    a proposito della ripartizione dell’influenza mondiale nel dopoguerra.

    Altri scienziati reputavano che, invece di usarla contro il Giappone, si dovesse far deflagrare la bomba in un posto remoto, dimostrazione che avrebbe incoraggiato il governo giapponese a firmare la resa.

    Queste proteste di Szilárd e di altri vennero subito rifiutate. Com’era possibile non servirsi di quest’arma se ciò avrebbe accorciato di diversi mesi la guerra contro i nipponici? Quante vite avrebbe salvato, sia fra i ranghi dei soldati americani sia fra i civili giapponesi? La nazione aveva investito nel programma nucleare la somma enorme di due miliardi di dollari; ciò presupponeva che si ottenesse un risultato tangibile. Fioccavano le argomentazioni a favore o contro, ma alla fine emerse la verità; gli scienziati avevano sviluppato una nuova fonte di energia, la cui forza si doveva ancora testare, però non erano in grado di controllarla: sarebbero stati i politici e le gerarchie militari a decidere come e dove usarla.

    Mentre essi aspettavano nella fredda e grigia mattina del deserto del New Mexico, gran parte di questi dubbi erano però quasi fugati, nascosti nei recessi della loro mente. Adesso campeggiava solo una questione urgente: avrebbe funzionato?

    Avvicinandosi l’ora del test supremo, le conversazioni si attenuavano e cresceva la tensione. Stavolta doveva andare tutto bene. Il giorno antecedente, quando Bethe e altri avevano ricalcolato tutto per scoprire la ragione per cui erano fallite le prove con gli esplosivi, era sorta l’incertezza ulteriore della mancanza di un fattore o, peggio, il dubbio su un errore imperdonabile nell’equazione. Adesso Fuchs era sicuro dell’efficacia e del funzionamento. L’unica incertezza era incentrata sulla grandezza della deflagrazione, misurata in tonnellate di

    TNT

    (trinitrotoluene), che avrebbe prodotto il congegno.

    Dieci minuti prima della prevista detonazione era stato lanciato in aria un razzo segnaletico di colore verde e si era suonata nel campo base una sirena, che gli uomini sulla collina udirono alcuni secondi dopo. C’era grande aspettativa. Era stato detto a tutti di girare le spalle e ognuno aveva ricevuto occhiali da saldatore per proteggersi la vista. Ma più ci si avvicinava al momento e più si faceva irrefrenabile la curiosità di guardare, per cui alcuni presero all’ultimo istante la decisione di togliersi anche gli occhiali, o di uscire dalla loro auto, sfidando i raggi ultravioletti. Fu lanciato un altro razzo, cui seguì il fischio di un’ulteriore sirena, isolata e lancinante. Mancavano cinque minuti, e uomini abituati a eseguire calcoli in nanosecondi venivano colpiti dalla strana combinazione fra ansia ed eccitamento che crea un vuoto allo stomaco. Avrebbe funzionato? Cinque minuti che sembravano eterni.

    E poi il razzo che indicava l’inizio del conto alla rovescia per gli ultimi sessanta secondi. Edward Teller, che aveva abbandonato il lavoro sulla bomba al plutonio per sviluppare una bomba all’idrogeno potenzialmente più devastante, cominciò a spalmarsi sul viso un denso strato di lozione abbronzante e indossò guanti pesanti per proteggere le mani dal bagliore. Si sentì allora il gracchiare di una radio a onde corte che pronunciava gli ultimi secondi del conto alla rovescia.

    A circa trenta

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1