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Essere Sei
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E-book177 pagine2 ore

Essere Sei

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Info su questo ebook

Anche gli esseri inanimati hanno un’anima. Con il saggio “Il Mistero dell’Esistenza”, e i due romanzi “I Punti di Alef” e “L’uomo di Alef” l’autore ha già mostrato che in realtà, tra i 6 tipi di esseri che sostanziano tutto ciò che vediamo nel nostro universo, non ne esiste nessuno privo di anima. Questo nuovo romanzo completa quel racconto con una storia in cui il protagonista appartiene proprio ad una delle 2 sole categorie sconosciute di esseri del nostro universo: gli Esseri 6. Una storia avvincente che si snoda lungo bizzarri avvenimenti che Rossano e Rossana vivono inconsapevolmente. Per tutta la loro vita sono oggetto di segni che il destino suggerisce loro apparentemente senza un significato particolare. Ancora studenti universitari si incontrano per caso con un autostop. In vecchiaia condividono poi alcune loro strane esperienze con la curiosa nuora Marion e il loro figlio Michele, che riconoscono in quelle storie il segno di una scoperta sconvolgente e inaspettata. La predisposizione per la ricerca li aiuta a svelare il mistero e li proietta verso la conclusione che il destino ha voluto tracciare per loro in modo ragionato e convincente. Alla fine tutti si trovano di fronte alla rappresentazione razionale di quello che è il significato incontrovertibile dell’esistenza in se: quella che percepiamo nel nostro universo e quella nascosta ai nostri sensi. E’ proprio un Essere di tipo E6 che svolge il ruolo di freddo informatore dei quattro ricercatori.
LinguaItaliano
Data di uscita27 set 2016
ISBN9788822849892
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    Anteprima del libro

    Essere Sei - Mauro Bernardini

    Mauro Bernardini

    Essere Sei

    Mauro.bernardini.it@gmail.com

    Titolo originale

    Essere Sei

    © 2016 Mauro Bernardini

    C  A  P  I  T  O  L  O

    La scoperta

    Corre il 1965 e Rossano ha 12 anni. Abita in una delle case a riscatto a forma di parallelepipedo costruite negli anni ’50. Merito del ministro democristiano Amintore Fanfani che ha promosso e sostenuto questa importante iniziativa nazionale Ina-Casa per l’edilizia popolare del dopoguerra. Sono robuste, ben costruite in cemento armato e tutte pressoché identiche: quattro piani e tre vani scala ciascuna, per un totale di  24 piccoli alloggi.

    Non sono particolarmente belle dal punto di vista estetico, ma sono state una straordinaria opportunità per quella classe operaia a basso reddito che forse non avrebbe mai potuto permettersi una casa di proprietà. Sono costruzioni solide e funzionali, concesse ad un affitto concordato molto basso che, dopo parecchi anni, consente di ottenerne il riscatto totale, quasi gratuitamente.

    Sembrano tanti blocchetti di un gioco di costruzioni per bimbi sparsi sul pavimento. Alcune sono disposte ortogonalmente l’una all’altra, ma la maggior parte sono allineate in successione parallela ad una collinetta morenica molto verde e rocciosa che la gente chiama confidenzialmente: il monte. I prati che separano le case dal monte sono quasi tutti lasciati incolti. Solo alcuni di questi appezzamenti sono coltivati per la raccolta di fieno o di granoturco dai pochi contadini che ancora abitano nelle residuali cascine sparse poco distanti dal rione. Ormai quasi tutti i contadini hanno abbandonato i campi e lavorano in fabbrica. Ed ad Ivrea, o si lavora in Olivetti o in Châtillon. La prima costruisce macchine per scrivere d’avanguardia e la seconda opera nel settore delle tecnofibre per tessuti, principalmente per abbigliamento, ma non solo. Qualche vecchio contadino ritenuto non abile o personalmente contrario ad essere arruolato in fabbrica, col suo pesante carro trainato da un grosso cavallo, ancora frequenta quelle povere terre sparse ai piedi del monte. Molte di quelle proprietà sono però del comune e, per questo, sono lasciate alla mercé degli abitanti della zona. In un clima di anarchia totale i prati vengono occupati e brutalizzati da una pletora di orti abusivi che gli abitanti del posto fanno nascere in modo caotico e sregolato.

    Ogni tanto intervengono le draghe del comune per radere al suolo tutto. Trascorso poco tempo, la gente ricomincia però a ricostruire gli orti come prima e più di prima. C’è comunque molto verde che compensa quell’innocente caos nascosto sotto il monte. Quel creativo disordine sembra voler essere pudicamente preservato al di là dell’ultima fila di case che, felici e complici, lo nascondono alle vaste zone ordinate poste di fronte loro in un intreccio di stradine, prati e grandi alberi. Nella parte est, a linea di confine del rione c’è la grande strada statale che lo collega al vicino centro della città di Ivrea. Tutto è immerso nel verde dei prati costellati di siepi profumate, pini marittimi, alti larici, betulle e imponenti pioppi. In quelle numerose aree verdi e in parte sterrate per il calpestio frequente, orde di ragazzini di ogni età si danno appuntamento nel pomeriggio dopo la scuola, per giocare a tutto ciò che all’aperto è possibile fare. Partite improvvisare di pallone, gare con birille di vetro, gare di figurine, sfide di lancio con le fionde e  gli archi di legno costruiti con i frassini del bosco; il modellismo aereo artigianale, le battaglie con le cerbottane armate con proiettili di carta arrotolata a cono, e tanto tanto altro. I più piccolini stanno quasi sempre sui marciapiedi delle case con gli anziani che li osservava da vicino. Quelli più grandicelli si avventurano nei prati per giocare a rincorrersi e nascondersi nell’erba alta e colorata di margherite e fiori di campo d’ogni genere. Quello è il posto magico in cui per esempio ci si può divertire a cacciare per gioco le bellissime piccole libellule colorate che volteggiano numerosissime in loro compagnia tra gli alti fili d’erba alti quasi come gli stessi ragazzini.

    Normalmente, a gruppetti separati, quelli un pò più intraprendenti si divertono anche lungo le pendici del monte. Si nascondono tra le rocce per ingaggiare battaglie con le cerbottane, o per costruire piccole capanne con le frasche e qualche straccio vecchio preso di nascosto a casa. Alle volte l’incoscienza dell’infanzia li porta a sfidare anche le rocciose pareti della impervia collinetta. Lei è sempre li muta e presente ad osservare quasi invidiosa di non poter partecipare alla gioia innocente che vede ogni giorno respirare felice ai suoi piedi.

    Un giorno, Rossano si avventura da solo verso la cima del monte passando in quel tratto ripido e stretto che tutti chiamano: canalone. La ragione di quel nome sta nel fatto che quella striscia di vegetazione divide verticalmente in due la facciata rocciosa disegnando un piccolo  passaggio naturale percorribile a piedi tra gli arbusti e il pietrisco.

    Sale con fatica attraverso gli stretti anfratti aggrappandosi alle radici sporgenti incastonate tra le rocce. Quand’è a circa tre quarti della cima, appoggiando le mani per spostarsi da un piccolo gradino di terra  alla roccia sporgente superiore, si accorge che, proprio sotto un grosso ciuffo d’erba sotto la roccia, esce uno sbuffo d’aria. Mette la mano per sentire quello strano respiro della montagna, ma non gli da molto peso pensando che sia l’ingresso di una tana di un piccolo animale. Quindi supera quel punto e, aggrappandosi alla roccia, con un pò di fatica, prosegue fino ad arrivare dove si sente  più sicuro.

    Appena raggiunge lo stretto ripiano, rimane li seduto qualche minuto sulla parte di pietra liscia scaldata dal sole. Nelle crepe tutto intorno vede numerosi piccoli fichi d’india selvatici con l’invitante frutto violaceo. Da quel punto può ammirare il panorama che traguarda fino all’orizzonte. Si possono osservare tutte le case del suo quartiere, a partire dalla sua che è proprio li sotto, fino alla pianura abitata che si estende verso est.  Non resta molto in quel punto decisamente poco rassicurante per un ragazzino della sua età. Decide quindi di scendere. Quando fa il primo movimento per affrontare la roccia in discesa, si rende conto che la salita, a mani nude, è sempre più semplice della discesa. Deve comunque tornare giù. Si fa forza e un pò spaventato, si lascia scivolare di fondo schiena su quelle pietre lisce che, viste dall’alto in basso, non mostrano appigli ben visibili e sicuri. Finché, fortunatamente riesce a riportarsi sullo stesso passaggio usato per salire. Riattraversa il punto con lo sbuffo d’aria scoperto in precedenza e, contento per l’impresa ma decisamente spaventato, scende a valle accelerando sempre più il passo. In poco tempo si ritrova a correre tra l’erba alta che separa il monte da casa sua, ripetendosi tra se e se:

    «Cavolacci! l’ho vista proprio brutta lassù! Non so ce ci ritorno un’altra volta»

    Quella sera incontra come sempre il suo caro amico Antonio con cui condivide la passione di cantare e suonare la chitarra.

    Decidono di andare a suonare in cantina dell’amico con le sole chitarre acustiche. Domani proveranno poi gli stessi pezzi anche con l’altro loro amico, Carlo, che, da qualche tempo, riesce a farsi prestare la batteria dal generoso anziano batterista dell’Oratorio.

    Carlo è riuscito a conquistarsi questa formidabile facilitazione, frequentando con Rossano e Antonio l’oratorio annesso alla chiesa del Sacro Cuore del loro quartiere.

    E’ un grande salone con un bel palco spazioso e attrezzato in cui periodicamente si tengono spettacolini di ogni genere. Alle volte  si esibiscono giovani e meno giovani in performance canore accompagnate da un complessino formato da signori adulti, che, per loro, sono decisamente anziani.

    Carlo, che, ama le percussioni, durante le prove si siede sempre vicino al batterista che, ai piedi del palco, suona con gli altri due componenti del gruppo: uno con chitarra jazz e l’altro con un pianoforte verticale nero della chiesa. Il batterista, col tempo, ha preso in simpatia il nostro amico, sempre al suo fianco, attento ad osservarlo per carpirgli ogni segreto e movimento. E, un pò per gratitudine, ma soprattutto perché Carlo gli ha dimostrato il suo innegabile talento sullo strumento, senza avere mai provato prima una batteria, da qualche tempo lo fa suonare al suo posto nelle prove di brani semplici. Finché una sera, durante uno spettacolo ufficiale, gli lascia il posto per accompagnare due pezzi facili.

    Da quel momento Carlo, è diventato un batterista. Purtroppo ancora senza batteria. Per questa ragione ogni tanto il generoso musicista gliela presta per suonare coi suoi due amici: Rossano e Antonio.

    I tre vogliono provare a preparare alcuni pezzi pop che vanno per la maggiore quell’anno. Hanno solo due chitarre acustiche e la batteria in prestito saltuario. Utilizzano solo un piccolo registratore a nastro Geloso di Rossano su cui hanno memorizzato le canzoni trasmesse da una radio locale.

    Quella sera, mentre provano e si divertono a suonare e cantare, Rossano racconta ad Antonio la sua piccola avventura pomeridiana sul monte.

    «Antonio, io credo che quel buco sia l’ingresso di una tana. Mi piacerebbe tanto andare con una torcia per capire se si riesce a vedere dentro. Tu ci verresti con me domani?», chiede all’amico che lo sta ascoltando con in mano la chitarra.

    «Perché no, domani possiamo andarci. Io posso prendere la torcia di mio padre. Speriamo di non trovarci dentro qualche animale, però!», risponde Antonio evidentemente timoroso per l’esisto dell’iniziativa ormai accettata.

    Rossano, per tranquillizzarlo e forse per fare forza anche a se stesso, gli dice ridendo:

    «Ci procuriamo un lungo bastone e, prima di avvicinarci con la torcia, lo infiliamo dentro il buco e cantiamo questo pezzo. Se dentro c’è qualcuno esce di sicuro».

    «Si», dice Antonio ridendo,

    «adesso però finiamo, altrimenti con Carlo non possiamo provare tutti e due i pezzi. Lui ha la batteria solo per domani sera, poi deve restituirla».

    C  A  P  I  T  O  L  O

    La canzone

    Il giorno seguente Antonio e Rossano, che abitano nella stessa casa - Rossano all’ultimo piano della scala a nord e Antonio al piano terra della scala a sud - si incontrano  intorno alle 10 del mattino. E’ sabato e c’è un bel sole caldo di Giugno inoltrato. Antonio ha la torcia e Rossano si è attrezzato con una piccola accetta e una lunga corda da scalata di almeno 50 metri. Era rimasta in cantina da quando il fratello più grande aveva abbandonato la sua precedente passione per le arrampicate in roccia.

    Si avviano e si incamminano nel prato dietro casa in direzione del canalone che si vede proprio di fronte a loro, solo alzando gli occhi. Si arrampicano come due cavallette e poco dopo raggiungono il punto della tana.  Rossano prende l’accetta e taglia una piantina di frassino sottile che sporge poco sotto quel piccolo ripiano di terra da cui esce il soffio d’aria. La impugna e, rivolto all’amico gli dice:

    «stai dietro quella roccia: se esce un animale potrebbe saltarti addosso per lo spavento»

    Appena Antonio fa due passi di lato, Rossano infila il lungo legno nel piccolo buco ansimante. Anche lui si tiene pronto a spostarsi, nel caso dovesse spuntare qualcosa. Fortunatamente per ora non succede niente. Allora spinge sempre più in profondità la piantina fino a tenerla solo dai rametti più sottili con le foglie. Poi, con le mani dentro il buco, si gira verso Antonio, che sta sempre nascosto sbirciando da dietro la roccia, e gli dice:

    «E’ profondissima, sembra proprio che li dentro sia tutto vuoto»

    Quel piccolo frassino era alto almeno tre metri ma non sembrava trovare impedimenti ad ogni movimento che Rossano gli imprimeva  in tutte le direzioni.

    «Antonio, prendi la torcia cosi proviamo a guardare dentro», dice Rossano sfilando la piantina e prendendo l’ascia che si era portato appresso.

    Inizia a tagliare le radici che ostruiscono il passaggio, e con le mani e l’ascia toglie terra e pietrisco. Anche Antonio lo aiuta e, in circa mezzora, il buco è sufficientemente largo da infilarci la testa e le braccia. 

    «Antonio passami la torcia così proviamo a guardare dentro che c’è»

    l’amico gliela porge e Rossano, un pò titubante, si appiattisce più che può, prende un bel respiro si infila dentro fino alle spalle.

    La torcia era veramente luminosa. Quel piccolo anfratto che Rossano si aspettava fosse un pò più profondo della piantina usata per sondarlo, si presenta invece di dimensioni impensabili. Vede la luce che si infila in profondità illuminando pareti lontane e spaventosamente alte. Appena si rende conto di quello che sta effettivamente osservando si ritrae di scatto e, dando la torcia all’amico,  gli dice:

    «Non crederai ai tuoi occhi. Non è una  grossa tana, per me è una enorme caverna. Fa paura, guarda anche tu!»

    Rossano si sfila per lasciare posto all’amico che, con calma entra come un verme a guardare il misterioso anfratto. Anche lui, dopo una frazione di secondo, esce bianco in volto, dicendo, con le mani ancora tremanti:

    «Cavolacci! Forse è meglio se ci teniamo lontano da sto posto. Io non voglio più saperne»

    «hai ragione, torniamo giù che è meglio», aggiunge lui.

    Da quel giorno non tornarono mai più in quel punto del  monte: troppo misterioso e troppo spaventoso per due

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