Te vojo ariccontà
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Anteprima del libro
Te vojo ariccontà - Gaudenzio Vannozzi
978-88-9369-040-9
Prefazione
Esistono ancora i genitori che raccontano le favole ai figli ?
Forse sì. Anzi, spero di sì perché sono i migliori.
Ascoltare favole e storie sin da bambino sviluppa la capacità cognitiva ma, soprattutto, sviluppa la fantasia. E la fantasia, secondo me, è la dote migliore che un essere umano possa avere, anzi è l’arma migliore di cui possa disporre. Per questo, e non solo, ringrazio mia madre.
Ringrazio anche un antico professore di lettere che, a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, mi spronava, lui napoletano, a scrivere nel mio dialetto: il romanesco.
Grazie, Professor Tullio.
Un grazie anche a Maëliss Gestin per la splendida foto fatta a mia madre, che ho voluto utilizzare come immagine di copertina.
Per finire, i quindici racconti (anticipati da uno stornello) sono scritti in dialetto romanesco, ma attualizzato. Mi scusino i puristi, ma ormai il romanesco del grande Belli, dopo quasi due secoli, non sarebbe compreso da nessuno.
Gaudenzio Vannozzi
...Alla renella
più cresce er fiume e più legna viè a galla.
Più v’arimiro e più ve fate bella...
(Anonimo del XVIII secolo)
Introduzione
Francesco è il suo nome e studia psicologia.
Tutti i santi giorni Francesco prende un autobus dell’Atac, la linea bus di Roma, e prende sempre la stessa linea, quella che collega il laghetto dell’Eur alla stazione Termini. Scende a Termini, poi raggiunge a piedi la facoltà di psicologia a San Lorenzo. Francesco ha una Bmw Cabrio regalatagli dal padre, ma per andare in Facoltà preferisce il bus. Francesco ama stare in mezzo alla gente.
Inoltre, studia psicologia in maniera appassionata, ma soprattutto si diverte un mondo, durante il tragitto in autobus, nel tentare di abbinare storie ai visi e ai corpi delle persone che lo accompagnano durante il viaggio.
La linea che prende Francesco ha una particolarità: unisce, nel suo viaggio, le varie anime della città. Parte dall’Eur, passa per la Montagnola, poi rasenta Tormarancio e Garbatella. Terminata la Colombo, taglia Piazza Numa Pompilio, passa sotto casa di Alberto Sordi (e Francesco è convinto che se suonasse al citofono gli risponderebbe ancora Albertone), attraversa Piazza San Giovanni e poi giù per Via Merulana. A Santa Maria Maggiore svolta a destra e arriva a Termini.
Francesco spesso si trova a pensare che in quei pochi chilometri, e secondo la zona, lo potrebbero chiamare Franco o Frà, o più probabilmente Checco. E lui, seppur figlio di un alto funzionario statale, durante il viaggio si sente Checco e, giocando con gli studi che sta facendo, ha inventato storie legate ai passeggeri abituali del suo bus. Alcune le immagina e basta, altre (come quelle di Benedetto, Stefano e Carlo) finge che gli vengano raccontate dai passeggeri stessi. E queste storie le inventa da Checco, cioè da romano autentico. Perché, al di là di ogni censo d’appartenenza, chi è veramente romano pensa da romano, sente le cose da romano, ma soprattutto ama le storie come solo un romano vero sa amare...
...Fiore de noce
si sta regazza a te propio te piace,
ce devi mette ‘n po’ de faccia e voce...
Erbetta
Se chiamava Erbetta. Anzi, cusì lo chiamaveno, perché stava sempre dappertutto. Come l’erbetta, che poi da noi se chiama erbetta er prezzemolo. L’erbetta indove la metti ce sta bene. Accusì era lui. Stava ovunque.
Erbetta se occupava de li servizzi quotidiani che l’artri abbitanti der rione nun riusciveno, nun poteveno o nun voleveno fà. Cèra da portà a spasso er cane? ce penzava Erbetta. Er micio a casa stava da solo er fine settimana? Che probrema cèra? ce penzava lui! La matina,