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Cienfuegos: Un mondo nuovo
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Cienfuegos: Un mondo nuovo
E-book272 pagine3 ore

Cienfuegos: Un mondo nuovo

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Info su questo ebook

Cienfuegos – Un mondo nuovo
Dopo l'ottimo successo nel mondo di lingua spagnola, Cienfuegos di Alberto Vázquez-Figueroa viene pubblicato anche in Italia da Logus Editore.

Un uomo può arrivare a fare cose incredibili per amore. Non è una novità.
Ma il giovanissimo Cienfuegos non poteva immaginare che l’amore lo avrebbe portato a bordo della Santa María, una delle tre caravelle dell’ammiraglio Cristoforo Colombo dirette verso il mitico Kubla Khan, la fonte dell’oro. Un pastore dell’isola della Gomera, cresciuto in compagnia delle montagne, dei ruscelli e della natura incontaminata, di colpo catapultato in un mondo a lui del tutto alieno e popolato da persone sudicie, miserabili e meschine.

La scoperta di un nuovo mondo attraverso gli occhi innocenti di un ragazzo che sfidò il destino e divenne un uomo, nel tentativo di tornare tra le braccia della sua amata.

Dalla penna di Alberto Vázquez-Figueroa, Cienfuegos è un romanzo intriso di storia, passione e avventura, che vi lascerà col fiato sospeso fino all’ultima riga.
LinguaItaliano
Data di uscita24 nov 2016
ISBN9788898062805
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    Anteprima del libro

    Cienfuegos - Alberto Vázquez Figueroa

    Cienfuegos

    Un mondo nuovo

    Di Alberto Vázquez-Figueroa

    Edizione digitale © 2016

    Collana: Americhe

    Edizioni

    Logus mondi interattivi

    Traduzione: Silvia Cremascoli

    eBook design e cover: Pier Luigi Lai - Logus mondi interattivi

    info@logus.it - www.logus.it

    © Tutti i diritti riservati.

    Vietata la riproduzione, anche parziale.

    ISBN: 9788898062782

    Alberto Vázquez-Figueroa

    Cienfuegos

    UN MONDO NUOVO

    * * *

    Edizioni

    Logus mondi interattivi

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Cienfuegos

    Cienfuegos

    PREMESSA

    INFANZIA

    ADOLESCENZA

    MATURITÀ

    FAMIGLIA

    Note

    Biografia

    Alberto Vázquez-Figueroa

    A Iche:

    l’unica donna che conosco in grado

    di dare sempre tutto senza

    chiedere nulla in cambio

    PREMESSA

    Probabilmente, se dovessimo definire l’opera di Alberto Vázquez-Figueroa diremmo che è immaginazione pura.

    Le sue storie sono avventura, divertimento e insidia. Tra i suoi lettori c’è gente di ogni tipo, di ogni strato sociale, culturale e professionale. È uno di quegli scrittori che tutti possono leggere e apprezzare.

    La letteratura di Vázquez-Figueroa è piena di peripezie, di idee e di storia, e tutto questo riecheggia nella mente del lettore quando finisce un suo libro. L’autore riesce a creare una memoria peculiare in quelli che lo seguono nei suoi viaggi letterari.

    È un po’ ciò che sostiene Robert Louis Stevenson:

    la lettura deve assorbirci, è un processo voluttuoso […]

    ci dobbiamo dimenticare di noi stessi,

    e finire il libro con la testa piena del più confuso

    e caleidoscopico ballo di immagini, incapaci di dormire […]¹

    L’opera di Vázquez-Figueroa è una rivendicazione per quel tipo di letteratura che molte volte è stata definita superficiale, di svago, giovanile. D’altronde, proprio i libri di Stevenson, Dumas, Conrad, London, Verne, da cui l’autore prende spunto, sono stati capaci di formare generazioni di lettori capaci di ritrovare nel loro futuro quegli universi nuovi e sconosciuti delle pagine della loro infanzia.

    Vázquez-Figueroa mantiene lo stesso stile in ogni sua opera: tutto è subordinato all’azione dei personaggi, alla loro descrizione e alle loro parole. In questo modo tutto è immediatamente chiaro per il lettore: può immaginare tutto senza problemi… Le parole si diluiscono, quasi scompaiono per lasciare spazio a immagini, azioni e dialoghi.

    E la Storia? L’autore ricrea liberamente, ed è un passaggio fondamentale per tutti i romanzi storici e di avventura di Vázquez-Figueroa. Come per Dumas, i personaggi storici, siano essi più o meno importanti, non sono più di uno strumento per sviluppare una storia intrigante.

    La Storia diventa uno strumento per sedurre il lettore.

    29 luglio 2016

    Roberta Botta

    PARTE PRIMA

    INFANZIA

    Non ebbe mai un nome di battesimo.

    Da quando ne aveva ricordo – e la sua memoria si limitava a boschi, dirupi, solitudine e capre di montagna –, tutti l’avevano sempre chiamato con il soprannome di Cienfuegos e non aveva mai saputo con certezza se quel nome derivasse dal cognome della madre, o dal colore dei capelli, o se fosse semplicemente un soprannome dai motivi ignoti.

    Parlava poco.

    Le sue conversazioni più profonde non erano mai fatte di parole, ma di suoni, fischi prolungati e cadenzati appartenenti a un linguaggio proprio ed esclusivo dei pastori e dei contadini dell’isola, utilizzato per comunicare da montagna a montagna; in confronto alla semplice voce umana, era senza dubbio la forma d’espressione più logica e pratica in quella natura selvaggia.

    In un mattino fresco e tranquillo, in cui i suoni riecheggianti da una parte all’altra sulle pareti di roccia sembravano attraversare con dolce soavità l’aria umida e pulita, Cienfuegos era in grado di instaurare una conversazione perfettamente chiara con lo zoppo Bonifacio, che da fondovalle lo metteva solitamente al corrente delle informazioni sul villaggio trasmessegli a sua volta dal cugino Celso, il Chierichetto.

    Venne così a sapere che il vecchio Padrone stava per ricevere l’estrema unzione e intraprendere il Camino de Chipudes, il che significava che presto nuovi signori sarebbero arrivati alla Casona; senz’ombra di dubbio la prima vera novità degna di considerazione nei suoi pochissimi anni di esistenza.

    Nessuno sapeva quanti anni avesse.

    Non era possibile in alcun modo saperlo, dato che nessuno si era preso la briga di registrare il giorno o l’anno in cui era venuto al mondo, e nonostante il suo corpo, robusto e muscoloso, fosse già quello di un giovanotto fatto e finito, il viso, la voce e la mentalità erano invece quelli di un adolescente che non voleva ancora abbandonare il difficile e affascinante mondo dell’infanzia.

    Non ebbe neanche un’infanzia.

    I suoi giochi consistevano solamente in lanciare pietre e fare il bagno negli stagni, sempre in solitudine, mentre i suoi unici affetti erano alcuni uccelli, un vecchio cane e capretti che alla fine crescendo diventavano bestie noiose, sgradite e astiose.

    Sembra che la madre fosse una capraia molto più selvaggia e maleodorante delle stesse bestie di cui si occupava, e il padre quel Padrone che ora si trovava quasi nel braccio della morte e sarebbe andato nella tomba senza ammettere di aver lasciato sull’isola più di trenta figli bastardi dai capelli rossicci.

    La bella chioma a metà tra il biondo e il ramato, che gli ricadeva liberamente sulla schiena, rappresentava senz’ombra di dubbio l’unica eredità visibile lasciatagli dal genitore; un’eredità che condivideva con un’altra dozzina di ragazzini nelle vicinanze, prova vivente degli incontenibili appetiti sessuali e dell’innegabile fascino del signore della Casona.

    Non sapeva leggere.

    Dato che a malapena parlava, la lettura gli sarebbe servita a poco, considerato che la maggior parte delle parole gli era del tutto sconosciuta, ma non c’era nessuno, invece, su quell’isola che conoscesse meglio i suoi segreti, che ne sapesse di più sulla natura e i suoi continui cambiamenti, o che fosse capace di lanciarsi con più decisione tra le falesie e i dirupi, saltando i precipizi aiutato solo da un coraggio che rasentava l’incoscienza e una lunga pertica che usava per superare vani larghi fino a dodici metri o per lasciarsi scivolare, in modo da scendere in pochi minuti da un faraglione scosceso e irregolare.

    Aveva caratteristiche un po’ da capra, un po’ da scimmia e un po’ da gheppio, perché a volte riusciva incredibilmente a rimanere in equilibrio su una semplice sporgenza rocciosa a metà di un baratro e si sarebbe potuto credere che a un certo punto, nel saltellare da una roccia a quella di fronte, rimanesse sospeso e sostenuto in aria, come se la sua profonda ignoranza gli impedisse di accettare che esistevano sin dall’antichità leggi rigide e inamovibili sulla gravitazione dei corpi.

    Non mangiava quasi nulla.

    Gli erano sufficienti alcuni sorsi di latte, un po’ di formaggio e i frutti selvatici che trovava sul suo cammino, ed era senza dubbio un vero e proprio miracolo della sopravvivenza, dato che solo la mano di Dio avrebbe potuto attribuirsi il merito di averlo fatto crescere forte e sano nei lunghi anni in cui aveva vissuto praticamente da solo nel cuore delle montagne.

    Si sentiva felice.

    Non conoscendo altro che quella vita di perenne libertà, in cui non doveva neanche dipendere da un luogo che potesse considerare come alloggio permanente, vagabondava a suo piacimento dietro al bestiame senza rendere conto a nessuno delle sue azioni, se non a se stesso o al fattore vecchio e indifferente che due volte all’anno saliva a controllare che gli animali continuassero a incrementare il patrimonio del suo padrone.

    In realtà, non interessava molto a nessuno di quelle bestie, che costituivano solo uno dei tanti greggi sparsi per i dirupi nelle vicinanze, greggi che divenivano semplici numeri al momento di determinare il valore di una proprietà che negli ultimi tempi aveva molti più interessi nel mare e nel florido commercio con la metropoli, piuttosto che nella coltivazione dei terreni o nello sfruttamento razionale di carne e latte.

    Seduto in cima alla falesia, con le gambe che ondeggiavano su un baratro che avrebbe ritorto lo stomaco a chiunque dalle vertigini, il ragazzo osservava spesso il porto in lontananza o le grandi navi ormeggiate nella baia, chiedendosi cosa diamine potessero contenere i fusti e le balle che calavano a terra e a chi diavolo potessero servire tante cose assurde.

    Nei primi tredici anni della sua vita, Cienfuegos si limitò, quindi, a essere lontano spettatore di una vita che andava sviluppandosi con particolare monotonia a fondovalle o nella baia, senza mai dimostrare il benché minimo interesse nel prendervi parte, dato che le poche volte in cui aveva osato osservarla da vicino, era giunto alla dolorosa conclusione che si trovava molto più a suo agio tra le capre.

    La prima volta che visitò il villaggio, un prete lo rincorse con l’infausto proposito di battezzarlo e di dargli un nome, ma la sola idea che gli bagnassero la testa con l’acqua benedetta mentre pronunciavano parole oscure gli fece pensare che fosse roba da stregoni, al che optò per la soluzione più semplice, ossia afferrare la sua pertica, fare un salto fin sul tetto della chiesa e da lì saltellare verso una roccia vicina, cosa che lo portò subito sul suo terreno di gioco e gli permise di fare ritorno senza problemi alle sue tranquille gole e montagne.

    Anni più tardi, su richiesta dello zoppo Bonifacio, decise di scendere di nuovo in paese per fare rimbombare i tamburi durante la festa del santo patrono e anche se quel giorno il prete era troppo occupato per gironzolargli dietro, ebbe lo stesso la sfortuna di imbattersi in una viuzza solitaria nella vedova Dorotea, una donnona enorme e baffuta che si ostinò ad assicurargli che era stata amica di sua madre e perciò non poteva accettare che il figlio di una persona di cui conservava ricordi tanto piacevoli dormisse all’aria aperta.

    Entrare in una casa fu un’esperienza traumatizzante per il giovane pastore dai capelli rossi, dato che appena la porta si chiuse alle sue spalle si sentì come se l’avessero seppellito vivo, fu invaso da una profonda angoscia ed ebbe l’impressione che respirare liberamente gli costasse uno sforzo enorme.

    Come se non bastasse, l’invadente cicciona si mise in testa l’assurda idea che lui puzzava di letame e di caprone, ignorando i suoi stessi fetori e il sudore che le scendeva dalla fronte e le inumidiva il baffo, finendo quindi col metterlo in una bacinella d’acqua tiepida per strofinarlo con insistenza mentre lo insaponava scrupolosamente, fino a farlo risplendere e odorare di lavanda.

    Poco dopo accadde il fatto più assurdo e incredibile di cui il povero ragazzo avesse mai avuto notizia, visto che sebbene non avesse mai sentito parlare di cristiani antropofagi, avendo sempre creduto che fosse un’abitudine tipica dei selvaggi africani, la vedova Dorotea dimostrò la sua smisurata passione per la carne umana lanciandosi con ansia sulle sue cosce, apparentemente decisa a divorarlo vivo a cominciare dalle sue parti più delicate ed accessibili.

    Con un urlo di terrore l’impaurito Cienfuegos fece un salto, rischiando di lasciarle un pezzo di prepuzio tra i denti, e buttandosi di testa dalla finestra cadde in tutta la sua lunghezza in mezzo al porcile, rovinando all’istante lo sforzo del bagno e correndo il rischio che un enorme maiale finisse il lavoro iniziato dalla grassona.

    Fuggì dal paese nudo, spaventato e con addosso puzza di merda, giurando a se stesso che non sarebbe mai più sceso dalle sue montagne, visto che il mondo delle valli e della costa gli era sembrato un luogo folle e oscuro, di cui si rifiutava di comprendere le regole di comportamento da quello stesso momento.

    Perciò, quando in un piovoso mattino di maggio il fedele Bonifacio gli chiese di presenziare al funerale del signore della Casona, che aveva deciso di intraprendere – decisamente controvoglia – il finale Camino de Chipudes, per la prima volta nella sua vita fece orecchie da mercante e si limitò a osservare dalla chioma di un palmizio, che protendeva pericolosamente verso il vuoto, il lungo corteo funebre perdersi in lontananza.

    Il nuovo signore della tenuta ci impiegò quasi tre mesi a prendere definitivamente residenza alla Casona, poiché nonostante l’avesse seminata di bastardi, il defunto non aveva lasciato alcun erede legittimo sull’isola e toccò a un nipote, giunto da terre molto lontane e dunque estraneo alle usanze locali, prendere possesso della splendida valle, dei monti circostanti, dei fitti boschi e delle centinaia di capre, maiali e pecore che pascolavano liberamente in lungo e in largo per quell’orografia tormentata, la più accidentata che si potesse trovare sulla superficie del pianeta.

    Il nuovo signore, visconte di Teguise, portò con sé la sua neosposa; una splendida tedesca dalla lunga chioma e incapace di pronunciare una sola parola corretta di castigliano, ma in possesso di un fascino particolare, di una dolcezza squisita e fortemente incline alla contemplazione della natura, a cui dimostrava un attaccamento speciale. Sembrò essere, quindi, sin da subito estremamente felice sulla splendida isola.

    Di mattina la giovane viscontessa era solita lasciare molto presto il massiccio casermone; talvolta a piedi, talvolta in groppa a una nervosa cavalla nera, si addentrava nei sentieri più intricati delle valli, si arrampicava sulle fiere torri o si perdeva di proposito nei fitti e rumorosi boschi alla ricerca delle poche vestigia, ancora rimaste, delle primitive abitazioni aborigene.

    Inevitabilmente accadde che in un caldo mezzogiorno di giugno, dopo una lunga e faticosa cavalcata, decise di concedersi un bagno ristoratore nella laguna più bella e remota, e dopo aver trascorso quasi un’ora a sonnecchiare sotto il sole tiepido che asciugava con dolcezza la sua pelle bianca color madreperla, socchiuse gli occhi e scoprì, con sua sorpresa, la meravigliosa figura maschile che stava per entrare in acqua a circa dieci metri di distanza da lei.

    Osservò timidamente attraverso la fitta boscaglia e si meravigliò della bellezza di quell’uomo-bambino dagli occhi verdi, la lunga chioma rossiccia, il petto erculeo, le gambe d’acciaio e qualcosa di sbalorditivo che in principio gli sembrò come aggiunto per capriccio e senza alcuna ragione se non quella di attirare il suo sguardo e lasciare che rimanesse lì, affascinata e ipnotizzata da un incredibile prodigio inimmaginabile da chi nella sua vita aveva visto il corpo nudo di soli tre uomini.

    «Mein Gott!».

    Agitò ripetutamente la testa, come per scacciare una visione probabilmente frutto di un’indigestione causata dalle innumerevoli more che aveva colto più e più volte durante il cammino, ma l’inquietante apparizione rimase con ostinazione davanti ai suoi occhi, entrò in acqua e iniziò a nuotare con gesti tanto placidi e armoniosi da sembrare un sogno.

    Quando arrivò a meno di tre metri di distanza, Cienfuegos alzò il viso e le sorrise in modo del tutto naturale, come se fosse una cosa normale e ordinaria trovare una bellissima bionda nuda nel bel mezzo del bosco.

    Si sedette al suo fianco; lei protese la mano e lo sfiorò al solo scopo di accertarsi che fosse fatto di carne e ossa. Lui imitò il suo gesto e in seguito il dito della donna scese lungo il mento deciso, l’ampio petto e il ventre duro, per scivolare, infine, per un tempo che le sembrò infinitamente lungo e imbarazzante su quella parte del corpo che all’inizio aveva suscitato la sua esclamazione di stupore e ora, osservandolo più da vicino, la obbligava a inghiottire con forza la saliva per inumidire di continuo e soavemente le labbra.

    Tornata alla Casona, la viscontessa si chiuse nella sua camera da letto con la scusa di un terribile mal di testa e passò la notte in bianco a rimembrare mille volte l’infinità di meravigliose sensazioni che aveva provato durante le ore più splendide che si potessero immaginare.

    Non era sufficiente dire che aveva iniziato un bambino, che era al tempo stesso l’uomo più uomo che mai avrebbe potuto sognare, perché di certo era stata lei, nonostante i suoi ventiquattro anni di età e sei di esperienza, a essere realmente iniziata quel pomeriggio e a dover scoprire quanto in profondità si nascondessero i segreti del piacere e con quale incredibile e inesperta maestria erano stati destati da quella silenziosa creatura il cui solo sorriso valeva più di un milione di parole.

    Chi era e da dove era uscito?

    Non si erano nemmeno presentati, avendo condiviso nulla più che sospiri e carezze, e anche se non era riuscita a trattenersi dal pronunciare frasi appassionate nei momenti più intensi, era chiaro che il ragazzo non ne avesse compreso appieno il significato; nel profondo della sua anima, Ingrid Grass, signora della Casona e viscontessa di Teguise in seguito al matrimonio col capitano León de Luna, era sentitamente grata che il suo giovanissimo amante non conoscesse una sola parola di tedesco, il che le permetteva di dare briglia sciolta a tutte le sue più intime brame e sussurrargli all’orecchio le espressioni più passionali che le venissero in mente.

    Quella notte, con gli occhi fissi sul soffitto, cercò il suo viso in ogni trave e ombratura e sentì la mancanza del dolce odore della sua pelle da bambino cresciuto, del peso del suo corpo, del tocco delle sue mani e della lieve ansima di piacere sul suo collo.

    Invocò il sole in suo aiuto, pregandolo di venire a mostrarle i sentieri del bosco, e odiò le lunghe ore che precedevano l’alba; diede mille nomi assurdi al suo amato, si vestì nervosamente nell’oscurità e non appena intravide il primo accenno di luce sul mare addormentato in cui si specchiava, lasciò furtivamente il casermone e corse a cercare la laguna dei suoi sogni.

    All’inizio di agosto si verificarono i miracoli.

    Lo zoppo Bonifacio iniziò a camminare in modo sempre più retto, e anche se per un certo tempo si sforzò di tenerlo per sé, nel breve confessò al cugino Celso che durante alcune notti di luna gli appariva una vergine che lo obbligava a seguirla a passo svelto per i sentieri di montagna, affinché la sua gamba atrofizzata recuperasse il vigore perduto.

    Il chierichetto si mostrò scettico, adducendo che se la vergine avesse voluto fare un miracolo, non c’era motivo di ricorrere a esercizi di riabilitazione tanto faticosi; tuttavia, poiché casualmente soffriva sin da bambino di un lieve balbettio che lo rendeva bersaglio di ripetute burle, decise di accompagnare lo zoppo nelle sue scorribande notturne con la speranza di poter correggere allo stesso modo il suo difetto, magari parlando a lungo con la bizzarra apparizione.

    Trascorsero quattro notti in bianco e nell’umidità notturna senza risultati, ma alla quinta, quando ormai iniziava a diffidare delle fantasie del cugino, Celso la vide apparire come dal nulla, avvolta in una lunga tunica e con i capelli mossi dal vento, illuminata in modo fantasmagorico da una luna crescente che giocava a comparire e sparire tra le nuvole.

    Voleva dirle qualcosa, ma la sua balbuzie peggiorò a tal punto che neanche il suono più lieve riuscì a uscire dalle sue labbra, così si limitò a rimanere lì attonito, talmente spaventato che solo dieci minuti più tardi, per via dell’umidità dei pantaloni, si accorse di aver urinato.

    Quindi, corse in silenzio dietro allo zoppo, che ora sembrava avere le ali ai piedi, ma nonostante tutti i suoi sforzi la prodigiosa apparizione si dileguò nell’aria nel momento esatto in cui sopraggiunse una nuvola e risultò inutile ispezionare assieme gli intricati sentieri del bosco, essendo chiaro che la signora celestiale aveva deciso di tornare al luogo da cui era venuta.

    Giurò di non raccontare nulla a nessuno, ma quando, tre giorni più tardi, il prete rimase sorpreso del fatto che per tutta una dettagliata confessione non avesse balbettato neanche una volta, il chierichetto si sentì in dovere di rivelargli che il suo evidente miglioramento era dovuto senz’ombra di dubbio all’intervento della divina provvidenza.

    Frate Gaspar de Tudela non si era mai distinto nel corso della sua ormai lunga esistenza per l’acume della sua mente o per l’esattezza del suo giudizio, ma dopo aver rimuginato a lungo sugli strani fenomeni che si stavano verificando nella sua parrocchia e aver torchiato l’innocente Bonifacio, decise che la cosa più sensata

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