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Kali Yuga Safari - Dall'alpinismo allo yoga tantrico
Kali Yuga Safari - Dall'alpinismo allo yoga tantrico
Kali Yuga Safari - Dall'alpinismo allo yoga tantrico
E-book347 pagine4 ore

Kali Yuga Safari - Dall'alpinismo allo yoga tantrico

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Info su questo ebook

ROMANZO (268 pagine) - NARRATIVA - Un romanzo che è allo stesso tempo un thriller ad alta quota, un racconto di viaggio nel remoto nord dell'India e un'indimenticabile storia di ricerca verso la profondità della nostra autentica natura.

Secondo il calendario vedico più diffuso in India, il "Kali Yuga", l'età oscura, è il nostro periodo attuale. "Safari" in swahili, lingua africana, significa viaggio. Così questo romanzo è il viaggio di Roby, amante della montagna al punto di farne l'essenza della sua professione: Roby è infatti una guida alpina, attività che mette in crisi la sua storia d'amore con Laura e che lo porta casualmente a contatto con un sicario assoldato per eliminare un suo facoltoso cliente. La sua è una vita basata sul rischio, ma anche su un pressante orgoglio, sul desiderio, nella costante ricerca della fama e del riconoscimento sociale. Tuttavia, quasi suo malgrado, il presentimento profondo della vanità di questa ricerca lo porta, una volta trasferitosi a Leh, verso un viaggio altrettanto avventuroso e imprevedibile: verso la profondità del Sé, la nostra natura profonda. La Luce che, comprendendole, dissolve le tenebre. Come le sue avventure sulle montagne, sarà un viaggio emozionante, non privo di difficoltà e di prove da superare. E il viaggio è la meta, il cammino è camminare. Le prime tre parti del romanzo sono già apparse al pubblico con i titoli "I fili sottili del destino", "La scimmia e il boomerang 1" e "La scimmia e il boomerang 2". Oggi vengono pubblicati in una versione editata e aggiornata. La parte quarta, "Metamorfosi", è inedita e rappresenta la fine dell'avventura di Roby, che altro non è che il suo inizio. Questo ebook comprende dunque la conclusione della trilogia, presentata per la prima volta in forma integrale.

Riposta nel cassetto una laurea, Nicolò Berzi ha seguito il richiamo della passione per la montagna dedicandole la sua vita professionale. Guida alpina e istruttore delle guide italiane per quindici anni, ha viaggiato per molti paesi del mondo, accompagnando clienti sulle grandi montagne di Europa, Asia, Oceania, Africa e America del Sud. L'incontro con la psicoterapia corporea prima e lo Yoga tantrico del Kashmir dopo hanno rivoluzionato la sua vita. Ora vive in Costa Rica, sulla costa dell'Oceano Pacifico, e offre seminari per esplorare il cammino tantrico kashmiro.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2017
ISBN9788825400823
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    Anteprima del libro

    Kali Yuga Safari - Dall'alpinismo allo yoga tantrico - Nicolò Berzi

    kashmiro.

    Amo la cruda realtà nuda,

    come una spada fiammeggiante mi attraversa il cuore,

    sciogliendomi nello Spazio.

    Prologo

    I.

    L’aria è straordinariamente tersa.

    La sagoma argentea chiazzata di bianco delle due Grigne, che sorge in fondo a via Farini, appena mascherata dai fili della corrente di alimentazione del tram tesi da una casa all’altra, testimonia che Milano non è tanto distante dalle montagne.

    L’odore pungente dei gas di scarico e delle polveri sottili però è molto forte. Lontana dalla leggerezza rarefatta delle alte quote l’aria è densa. Nelle giornate senza vento diventa stagnante, appesantita da ossidi e anidridi di ogni genere; respirare diventa difficoltoso, i passanti paiono pesci boccheggianti in cerca di aria pura. Sono le giornate che provocano allarme alle centraline del controllo dell’inquinamento, verdi monumenti tecnologici disseminati nella città.

    Avvelenati più che dai gas di scarico delle auto, dai divieti di circolazione a targhe alterne, oggi ormai sostituiti dall’ingresso a pagamento nella cerchia dei bastioni, molti milanesi si sorprendono a invocare la pioggia e il vento. Forze della natura che diluiscono nello spazio le emissioni tossiche e fanno pensare di nuovo positivo.

    Ma in queste giornate di sole e di aria limpida ci si scopre a sognare i dolci pendii nevosi all’orizzonte. Miraggi reali pronti a evaporare nelle ormai imminenti lunghe giornate invernali di nebbia.

    Per il centro di Milano le grigie nebbie gelate sono ormai un lontano ricordo. Restano a dominare incontrastate la periferia, ma nella cerchia dei bastioni, dove il riscaldamento dei palazzi e delle auto incolonnate è più intenso, le correnti ascensionali sollevano la nebbia e sgombrano le strade. Nei quartieri periferici invece si tratta di alternare le nebbie umide e sporche, che poi verso Lecco si dissolvono ogni mattina al riverbero delle lisce placche di calcare argentino, al raro sole freddo e tagliente dell’inverno. Quando c’è, come oggi.

    Corso Venezia, uno degli eleganti viali ampi e trafficati di Milano, incolonna macchine che si imbucano verso il centro città. Più avanti le telecamere di sorveglianza in Piazza San Babila costringeranno a svoltare.

    Tra le belle case che si affacciano su corso Venezia sono tesi i fili che imperlano centinaia di lampadine. La sera si avvicina. Anche se sono soltanto le quattro di pomeriggio la luce cala, il sole si abbassa rapido sull’orizzonte, e le Grigne, che rimarranno illuminate ancora un’ora al massimo, sembrano ricordarsi della parentela con le lontane Dolomiti e ne assumono i colori rossastri da fiaba.

    Quando si accendono, le luci sono dappertutto. Fari di auto frettolose sotto e sorprendenti ricami di lampadine colorate sopra, sospese a mezz’aria come per magia.

    Luci dappertutto: verdi, gialle, rosse, che lampeggiano o stanno immobili. Luci nella sera di Milano. Natale si avvicina e in strada c’è il sapore di una festa tesa. Passanti concentrati si affannano camminando velocemente per attraversare un incrocio, per entrare in un negozio sfolgorante di neon lunari in cerca degli ultimi regali per amici improbabili, o semplicemente per raggiungere lo spazio rassicurante della propria casa.

    Davanti ai negozi con gli allestimenti più creativi la gente si ferma attirata dal gigantesco televisore della vetrina.

    – Guarda Clara che bella camicett… Ah, E stia un po’ attento a dove mette i piedi.

    – Ma non rompa le palle, non vede che casino c’è in giro?

    – Villano, come si permette…

    – Ma sta zitta, troia!

    Cortesie frettolose di Natale.

    Il sole che scompare lascia crescere un freddo umido che penetra nelle ossa. Decisamente meno sopportabile delle rigide temperature sottozero dei secchi paesi di montagna.

    L’umidità penetra attraverso i cartoni dei barboni stesi a sonnecchiare sulle grate dei tunnel sotterranei della metropolitana, avidi di sbuffi di aria riscaldata, ma anche nelle pellicce delle signore milanesi, ormai però sempre più rare e definitivamente fuori moda. Chi se la sente più di vestirsi con pelli insanguinate provenienti dagli allevamenti di visoni? L’ipocrisia umana è giunta anche qui.

    Quando sale, la nebbia avvolge tutto, lo spazio diventa immenso e inesplorabile allo sguardo. D’un tratto un tram fora il muro di nebbia come un enorme drago arancione sferragliante, e con due scampanellii di avvertimento scompare inghiottito di nuovo poco più in là. Doveva essere il 19.

    Le luci sono circondate dall’alone nebbioso che al tempo stesso le offusca e le rende più estese. I bambini, contenti di correre sui marciapiedi sotto le lampadine colorate ridono eccitati. Loro si divertono, amano il Natale, lo ameranno ancora per qualche anno.

    Le luci degli uffici sono ancora accese, è sera ma si lavora ancora, c’è sempre da finire qualcosa di urgente a Milano. Per fortuna la polvere bianca, che con la neve spartisce solo il nomignolo usato dai consumatori incalliti, aiuta a sostenere i ritmi vertiginosi, e dopo il lavoro reggere pure il divertimento serale obbligatorio.

    Anche la luce di un ufficio al primo piano del bel palazzo in Corso Venezia è ancora accesa. Lo rimarrà a lungo. La grande targa di ottone sul pilastro d’ingresso recita:

    Ing. Crispi

    Telecomunicazioni

    Progetti e Realizzazioni

    L’ufficio è enorme e occupa tutto il primo piano. La porta a destra si apre su una fila di monitor con lo schermo ultrapiatto e colorato dove lavorano in silenzio cinque progettisti, quella di sinistra reca la scritta Direzione. Sembra l’ufficio di un avvocato, come si vedono nei vecchi film, legno ovunque, mobili di gusto molto classico in noce massiccio, e un odore di tabacco che permea l’ambiente. Entrando nella Direzione, sulla destra ci sono i locali dove lavorano gli addetti alla contabilità mentre un lungo corridoio porta in uno spazioso locale, tappa obbligata per raggiungere l’ufficio dell’Ingegnere, come qui chiamano Crispi. Lungo il corridoio sono appese fotografie di montagne, e una grande natura morta opera di uno sconosciuto. È brutta e per questo fa molta impressione. Nel locale lavora la segretaria dell’ufficio: Susanna. È giovane ma già affascinante. Sa scrivere a macchina a velocità supersonica e ha la memoria di un computer. L’ufficio di Crispi è proprio di fronte a quello di Susanna, e la porta è sempre aperta, anche quando si svolgono conversazioni importanti. L’Ingegnere è un uomo ricco, con svariati interessi artistici e sportivi. Molti suoi collaboratori lo ammirano nonostante il pessimo carattere. Dicono che sia diventato ricco grazie ad affari poco puliti, ma è quello che si dice oggi di tutti i grossi imprenditori.

    Dall’aspetto fisico, comunque, Crispi sembra più un ex atleta che un uomo d’affari.

    Avrà forse cinquant’anni, nessuno nell’ufficio lo sa con precisione, ma ne dimostra qualcuno in più. È per via del viso, sempre chiuso in una maschera impenetrabile piena di sottili rughe agli angoli degli occhi e della bocca. Anche quando sorride sembra minacciosa, non lo cercheranno mai per lo spot pubblicitario di un dentifricio.

    Dal viso in giù invece è un’altra persona. Snello e muscoloso al tempo stesso, le larghe spalle fanno fatica a trovare una giacca che le contenga. Per questo non è sempre elegante come dovrebbe. Spesso arriva in ufficio con un semplice pullover colorato sopra la camicia.

    D’altra parte Crispi appartiene a quella categoria di uomini che con il passare delle ore si mantiene perfettamente in ordine. Non compaiono né macchie né pieghe sui suoi vestiti, come se una colf invisibile glieli stirasse ogni mezz’ora. È un dono di natura che permette di fare sempre buona impressione sui clienti.

    Dai suoi dipendenti invece esige un abbigliamento più adeguato all’ambiente austero dell’ufficio. Non si lavora da Crispi se non vestiti perfettamente in giacca e cravatta. Susanna è l’unica donna nell’ufficio, è per lei la parola d’ordine è di essere sobria ed elegante senza rinunciare alla sua femminilità.

    Una volta Crispi la riprese perché portava una camicetta con un bottone di troppo slacciato. Quel giorno era nervoso: il week-end prima era fallito il suo terzo tentativo di raggiungere la cima del Monte Bianco. Perché l’Ingegnere è un’alpinista.

    Per prepararsi alle grandi ascensioni in montagna trascorre le sue serate in palestra alla ricerca di una condizione fisica perfetta e numerosi fine settimana ad arrampicarsi su roccette e pareti sparse in lungo e in largo per l’Italia.

    Un alpinista. I suoi dipendenti sanno solo che ogni tanto scala montagne che loro hanno solo sentito nominare, dalle quali ritorna spesso con il viso bruciacchiato dal sole e con uno sguardo diverso. Dura fino al lunedì sera, poi diventa di nuovo inossidabile come il coperchio di una pentola che da un momento all’altro può saltare per aria. Sembra che l’alpinismo sia per Crispi una valvola di sfogo, la sua sicurezza per reggere la vita che si è scelto a Milano. In ufficio tutti sanno anche che una volta è stato sul Cervino, stupendo e regolare cristallo piantato da un dio nella terra tra Svizzera e Italia come futuro smisurato cippo di confine.

    Anche Susanna si era distratta un attimo a contemplare la grande fotografia appesa nell’ufficio dell’ingegnere, il Cervino visto da Zermatt. Una fila di puntini bianchi saliva da una bianca distesa di neve fino in cima, attraverso un muro nero dall’aspetto impressionante. Così, con il pennarello bianco aveva segnato dove una volta era passato. Da non crederci. La parete nord per la via dei fratelli Shmidt. La più importante salita che spiccava nel suo curriculum alpinistico.

    Quando doveva prendere qualche decisione delicata per lavoro era solito far scorrere il dito lungo quella scala di puntini bianchi cercando a fondo dentro di sé le emozioni di quella salita indimenticabile. Non c’era più rimasto molto. Era giunto il momento di fare di nuovo una grande ascensione. Aveva bisogno di nuovi freschi eccitanti ricordi per stemperare le sue giornate passate al telefono o davanti al Pc portatile.

    C’era bisogna di un’altra foto da affiancare al Cervino, un’altra scala di puntini bianchi verso il cielo. Rimaneva da scegliere che montagna salire e per quale via, una scelta non facilissima con tutte le Alpi a disposizione, anche se dopo la nord del Cervino, erano poche le pareti che potevano eguagliarne il valore. Il tempo però, tutto sommato, non gli mancava, visto che l’estate era ancora lontana. Avrebbe potuto decidere con calma.

    II.

    Tutte le grandi metropoli del mondo hanno gli stessi problemi. Uno di questi è il traffico. Non è che uno dei tanti ma è importante perché sta sotto gli occhi di tutti. Attraversare le città in auto è diventato un incubo.

    Esiste un solo modo per evitare che in città la velocità media dei veicoli raggiunga a malapena dieci chilometri all’ora. È limitare il traffico, o meglio ancora impedire ai veicoli l’accesso alla città. Per questo sono stati ideati il sistema dell’ingresso a pagamento, il potenziamento dei trasporti pubblici urbani e sono stati costruiti enormi parcheggi in periferia. Da qui una rete di tram, autobus, metropolitane si inoltra nel cuore di Milano.

    È un esercito quello che ogni mattina si riversa in questi parcheggi, che si accalca nei mezzi in partenza, che si spinge, che suda anche quando fuori nevica, che si respira addosso, i visi a pochi centimetri di distanza, tutti pigiati come stuzzicadenti nuovi. È l’esercito dei pendolari, spesso costretti ad alzarsi a orari notturni, quasi dovessero fare qualche ascensione impegnativa in montagna, e a subire i ritardi delle ferrovie e dei bus che li portano verso Milano. L’alternativa sono lunghe code nell’intoccabile spazio della propria auto. Non c’è molto da scegliere. Tutto questo dura poco. Meno di due ore un paio di volte al giorno. Al mattino, intorno alle otto quando il mondo degli affari si risveglia ruggendo come un leone in gabbia, e tutti si recano al lavoro più motivati che mai, e alla sera verso le sei, quando stanchi e sconfitti un’altra volta si torna a casa navigando nell’illusione di avere un po’ di tempo a disposizione per sé stessi.

    La sera, dopo le otto i grandi parcheggi di periferia diventano deserti, le stazioni della metropolitana paiono vascelli fantasma che navigano in un mare di nebbia. Il regno della notte. Spacciatori, qualche auto dove si consumano amori scomodi. Alla fine di viale Famagosta c’è uno di questi parcheggi, hanno appena ultimato il cavalcavia intorno alla stazione del metrò. Il grande orologio all’ingresso della stazione segna le undici. È buio e con la nebbia che sale dal naviglio poco lontano si vede a pochi metri di distanza.

    Ci sono tre macchine nel vasto spiazzo. Una vecchia Alfa 145, piuttosto malconcia, un furgone completamente arrugginito e una bella berlina, nera. Ha un finestrino leggermente abbassato, e se qualche balordo, tentato da un facile furto, si avvicinasse, potrebbe scorgere un uomo seduto all’interno, immobile. Non sarebbe prudente infastidirlo.

    La macchina che si avvicina lentamente, motore al minimo, è una BMW. A bordo due uomini silenziosi e tesi. Scrutano nell’oscurità lattiginosa. D’un tratto la sagoma del furgone sbuca di fronte a loro.

    – Eccolo. Fermati.

    Un uomo scende dalla BMW e si avvicina al furgone, ma prima di arrivargli vicino si accorge che è un rottame e non può essere il mezzo che cerca. Prima che arrivi a guardare all’interno poco distante si accendono dei fari. Poi si spengono. Poi di nuovo, per tre volte. È la berlina.

    – Ah, è nella macchina.

    Il finestrino della BMW si abbassa lentamente.

    – Vai a piedi, io resto qui ad aspettarti.

    – D’accordo, dammi la busta.

    Una grossa busta, gialla, viene passata attraverso il finestrino, poi, tenendola contro il petto, l’uomo si avvicina alla berlina. Ha il viso un filo tirato, nonostante sia abituato a lavori simili. L’atmosfera del parcheggio non gli piace, la nebbia umida gli penetra sotto i vestiti. A due passi dalla berlina la portiera accanto all’autista si apre. L’uomo rallenta impercettibilmente, poi la apre completamente e si siede all’interno.

    – Sono il postino, lei è Martin? – domanda.

    Per tutta risposta riceve un laconico sì, poi continua:

    – Ho portato la busta. C’è il profilo del suo uomo. La vita, gli amici, indirizzi, attività, tutto. Mi è costato tre mesi questo lavoro.

    Silenzio. Poi ancora quella voce. È seduto lì accanto eppure pare che venga da lontano. Una voce stanca, strascicata, apparentemente di un uomo molto vecchio.

    – Ci sono anche delle fotografie?

    – Naturalmente, ce ne sono alcune fatte a Chamonix l’anno scorso e altre fatte a Milano. È necessario perché sembra un’altra persona.

    Parla visibilmente compiaciuto, ha fatto un ottimo lavoro, lo sa e ne è molto orgoglioso. Martin intanto controlla il contenuto della busta, e un biglietto scritto in inglese attira la sua attenzione. Mentre legge il messaggio il postino comincia a dare segni di impazienza.

    – C’è un’altra cosa.

    Silenzio. Non è certo un tipo con cui valga la pena conversare questo Martin, pensa, e poi con quella voce che fa rabbrividire.

    – Dovrebbe già saperlo, ma mi hanno detto di ripeterglielo. Deve sembrare un incidente. La pagheremo soltanto se sembrerà un incidente. Non importa come lo fa, non devono essere sollevati sospetti. E deve essere entro la fine di Agosto. È tutto chiaro?

    La testa accanto annuisce lentamente.

    – Nella busta ci sono anche i centomila euro che ha chiesto come anticipo, il saldo a lavoro eseguito alla casella postale che ci indicherà. Bene, direi che è tutto, buon lavoro.

    – No, non è tutto.

    La voce emerge dal nulla. Si volta seccato, gli pare di non aver dimenticato niente. Si accorge di qualcosa di duro che preme contro il petto quando è troppo tardi. Non si era accorto della pistola col silenziatore avvitato che Martin teneva appoggiata tra le gambe. Un colpo sordo, che passa inosservato anche nel silenzio. Non un grido, non un gemito, nient’altro che un uomo che muore. In fondo niente di speciale per una notte come questa a Milano.

    Poi, lentamente Martin apre la portiera. Nella BMW l’autista accende il motore e si allontana. Presto scompare dietro la sagoma della stazione, avvolta dall’oscurità. Martin spinge l’uomo giù dal sedile poi chiude la porta e accende il motore. Tra poco anche lui sarà lontano. Nessuno ha mai avuto a che fare con lui di persona, e poi è sopravvissuto per raccontarlo. Un’elementare precauzione per garantirgli l’anonimato e l’incolumità. Anche per questo è il migliore. Non hanno voluto usare una casella postale per inviare le istruzioni, come al solito. Anzi gli hanno mandato un postino in carne e ossa chiedendogli di eliminarlo.

    Hanno voluto due piccioni con una fava, pensa Martin. Sono stato al loro gioco, lo metterò sul conto spese. Accartoccia il biglietto dove risalta la scritta: ELIMINATE HIM, PLEASE, e lo getta nel portacenere sotto il cruscotto.

    Domani troveranno un uomo, morto, disteso sull’asfalto con un piccolo foro sul petto. I documenti diranno che si tratta di Mario Santore, 34 anni, nato a Lecce. Poi scopriranno che era pregiudicato, coinvolto in un traffico di armi, sospettato di avere contatti con il clan dei Soccia: la mafia a Milano è ormai una realtà. Un regolamento di conti, una sigla accanto al suo nome sul computer della polizia e l’ennesimo omicidio senza colpevole verrà archiviato in pochi giorni.

    Un sorriso affiora sulle labbra di Martin mentre svolta verso l’autostrada. Gli è sempre piaciuto viaggiare di notte. Senza traffico, veloci e silenziosi. L’unico problema è la nebbia. Pare un sudario ghiacciato dietro cui sparisce ogni cosa, tranne i ricordi.

    III.

    Attraversato da poco il Passo del Turchino si capisce subito che il mare non è lontano.

    Forse per gli infiniti pini marittimi che ricoprono i fianchi della stretta vallata, forse per il pungente odore di salsedine che permea l’aria invadendo le narici. Molto più probabilmente perchè il mare è ben visibile laggiù in fondo verso sud. Liguria. Terra impossibile strappata dai liguri al mare in burrasca e alle montagne dai ripidi versanti che precipitano direttamente nell’acqua.

    Lavoro faticoso e antico, centinaia di anni necessari a edificare città in salita e a costruire terrazzamenti più o meno pianeggianti per coltivare l’ulivo. Questa pianta splendida e spesso contorta, l’ulivo, è dappertutto, le fronde invadono ai tornanti le strette strade dell’entroterra. Scompare come per magia verso i cinquecento metri di quota, alzandosi verso quelle colline che con appena un filo di presunzione si fanno chiamare Appennino Ligure.

    C’è odore di vita in Liguria, un misto di sole e di mare, una miriade di fragranze di fiori che permane anche in inverno, odore di terra e di migliaia di ulivi cotti dal sole e piegati dal vento, capaci di raccontare storie leggendarie e meravigliose.

    Finale Ligure è uno dei tanti centri balneari della Riviera di ponente. Diviso in tre piccoli agglomerati più o meno distanti dal mare, Final Pia, Final Marina e Final Borgo, deve la sua notorietà soprattutto alla sua lunga spiaggia di sabbia, cosa rara per le sassose coste liguri. E al lungomare caratteristico, ombreggiato da enormi palme che hanno visto risorgere l’Italia dalle rovine della guerra. E ai due antichi cannoni, le cui bordate avevano tenuti lontano i galeoni saraceni ormai ridotti a un ambito gioco di bambini.

    Vi si arrampicano sopra non appena sfuggono alla vischiosa attenzione dei genitori distratti per un attimo, forse per un minuto o poco più, subito riportati nel mondo orizzontale dei giochi non pericolosi; è assurdamente rischiosa la caduta da un cannone?

    Finale è tutto questo: storie di epiche difese dal mare, di straordinarie mareggiate, di interminabili diluvi che arrotondavano le colline e trascinavano gli alberi fin davanti al Duomo, di centinaia di turisti ebbri di sole e salsedine e di sgualciti arrampicatori che si osservano le dita consumate, seduti a un bar, cercando di far riaffiorare alla memoria le sensazioni appena vissute e già dimenticate.

    Finale Ligure è uno dei centri italiani più importanti per l’arrampicata sportiva. Pareti grigie di roccia in apparenza solida, ma in realtà fradicia e marcia nell’anima, affiorano ovunque nell’entroterra, contendendo spazio agli ulivi. Alcune pareti appartengono a rilievi importanti, ecco allora Bric Pianarella, Bric Spaventaggi, Rocca di Corno e Monte Cucco. Arrampicare al sole, con il vento che scompiglia i capelli, l’odore del mare e il rumore delle onde che si infrangono sui faraglioni, sentire semplicemente di essere vivi, con i sensi incantati, magia del finalese.

    – Allora ragazzi, ricapitolando, sulla lavagna c’è l’elenco dei materiali che dovete comprare, le corde invece le mette a disposizione la scuola. Per chi non ha portato stasera la foto e i soldi dell’iscrizione c’è tempo fino alla prossima lezione. Ci vediamo giovedì alle nove in punto, ciao a tutti.

    Luca, finita la presentazione del corso di arrampicata si ferma a chiacchierare con i futuri allievi. Anche l’uomo biondo seduto in fondo alla sala vorrebbe fermarsi a chiacchierare, magari con quella brunetta provocante e poco vestita che pareva pendere per tutta la sera dalle labbra di Luca, si sa, il fascino dell’istruttore, ma ormai è saldamente inglobata nel crocchio che lo circonda. L’uomo si allontana, d’altra parte, a differenza del resto degli allievi, quel corso di arrampicata per lui è un lavoro, o meglio, il primo passo per portarlo a termine.

    Per la verità ogni tanto qualche scrupolo se lo pone, gli sembra quasi uno spreco dedicare tutto quel tempo a un solo obiettivo, tuttavia è anche la cosa che trova più affascinante del suo lavoro. Gestirsi in completa autonomia, con soltanto alcune clausole temporali da rispettare. Ogni tanto, come questa volta, c’è in più qualche richiesta particolare del committente che cambia leggermente le cose, e che spiega perfettamente la sua presenza lì: gli hanno ripetuto più volte che deve sembrare un incidente.

    Lei sta leccando un enorme cono con aria assorta. Dal colore si direbbe un classico fragola e limone. La vede dall’altra parte della strada e decide che per oggi ha lavorato abbastanza. È la brunetta che si è iscritta al corso, insieme con un’amica abbastanza bruttina. È singolare il fatto che molte ragazze belle si circondino di amiche esteticamente brutte, forse un bisogno inconsapevole di primeggiare, di essere ammirate, ma è altrettanto vero e ancora più sorprendente il contrario.

    Attraversa la strada, eccitato dalla possibilità di una nuova e interessante conoscenza.

    – Ehi ciao, lo sai che siamo compagni di corso?

    Come risposta uno sguardo perplesso e per nulla amichevole.

    – Compagni di cosa, scusa?

    – Ma sì, poco fa al CAI, ti sei iscritta anche tu, no?

    – Ah! Certo. Sai non conosco nessuno del corso, io non sono di Finale.

    – Neanch’io sono di qui, anzi per la verità neppure italiano…

    L’aria fresca della sera avvolge le tre figure che chiacchierando stazionano davanti a una delle tante gelaterie del Borgo. Saranno poi le uscite pratiche del corso di arrampicata e gli incontri serali alla sede del CAI a proporre nuove conoscenze. Non a caso il desiderio di socializzare è una delle motivazioni più forti per frequentare un corso e anche per farne l’istruttore volontario. Terminati i gelati i tre ragazzi si incamminano verso il parcheggio sotto la Torre.

    – Io sono di Firenze, e tu hai la faccia di un nordico. Sei olandese?

    – Purtroppo, molto più banalmente, vengo dall’Inghilterra, suddito devoto della regina Elisabetta II. Ma voi come vi chiamate?

    – Io sono Anna e lei è Olga, e tu?

    – Be’… io… potete chiamarmi Martin.

    IV.

    La luce del sole filtra pigramente tra le liste della tapparella. Tra poco non si riuscirà più a dormire, non appena il sole si sarà alzato ancora un po’.

    Martin Havelock, come lo hanno registrato in albergo con i dati del suo terzo passaporto falso, dorme profondamente. Ha il lenzuolo tutto attorcigliato intorno al corpo. Un sonno agitato. Il suo inconscio prende il sopravvento durante la notte e si libera del peso di tutte le emozioni che non osa sentire quando è sveglio. Martin non sopporta questi rigurgiti del passato, sono fuori dal suo controllo, non è mai riuscito a controllare i suoi sogni, per quanto si sia sforzato. Invece quando è sveglio è facilissimo, il muro di cemento armato che si è costruito intorno lo protegge e lo trasforma in una macchina perfetta. Uccidere persone per lavoro non è comunque il modo migliore per avere un sonno tranquillo.

    I giornali scrivono che nelle città la temperatura ha raggiunto dei picchi straordinari, come non succedeva da anni. Lo scrivevano anche l’anno scorso. A Milano la massima è di 39°, a Torino 38°.

    C’è un’afa insopportabile. Non tutti sono in vacanza, ma in agosto Milano diventa una città fantasma. Negozi chiusi, isolate macchine parcheggiate qua e là e un gran silenzio bruciato dal sole. I cavalletti delle moto parcheggiate lasciano solchi profondi nell’asfalto.

    La Riviera ligure è tutta un’altra cosa. Certo sono passati i tempi in

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