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Uprising
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E-book755 pagine11 ore

Uprising

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Info su questo ebook

Cosa sarebbe successo se la storia non avesse seguito il corso che noi conosciamo? E se l’impero britannico, anziché coesistere con le potenze mondiali, si fosse ingrandito, inglobandole, e avesse esteso i suoi confini fino… alla Luna?
Nell’anno zero, l’ammiraglio Nightingale giunge su Selḗnē, ampliando l’orizzonte umano in modo impensabile e porta alla scoperta del sèlas e di un nuovo popolo. Dopo quella eroica impresa tutti i ragazzi del regno sognano di poter emulare le gesta del grande conquistatore, ma solo in pochi potranno farlo. Fra questi vi sono i cadetti della Queen Cyrene’s Royal Naval Academy che, ogni anno, affrontano un viaggio verso le terre seleniche a bordo di un galeone spaziale, pronti a entrare a far parte della marina.
In occasione dell’ultimo semestre Cyril, Isaac e D4n3 si ritroveranno a far parte della stessa squadra per raggiungere le colonie seleniche a bordo della Hecate. Se all’inizio le differenze fra loro porteranno a degli scontri, la Fatalità Universale gli riserverà un’amara sorpresa che li porterà a essere sempre più uniti per affrontare un destino avverso.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2017
ISBN9788826064963
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    Anteprima del libro

    Uprising - Michela Ravasio

    © Les Flâneurs Edizioni di Alessio Rega

    www.lesflaneursedizioni.it

    info@lesflaneursedizioni.it

    Michela Ravasio

    in collaborazione con Giulio Taminelli

    Uprising

    Les Flâneurs Edizioni

    È così bello vivere, e la vita è così dolce che non può essere cattiva!

    Émile Zola

    PARTE I - A PROPOSITO DI BOTTONI

    "Tre sono le caratteristiche di un amico:

    impedire ciò che è dannoso, incitare al bene,

    non abbandonare nella mala sorte."

    (Aśvaghoṣa)

    CAPITOLO 1

    Non era rimasto molto da fare quel giorno.

    Era un lunedì di maggio e la Queen Cyrene’s Royal Naval Academy pullulava di ragazzi frettolosi diretti verso l’atrio, intenti a scendere scalinate o a correre per gli enormi corridoi dalla volta a crociera. Le vetrate dagli svariati colori illuminavano i loro volti sfiancati dalle lezioni, mostrando un cielo azzurrissimo attraversato da poche nuvole che, di tanto in tanto, velavano dispettosamente il sole primaverile. Sembrava che quell’anno l’estate fosse arrivata in anticipo, permettendo agli studenti di dire addio alla giacca della divisa nonostante il grande dissenso degli insegnanti.

    Facendosi spazio tra la folla in uniforme color fiordaliso, Cyril Edward Peart percorreva a tutta velocità le scale in marmo. Le labbra sottili e scolorite erano curvate in un sorriso, mentre gli occhi brillavano per aver ottenuto, grazie al suono della campanella, la libertà tanto agognata. Svoltò verso la porta dell’ingresso, scivolando agilmente tra due ragazzi dell’ultimo anno intenti a parlare della nave con cui sarebbero presto salpati. La tracolla in cuoio del giovane Peart sfiorò le costole del più ingombrante dei due che, visibilmente irritato dalla cosa, lo rimproverò immediatamente, ricordandogli che le matricole dovevano rispettare gli studenti più anziani. Era un concetto scritto sul manuale del cadetto provetto, che veniva distribuito a tutti gli studenti durante il primo anno e in cui erano elencate le regole da rispettare per ottenere una convivenza pacifica all’interno dell’istituto.

    Baggianate, ecco che cosa ne pensava Cyril di queste strambe leggi etiche presenti all’interno dell’accademia. Non aveva mai letto quello stupido libretto e, a dirla tutta, non ricordava nemmeno dove lo avesse buttato. Era sicuro che non servisse granché sapere che rapporti intrattenere con i compagni più vecchi e quanto rispetto dover loro. Erano tutti un’accozzaglia di inetti esattamente come lo era lui. Non aveva bisogno di un manuale per capirlo.

    Ignorando ogni lamentela, Cyril continuò imperterrito a correre verso la fontana nel giardino dove si accomodò sull’orlo rivestito d’ottone. Appoggiò a terra la borsa in cuoio e slacciò i cinturini, mentre l’acqua zampillava da una voluminosa sfera in rame circondata da anelli, la quale girava su se stessa grazie a degli imponenti ingranaggi che la sostenevano e che producevano un rumore stridente. Sopra di lui, sorretta da due alti pali di ferro, svettava il nome della scuola in caratteri dorati. Dalla tracolla, il ragazzo tirò fuori una scatola argentata imbottita di ovatta e contenente un draghetto metallico. Lo osservò per qualche istante con un sorriso e con i denti affondati nel labbro inferiore per la concentrazione. Fece ruotare una chiave nella schiena della bestiolina artificiale, ascoltando i piccoli ingranaggi azionarsi all’interno. Dopo qualche scatto, il giocattolo aprì gli occhi ramati e spiegò le ali da pipistrello, srotolando il corpo esile nella sua mano.

    «Bentornato al mondo, Sunny. Funziona bene la tua coda, adesso?» tubò Cyril, lasciando che si levasse in volo davanti al suo volto compiaciuto. Sunny era un animale domestico meccanico, un mechpet, un pezzo unico tra i numerosi che venivano prodotti artigianalmente. I mechpet erano stati inventati anni prima da Briag Glykerios e ormai si trovavano in commercio ovunque, nonostante non fossero alla portata di tutti poiché realizzati in sèlas, un’argentata e leggera lega metallica proveniente da Selḗnē.

    Sunny aveva ormai dieci anni e si era rotto così tante volte da costringere il nonno di Cyril a minacciare che, se fosse tornato ancora a casa senza pezzi, non lo avrebbe più aggiustato. Sicuro che non sarebbe mai riuscito a mantenere intatto l’animaletto, pur di evitare di subire altre prediche e soprattutto di perdere il prezioso giocattolo, il ragazzo si era approcciato alla micromeccanica e ne aveva imparato le basi nel laboratorio del nonno, finendo così per appassionarsene. Erano state proprio le sue giovani mani inesperte a sistemare la coda metallica del draghetto, dopo che si era guastata incastrandosi in un lampadario, qualche giorno prima.

    Prima di avvicinarsi al padrone con una piroetta, Sunny emise uno stano scricchiolio dalla bocca schiusa a mostrare una lingua d’ottone. Si posò fra i suoi capelli e il corpicino si confuse nel bianco accecante di quella chioma incolta e arruffata, sparata verso l’alto.

    «Sei già stanca, stupida lucertola?». Il ragazzo sbuffò, per poi estrarre gli occhialoni dalle tasche dei pantaloni e infilarseli in testa, infastidendo Sunny. Si alzò flemmatico per stiracchiarsi e si guardò attorno alla ricerca di qualcosa d’interessante da fare. La verità è che non c’era assolutamente nulla che considerasse avvincente. Non poteva lasciare l’istituto e la Baba’s Island, l’unico posto dove avrebbe voluto andare, si trovava su una delle isole celesti che fluttuavano artificialmente sopra il mare del Nord. Si trattava di una pasticceria famosa in tutto l’impero britannico per i dolci elaborati e dal gusto irresistibile. Aveva sempre sognato di andare a comprare qualche pasticcino, ma per raggiungerla avrebbe dovuto eludere la sorveglianza dell’accademia e raggiungere il porto gemello per prendere un traghetto.

    «Siamo in gabbia, dannazione! Questa non è una scuola, è una prigione. L’avevo detto a mio padre che se avessi fatto il fornaio mi sarei divertito di più. La bottega, poi, è a due passi da casa! Non certo a migliaia di chilometri!».

    Si stava lamentando da solo, dato che il suo animaletto non poteva rispondere e nemmeno gli stava dando tutto quest’ascolto. Cyril notò che era infatti intento a osservare un ragazzo occhialuto importunato da alcuni cadetti più grandi con delle installazioni sulle braccia. Erano la moda del momento. Fino a qualche anno prima era un lusso possedere un braccio meccanico applicabile e invece ora tutti ne volevano uno per essere più forti o più abili. Conosceva un tizio, nella sua vecchia scuola, che aveva installato una specie di spremiagrumi retrattile sul gomito. Non aveva mai capito che utilità avesse, ma, se è per questo, non concepiva nemmeno l’utilità dei coltellini svizzeri nascosti in queste applicazioni. Fossero stati dei cyborg la cosa forse avrebbe avuto un senso, ma erano uomini sani. Le arance potevano spremersele tranquillamente a mano.

    «Che dici, andiamo ad aiutarlo? Io odio i patiti di steelsleeve quasi quanto i broccoli!» esclamò il giovane Peart passandosi, come suo solito nei momenti d’indecisione, la punta dell’indice sul naso. Il draghetto emise un soffio metallico che dal proprietario fu preso per un’esortazione ad agire. Cyril Edward Peart non era quello che si poteva definire un ragazzo tranquillo: sua madre, la signora Merideth, lo aveva definito con gli appellativi guastafeste, cerca risse e calamità naturale. Lei, tuttavia, ingigantiva il semplice fatto che Cyril fosse un tipo un pochino impulsivo. Fin da piccolo si era dimostrato un bambino scarsamente disposto alle buone maniere, scalmanato e impertinente, così, fin troppo spesso, si era ritrovato in punizione o addirittura espulso da scuola. Per questo era stato mandato in quella specie di collegio militare che, a parere dei suoi genitori, sarebbe servito a temprare la sua condotta.

    Mentre Cyril decideva sul da farsi, la matricola importunata, il cui nome era Maurice Chaplain, se la stava facendo letteralmente addosso. Gli occhi color della pece erano sgranati dal terrore e le gambe paffute tremavano scosse da un terremoto interno, mentre stringeva al petto la propria tracolla come se fosse stata uno scudo. Non gli sarebbe servita granché nel momento in cui avessero deciso di picchiarlo, ma tutte le storie che aveva letto da piccolo gli avevano insegnato che un eroe cerca sempre di difendersi dai propri nemici anche quando sa di essere spacciato. Avvertendo la sua paura, due ragazzotti armati di steelsleeve continuavano a sghignazzare facendo battutine sul suo grasso strabordante, esattamente come dei gatti che giocano con il topo prima di ucciderlo. Quando fu abbastanza vicino, Cyril poté sentire le loro frecciatine e, per un attimo, le trovò anche divertenti. Decise però di darsi un contegno: non poteva di certo ridere delle disgrazie altrui, appoggiando così gli spacconi con cui aveva deciso di bisticciare.

    «Mi chiedo se l’anno prossimo riuscirà a imbarcarsi, oppure rimarrà incastrato cercando di passare nel buco del gatto per arrivare in coffa».

    Il più grosso dei molestatori, il fin troppo noto Rufus Lambert, guaì in una risata che rassomigliava a quella di un vecchio lupo di mare incontrato nella peggior bettola del porto. Philip Hunt, quello che sembrava avere l’intelligenza di un mollusco, si limitò invece ad annuire e agitare il proprio braccio coperto dallo steelsleeve. Per un attimo Cyril s’immaginò di essere sul ponte di un galeone dove i due se la prendevano con il mozzo che non aveva pulito abbastanza bene. Lui avrebbe giocato a fare il bravo marinaio che placa ogni battibecco e che si merita poi le lusinghe del capitano. Anche se, nella realtà, non sarebbe stato esattamente il suo ruolo.

    «Ehi, voi!» esordì, fermandosi a una dozzina di centimetri da Lambert e Hunt. «Non mi piace che vi facciate beffe di questo poveretto!».

    Si portò le mani ai fianchi cercando di dimostrarsi coraggioso, mantenendo un piglio di minaccia che non venne tuttavia preso sul serio. Rufus si voltò a guardarlo e alzò il sopracciglio folto e nero, totalmente stupefatto. Non riusciva a credere che un ragazzino avesse il coraggio di ronzargli attorno per infastidirlo, quando solitamente poteva agire indisturbato e terrorizzare le matricole. Oltretutto essere sfidato da uno sgorbio simile, con le spalle da pollastro e la stazza di un paletto, era davvero svilente. Per non parlare di quanto gli desse fastidio quello strano colore di capelli, un platino fastidioso alla vista.

    «Fatti da parte, moccioso. Non sono affari tuoi» disse a Cyril, minacciandolo con il braccio meccanico che, tuttavia, non servì a intimorirlo. Il ragazzino, difatti, continuò a sfidarlo e puntò gli occhi dritti nei suoi. Fu in quel momento che Lambert notò che erano di un colore singolare: alla luce del sole sembrava che una fiamma ardesse al loro interno, tingendo di strani riflessi quelle iridi ramate. Solo una popolazione era riconoscibile per quei tratti particolari, capelli bianchi compresi.

    «Ma guardate! Abbiamo qui un bamboccio proveniente da Selḗnē!».

    Il giovane Peart continuò a fissarlo in maniera ostile, sentendo Sunny muoversi sulla sua testa e aprire le ali. Non aveva intenzione di tirarsi indietro, non adesso che aveva attaccato briga e che avevano nominato il suo paese natio con quel tono sprezzante. Non che Cyril fosse un fiero e patriottico purosangue, visto che suo padre era nato e cresciuto a Whitby, prima di trasferirsi a New St. Helens e sposare sua madre. Il ragazzino era, anzi, un meticcio con qualche gene selenico di troppo che l’aveva reso molto più simile al ramo materno della famiglia che a quello paterno.

    L’omaccione che stava fronteggiando in quel momento non era di certo il primo che tirava in ballo le sue origini durante un litigio e non sarebbe nemmeno stato l’ultimo. Anche allora, c’erano degli stolti convinti che le persone provenienti dalle colonie britanniche di Selḗnē non fossero come loro, che non fossero da considerare dei veri e propri inglesi. Qualcuno avrebbe potuto spaventarsi di fronte a questa forma di pregiudizio, ma non era certo il caso di Cyril Edward Peart. Lui lo considerava un affronto personale, non di certo un affronto razziale. Nel suo modo di ragionare le persone se la prendevano con lui solamente perché lo trovavano insopportabile, o brutto, o basso, o troppo pallido, o chissà che altro.

    Il fatto era che non riusciva a capire questa discriminazione, poiché gli adulti provenienti dall’impero che aveva conosciuto non avevano mai parlato di disuguaglianza, almeno non davanti a lui. Probabilmente, pensava, i ragazzi si aggrappavano a qualsiasi scusa per poter giustificare la propria cattiveria congenita.

    «Hai problemi con il colore dei miei capelli?» domandò, alzando poi una mano per puntarla verso il cadetto più anziano. «Io invece ho problemi con chi indossa uno steelsleeve. Oltretutto orrendo come il tuo».

    L’indice di Cyril era teso in direzione del suo avversario, giusto per infastidirlo e sfidarlo. Forse il ragazzino non era bravo in molte faccende, ma di certo era un fuoriclasse della seccatura. Ogni volta che aveva cercato di importunare qualcuno c’era sempre riuscito con più successo del previsto.

    Rufus e Philip si scambiarono un’occhiata, prima di voltarsi in contemporanea verso il selenico. Loro erano invece dei campioni per quanto riguarda il fare occhi neri e spaccare le ossa e, questo, Cyril lo sapeva benissimo, come d’altronde era a conoscenza del fatto che qualcuno con indosso uno steelsleeve fosse notevolmente in vantaggio. Era però sicuro di potersela cavare per un colpo di fortuna. D’altronde riusciva sempre a cavarsela in qualche modo.

    «Sei geloso perché nelle colonie non ne vendono? Per questo hai problemi con il mio braccio meccanico?» domandò Lambert, sogghignando cinicamente e facendo ridere l’amico. Il povero Chaplain, che stava assistendo alla scena continuando a tremare, si guardò attorno e fece un passo indietro. Lui non era certo uno di quei ragazzi pronti a buttarsi nella mischia ogni volta che scoppiava una rissa. Era sempre stato un tipo calmo, riflessivo, con una preferenza particolare per lo studio, il cibo e i pomeriggi soleggiati e pacifici durante i quali poter leggere sul prato. L’unica volta in cui aveva partecipato a una discussione cruenta era stata quando il cuoco della mensa aveva messo troppo peperoncino nella zuppa. Ancora gli venivano i brividi se ripensava a quel fattaccio accaduto mesi prima! Per il resto della sua vita, in ogni caso, non aveva più alzato la voce con nessuno, nemmeno con i bulli che spesso e volentieri se la prendevano con lui per la sua obesità. In quel preciso istante, proprio quando i suoi occhi da leprotto in pericolo incrociarono quelli ramati e selvatici di Cyril, si rese conto che quella era pazzia! I cadetti dell’ultimo anno avrebbero massacrato il selenico e, probabilmente, tutta la colpa sarebbe ricaduta su quest’ultimo e lo avrebbero cacciato dall’accademia con qualche lettera di reclamo. Se Cyril ci teneva tanto a far quella fine, questo non era certo il caso di Maurice. Decise infatti di tagliare la corda mentre i suoi assalitori si concentravano sul nuovo martire.

    Nessuno, però, fece caso alla silenziosa e goffa fuga di Maurice Chaplain. Dall’istante in cui si volatilizzò, tutti se lo dimenticarono e tornò a essere uno dei mille volti sconosciuti nella Queen Cyrene’s. Solo Cyril sembrò un poco perplesso dalla sparizione di quell’omuncolo sovrappeso. Non che al momento fosse importante, dato che doveva trovare una soluzione veloce per cavarsela in quella situazione. Aprì quindi bocca per dare una risposta intelligente, che sembrò più che altro un invito a farsi prendere a sberle.

    «In verità su Selḗnē ci sono le stesse cose che avete anche qui. Solo che noi le abbiamo in sèlas. Questo è un modello arretrato ormai!» disse saccente, osservando lo steelsleeve con l’aria di chi la sa lunga. «Oltretutto è passato di moda! Da noi questi li comprano i poveracci!».

    Non era la cosa giusta da dire, probabilmente. La mascella di Rufus s’irrigidì, esattamente come tutti i nervi del suo corpo, mentre la mano scattò a stringersi in un pugno. Evidentemente sarebbe stato meglio se Cyril se la fosse data a gambe come Chaplain. Tuttavia era troppo tardi e, accorgendosi del pericolo in cui si era cacciato, cercò qualcosa da aggiungere per aggiustare tutto, ma non gli sovvenne nulla.

    «Che stai insinuando?» grugnì Lambert, puntando gli occhi furenti in quelli del ragazzino. Questi ridacchiò appena e si grattò il naso con la punta dell’indice, sentendo che Sunny iniziava ad agitarsi fra i suoi capelli.

    «Magari tra poco vendono anche qui gli steelsleeve in sèlas. Costeranno un pochetto più di questi, ma forse te li potrai permettere. Spero». Notando che il nervosismo non abbandonava il suo interlocutore, Cyril provò almeno a fingersi amichevole per recuperare. «Hai uno spremiagrumi sul gomito, nel tuo modello?».

    La domanda non fu colta con ironia, perché un colpo lo fece cascare sul ciottolato del cortile. Il draghetto meccanico prese il volo e fece sentire la sua vocina stridula, tenendo sotto controllo il proprietario. Questi era steso prono sui ciottoli, con un gomito sotto il viso e un’espressione seccata. Era riuscito a dar fastidio a quelli scimmioni di Lambert e Hunt ottenendo un successo indesiderato. Sbuffò osservando il sasso davanti a sé, prima di farsi forza con le braccia e mettersi a sedere.

    «Senti, ne possiamo parlare con calma? Non voglio certo farti male» proferì, cercando di accordarsi per una tregua. Rufus non sembrava invece in vena di chiacchiere, dato che si abbassò per prenderlo per i capelli, caricando un altro pugno. Cyril ebbe però la prontezza di tirargli un calcio in pancia, facendosi leva per rotolare lontano dai due. Si alzò in piedi di scatto, intenzionato a correre via, ma Hunt gli afferrò la spalla e gli fece fare una giravolta ritrovandoselo così faccia a faccia.

    «Non vorrai per caso scappare, moccioso?».

    Decisamente non stava andando come Cyril sperava. Un altro cazzotto lo colpì sullo zigomo e per poco non perse l’equilibrio. Non è certo semplice restare in piedi mentre qualcuno ti massacra di botte.

    «Non stavo scappando» spiegò, scuotendo veloce la testa per riprendersi e ottenendo il risultato opposto. «Volevo solo riscaldarmi».

    Lo stivale cinghiato e dal puntale in sèlas del ragazzo colpì con violenza l’inguine di Philip, che si piegò in avanti cercando di riempire d’aria i polmoni. Il sorriso che spuntò sulle labbra di Cyril non fu certo colto con ironia da Lambert, che lo afferrò per la camicia e lo strattonò violentemente. Dall’orlo dello steelsleeve spuntava un coltello appuntito che gli punzecchiò appena lo zigomo già sfregiato dal guanto meccanico dell’altro seccatore.

    «Che ne dici se ora ti scaldo un po’ io?».

    «Preferisco farlo da solo, mi dispiace».

    Quel sorrisino strafottente non piaceva per niente a Lambert, che aveva un brutto rapporto con le persone che osavano farsi beffa di lui, soprattutto in pubblico. Una piccola folla, infatti, si era raccolta a guardare lo spettacolo, come sarebbe dovuto accadere in un porto o in una bettola malfamata, non certo in una scuola d’élite. I tre litiganti erano nel mezzo del cerchio formatosi in pochi minuti e Rufus si sentiva fin troppo osservato. Gli era capitato spesso di essere al centro dell’attenzione mentre se la prendeva con qualche disgraziato capitatogli a tiro. Non era certo la prima volta che una rissa in cui era coinvolto diveniva di pubblico interesse e, se vogliamo essere sinceri, a lui piaceva che le persone si soffermassero ad ammirare quanta forza e quanta violenza era in grado di usare sui più deboli. Amava che la gente fosse a conoscenza del terrore che era in grado di provocare nel prossimo. Non gradiva, tuttavia, che la vittima lo prendesse per i fondelli e che, in particolar modo, sorridesse. Odiava a morte chi sorrideva sprezzante del pericolo, lo faceva sentire svilito e beffeggiato.

    Facendosi sopraffare da una furia cieca, tirò due destri in pancia a quel selenico che lo infastidiva tanto, continuando a sostenerlo per la camicia impolverata. Gli sferrò un ultimo colpo ben indirizzato, centrandolo dritto sulla mascella e vedendolo poi ruzzolare sul ciottolato. Il cuore gli batteva forte per l’esaltazione provocatagli dalla schiacciante vittoria appena ottenuta. Qualcuno dalla piccola folla scoppiò in una strana ovazione, così che Rufus si voltò a guardarlo soddisfatto. Aveva degli ammiratori, proprio come si meritava.

    Quella volta, però, la sorte volle che l’avversario di Lambert fosse un osso duro. Non nel senso che fosse forte fisicamente… era, piuttosto, cocciuto quanto un mulo.

    Sunny si affiancò al suo proprietario, iniziando a mordergli l’orecchio per destare qualche reazione. Aveva paura che fosse svenuto, ma, quando uno strano grugnito lasciò le labbra di quest’ultimo, le sue paure si dissolsero. Cyril era infatti steso a terra a tamburellare con le dita, intento a scrutare gli stivali della cerchia di curiosi. Piuttosto che restare lì, dolorante, avrebbe preferito essere sotterrato o, perlomeno, prenderne così tante da finire da un medico.

    Si alzò e batté le mani sui vestiti impolverati, sistemandosi alla meglio gli occhialoni in testa e rimettendoli dritti. La sua tosse simulata si fece sentire, irritante al punto giusto, così che Rufus si voltò esterrefatto a guardarlo. Il mechpet, allora, si allontanò, svolazzando qualche metro sopra le loro teste e continuando a emettere stonati stridii.

    «Bene, amico, ora che ci siamo riscaldati…» cominciò Cyril da bravo sbruffone, con sguardo grintoso, «Ti faccio vedere quanto gli steelsleeve siano inutili se indossati da ingombranti incompetenti come te».

    CAPITOLO 2

    Isaac Darcy non era amante del baccano generale che si creava alla fine delle lezioni. Tantomeno tollerava l’agitazione che invadeva i corridoi dell’istituto quando la partenza per gli addestramenti a bordo della nave scuola era ormai vicina. Aveva visto cosa poteva succedere nei giorni precedenti all’imbarco: la maggior parte dei ragazzi impazziva, tutti si esaltavano e iniziavano a raccontare avventure strampalate come se fossero dei vecchi lupi di mare con migliaia di esperienze alle spalle. Per non parlare dei novellini che avevano a che fare con il loro primo viaggio e non vedevano l’ora di mettersi al timone.

    Stava, per l’appunto, ascoltando un marmocchio del secondo anno che era seduto sulla balaustra del chiostro minore e chiacchierava tranquillo con il compagno. Dalle sue parole pareva quasi credesse che, una volta salito sulla nave, avrebbe girato per lo spazio e scoperto nuovi pianeti e forme di vita sconosciute.

    «Scommetto che non appena mi avranno a bordo si accorgeranno delle mie grandi doti di marinaio ed esploratore!» esclamò, facendo ridere l’amico che gli batté le mani come a lodarlo. Isaac scosse la testa e li superò, stanco di quelle fantasiose storielle che le matricole e i cadetti alla loro prima esperienza di navigazione s’inventavano. Ogni anno quegli stupidi ragazzini concepivano le peggiori idiozie e davano sfogo a tutte le loro fantasie di grandezza. Eppure non c’era nulla di così interessante, a differenza di quel che si immaginavano. Non c’era niente di avventuroso, anzi, la maggior parte del tempo la si passava a prendere appunti per la relazione che gli studenti avrebbero dovuto scrivere una volta fatto ritorno alla Queen Cyrene’s. Durante i viaggi che aveva intrapreso con la scuola non era mai accaduto nulla d’importante, se non lo scivolone del professor Caystock tre anni prima. L’episodio era diventato leggenda e lui era presente sul ponte quando Caystock era piombato sulle assi di legno bagnate ed era finito con il sedere a terra e i piedi all’aria. Era stata sicuramente la scena più movimentata a cui avesse assistito a bordo di un galeone.

    Questa viaggio, però, per Isaac sarebbe stato l’ultimo e si sarebbe rivelato completamente diverso. Era finalmente giunto alla fine degli studi all’accademia e, come da tradizione, avrebbe dimostrato le proprie doti di condottiero istruendo personalmente un gruppo di studenti più piccoli. Pensando al compito che gli spettava, un sorriso orgoglioso e pieno di speranze curvò le sue labbra. Non desiderava altro che conoscere quelli che sarebbero diventati i suoi pupilli. Avrebbe fatto i salti mortali per renderli dei marinai perfetti, così da dimostrare quanto valeva come comandante. Era sicuro che ai piani alti della marina britannica qualcuno gli avesse già puntato gli occhi addosso e non vedesse l’ora di metterlo al timone di una nave. Se lo sentiva e non aveva alcun dubbio riguardo al successo del suo compito. Aveva studiato duramente per cinque anni, riuscendo a ottenere ottimi risultati e, ora, aveva intenzione di farsi promuovere con il massimo dei voti. Anche i suoi seguaci sarebbero diventati bravi come lui e in futuro avrebbero fatto carriera, ne era certo.

    Isaac Darcy non aveva idea di chi fossero i ragazzi che avrebbe dovuto addestrare e si stava giusto dirigendo a scoprirlo, nell’ala ovest dell’edificio scolastico. Nell’aula magna, infatti, i professori erano riuniti per accogliere gli studenti del quinto anno che erano stati chiamati a colloquio e a cui veniva consegnata una pergamena su cui erano svelati i nomi dei propri compagni di viaggio. Il ragazzo fremeva dalla voglia di sapere chi avrebbe avvolto sotto la sua ala, così affrettò il passo finché si ritrovò davanti alla grossa porta in mogano della sala. Si passò la mano sui cortissimi capelli rossi e prese un gran respiro. Era pronto.

    Varcò la soglia e notò subito che, lungo il muro alla sua sinistra, erano state posizionate delle pesanti panche in olmo lavorato. Lì v’erano accomodati dei ragazzi che conosceva, intenti ad aspettare il loro turno. Uno di questi, Alan Westwood, era chinato sopra il libro di cartografia e di tanto in tanto lanciava occhiate veloci alla cattedra. Isaac andò a sedersi al suo fianco, sistemandosi la manica sinistra della divisa che gli ricadeva lungo il braccio. Controllò i bulloni sul gomito e sospirò quando si rese conto che avrebbe dovuto stringerli con una chiave inglese. Quello, però, non era il momento adatto per dedicarsi alla manutenzione del braccio meccanico, altrimenti avrebbe dato troppo nell’occhio. Non che volesse essere invisibile, ma, se proprio doveva farsi notare, l’avrebbe fatto mediante il perfetto svolgimento di un compito o un’impresa eroica, non di certo mostrando a tutti le parti artificiali del suo corpo.

    Naturalmente non vi erano dubbi sul fatto che Isaac fosse uno dei migliori studenti all’interno della Queen Cyrene’s visto l’impegno nel rispettare il regolamento e la costante dedizione allo studio delle materie teoriche, per non parlare dell’evidente abilità in campo nautico e meccanico. Era riuscito anche a diventare il responsabile del dormitorio durante l’anno precedente e di certo non era un ruolo di poco rilievo. Gli insegnanti lo consideravano davvero un ottimo allievo e alcuni erano sicuri che da lui potessero aspettarsi grandi cose. Il fatto che si trattasse di un cyborg non aveva influito granché nella sua carriera di cadetto, anche se molta gente, ma non tutta, andava matta per le installazioni meccaniche al posto degli arti originali, per i progressi della scienza e per chi si destreggiava efficientemente con tali congegni. Se solo avesse voluto, non ci avrebbe messo molto a farsi una cerchia di ammiratori fedeli anche fra i professori. Isaac, dal canto suo, preferiva che gli venissero riconosciuti meriti del tutto estranei al fatto di possedere protesi in sèlas, che riteneva più che tutto una disgrazia. Il braccio sinistro, infatti, non era il solo arto che aveva sostituito, anche la gamba e l’occhio sinistri avevano dovuto subire dei rimpiazzi, per non parlare di qualche costola e parte del bacino, di cui però non aveva parlato con nessuno.

    Fu solo dopo qualche minuto che Westwood notò Isaac nel posto accanto. Gli rivolse un sorriso di cortesia, un attimo prima che l’alunno alla cattedra si alzasse in piedi e il rumore prodotto dalle gambe della sedia che strisciavano sul pavimento in cotto risuonasse fra le alte mura affrescate. Tutti gli studenti in attesa si voltarono aspettandosi di essere chiamati, quando Caystock tossicchiò un Isaac Darcy ben udibile. Decisamente era un giorno fortunato per il cyborg, o perlomeno fu quel che pensò mentre si alzava e attraversava la stanza sotto gli occhi attenti e contemplanti di professori e studenti.

    «Buon pomeriggio, signor Darcy. Si accomodi pure».

    Alle parole del professor Paling, Isaac obbedì e prese posto sulla scomoda sedia in noce di fronte ai docenti. Pur mantenendo la calma in volto, interiormente stava ardendo dalla curiosità. Di sicuro gli avrebbero affidato due grandiosi apprendisti, dato che si meritava la migliore squadra dell’istituto.

    «La vedo tranquillo» esclamò con voce monocorde e tetra Paling, facendo da portavoce. «È una soddisfazione vedere allievi come lei arrivare qui ostentando un controllo assoluto. Mi congratulo con lei».

    Le labbra secche e violacee del professore si curvarono a fatica in una smorfia che avrebbe dovuto essere un sorriso. Si grattò compiaciuto i baffi a manubrio, prima di afferrare un foglio e allungarlo ad Isaac. Quest’ultimo cercò di non entusiasmarsi troppo, mantenendo un’espressione rilassata e matura.

    «Vi ringrazio». Riuscì a esprimersi in tono fermo, mentre afferrava la penna stilografica appoggiata sul tavolo. «Per me è un onore poter addestrare personalmente due giovani e potenziali cadetti».

    La sua firma sarebbe servita ad accettare di farsi carico dell’istruzione, delle azioni e delle vite dei cadetti che gli venivano affidati. Non desiderava altro che scribacchiare velocemente il proprio nome e sentirsi importante. Da quando ne aveva memoria, infatti, Isaac era sempre stato un amante delle responsabilità, del rispetto delle regole e dell’approvazione da parte degli adulti. Ogni volta che dimostrava di essere all’altezza dei compiti che gli venivano affidati e riceveva delle congratulazioni, si sentiva appagato in maniera indefinibile. La spiegazione a questo comportamento, però, c’era eccome. Non ti alzi un lunedì mattina qualsiasi desiderando di dare il meglio di te per raggiungere i piani più alti della marina di sua maestà la regina e dimostrare così di non essere un buono a nulla. Isaac Darcy era sempre stato intenzionato a far vedere a tutti quello di cui era capace. Non sarebbe mai marcito al porto di Whitby, continuando a lavorare come manovale per quel dispotico di Cook. Sarebbe diventato importante, avrebbe vissuto l’esistenza piena di gloria che, in passato, nessuno era stato in grado di donargli. Fu con questi pensieri che gli frullavano per la testa, che afferrò la pergamena e vi posò sopra lo sguardo brillante per l’euforia.

    «Abbiamo scelto con minuziosa attenzione i vostri due compagni di viaggio» fece lentamente il signor Paling, rassomigliando a un vecchio e boccheggiante pesce gatto fuor d’acqua. «Lei è senza dubbio la persona più adatta a… mi lasci pensare… ». Si bloccò, alzando i piccoli e tondi occhi neri verso il soffitto, in cerca di un aiuto esterno che arrivò dalla professoressa Smith.

    «… domare».

    «Oh sì! Domare è perfetto» continuò a quel punto l’altro insegnante, grato che qualcun altro avesse trovato l’esatto verbo di cui aveva bisogno. «Lei è il più adatto a domare il signor Peart e il prototipo D4n3».

    A quelle parole Isaac si sentì scottare la punta delle orecchie e un ghigno soddisfatto gli piegò le labbra. I suoi occhi scivolarono lungo le parole scritte a macchina sul foglio e si fermò a esaminare i dettagli riguardanti i propri compagni.

    Cyril Edward Peart

    Luogo di nascita: New St. Helens, Crisium, Selḗnē

    Data di nascita: 20 dicembre 167

    Classe: Seconda

    D4n3 Edison

    Luogo di nascita: Edison Corporation, Whitby, UK

    Data di nascita: 16 ottobre 164

    Classe: Quarta

    Si sentì non poco entusiasta di avere in tutela un ragazzino proveniente da Selḗnē e un computer organico prodotto dalla famosissima Edison Corporation. Il primo aveva di certo una straordinaria conoscenza delle colonie, mentre il secondo era sicuramente un cadetto perfetto. Non poteva chiedere di meglio. Adesso che era a conoscenza dei loro nomi, non vedeva l’ora di conoscerli e di stringere con loro un buon rapporto di squadra.

    «Domani, come stabilito, dovrà ritornare in quest’aula e alla cerimonia le saranno presentati i due cadetti con cui avrà a che fare» aggiunse infine Paling, tornando a pizzicarsi i baffi con fare stanco. «Può tornare alle sue mansioni, ora, signor Darcy».

    Il rosso si alzò e chinò il capo in segno di saluto, augurando agli insegnanti una buona giornata, prima di recarsi verso l’uscita. Tornato nel porticato del chiostro tirò un sospiro e s’infilò la pergamena nella tasca della divisa, avviandosi verso il giardino esterno dell’edificio. Avrebbe fatto una bella passeggiata osservando la situazione tra gli studenti, magari si sarebbe anche fermato a fare due chiacchiere con un simpatico cadetto. Avrebbero potuto scambiarsi qualche consiglio su come affrontare l’addestramento della propria squadra davanti a un buon tè e un paio di biscotti ai canditi.

    Questi erano i suoi piani finché non mise piede fuori dal portone principale dell’accademia. Nell’esatto istante in cui fu all’aria aperta, la sua attenzione venne attirata dalla calca straordinaria che si era formata qualche metro più in là della fontana. Alcuni schiamazzi gli arrivavano fino alle orecchie e poteva chiaramente distinguere delle urla d’incitamento e dei deboli applausi. Se qualcuno si stava di nuovo sfidando con qualche prodigio della micromeccanica e si erano aperte le scommesse sulla macchina vincitrice, era la volta buona che Isaac avrebbe riferito tutto al preside Hornsby. Non era passato molto dall’ultima volta in cui aveva scoperto una sfida clandestina tra un pollo con gambe meccaniche e una tartaruga artificiale che aveva bisogno di essere ricaricata a intervalli di venti minuti. Aveva chiuso un occhio purché promettessero di non organizzare simili buffonate all’interno dell’istituto, ma non lo avrebbe fatto di nuovo. Se avesse scovato ancora quel povero pollo spennacchiato e sofferente nel bel mezzo della ressa, lo avrebbe confiscato e cotto allo spiedo a prescindere da quanto fossero ingegnose le sue gambe meccaniche.

    Cercò così di mettere a fuoco quel che c’era nel mezzo della calca, ma non riuscì a capirlo. Fu costretto ad avvicinarsi e farsi spazio tra gli altri studenti. Con i suoi centonovantaquattro centimetri d’altezza non ebbe difficoltà a intravedere la scena che stava attirando tanta attenzione. Una rissa. Un’altra dannatissima rissa tra degli svitati attaccabrighe. Sospirò indolente e poi si voltò verso uno degli allievi al suo fianco.

    «Che sta succedendo qui, cadetto?».

    Questo lo guardò con due enormi occhi da strampalato e sorrise amichevolmente, quasi che lo conoscesse da una vita. Ad Isaac vennero i brividi, come quando sei in uno dei vicoli più scuri e lugubri della cittadina e ti ritrovi alle calcagna un poco di buono armato di coltello.

    «C’è una rissa» fece placidamente, mentre un brillio inumano gli attraversava l’iride di un blu quasi innaturale. «Si stanno azzuffando da otto minuti e quarantun secondi. Quello più alto è in vantaggio di cinque colpi sull’altro e ha una probabilità di vittoria pari al novan…».

    «Okay, okay. È abbastanza» esclamò il rosso fissando sconvolto e irritato quello strano tipo. Gli voltò le spalle non volendo sentire un’altra parola da lui, augurandosi di non incontrarlo mai più in tutta la sua vita. Non aveva tempo di ascoltare persone che blateravano numeri mentre c’era una lite in atto. Secondo il manuale, le risse all’interno dell’istituto erano severamente proibite e le punizioni sarebbero andate dal semplice turno di pulizie nei laboratori fino alla sospensione, in base alla gravità della situazione. Isaac non poteva di certo permettere che le regole venissero infrante in quel modo e che nessuno intervenisse per fermare la lotta tra i due.

    Non appena arrivò all’interno del cerchio, abbassò lo sguardo per osservare il ragazzino dai capelli bianchi che era caduto ai suoi piedi. Del sangue fresco gli colava sul volto e, a quanto pareva, le stava prendendo di santa ragione. Quando notò poi l’avversario, il rosso capì che non c’era nulla di cui stupirsi: Rufus Lambert aveva già causato abbastanza zuffe da renderlo famoso fra tutti gli studenti. Questa volta aveva deciso di dar spettacolo mettendo in mostra lo steelsleeve di ultima generazione che i genitori gli avevano regalato.

    Isaac non era pienamente concorde con il fatto che ai cadetti fosse permesso di indossare certi aggeggi nell’ambiente scolastico. Il preside, tuttavia, aveva stabilito che gli steelsleeve e quegli strambi mechpet potessero essere liberamente utilizzati senza abusarne. Il problema era appunto che chi possedeva uno di questi gingilli non faceva altro che vantarsene e fare baccano. A gente come Lambert e il suo compare avrebbero dovuto vietare di portare steelsleeve all’interno della scuola. Lo zigomo gonfio e sanguinante del ragazzino steso sul ciottolato era la prova evidente che quei due non facevano buon uso dei manicotti semi meccanici. Non erano nemmeno gli unici ad aver trasformato un’applicazione utile in una minaccia per la convivenza civile, dal momento che sul Whitby News avevano pubblicato una miriade di articoli riguardanti assassini e ladri che si servivano di steelsleeve con tanto di pistola integrata. Non tutte le innovazioni, come si sa, portano del bene. Isaac non era affatto contento che gente simile rendesse inutile lo sviluppo della scienza, trovando modi vili per utilizzarla.

    «Ragazzi, la festa è finita. Adesso basta con questa baraonda!». Decise di intervenire, abbassandosi poi per dare una mano alla vittima dei soprusi di Lambert e Hunt. Il moccioso puntò gli occhi in quelli del rosso, che notò immediatamente il colore insolito e i riflessi dorati.

    «Ce la faccio» sbottò questo, facendosi leva sui palmi delle mani sbucciati. «Ho la situazione in pugno!».

    Isaac si allontanò appena, squadrandolo mentre si alzava barcollante e si dava qualche pacca sul corpo per cacciare la polvere. Uno strano verso arrivò da sopra le loro teste e un piccolo draghetto argenteo, forse più tendente al platino da quanto riuscì a vedere Isaac, andò a posarsi sulla spalla del proprietario. Era un mechpet decisamente insensato, dato che aveva le dimensioni di una lucertola e, probabilmente, l’utilità di un fazzoletto da taschino.

    «Ehi, Darcy, non stava succedendo assolutamente nulla!» fece Rufus, con un sorriso viscido come un mamba nero. «Stavamo giusto discutendo sull’utilità dei nuovi steelsleeve».

    La piega strafottente nella sua voce era ben udibile e sia Isaac che Cyril la presero come una sfida. L’unica differenza fu che il primo si limitò a incrociare le braccia sul petto in modo minaccioso, mentre il secondo era già pronto a scattare e puntò il dito verso il suo rivale.

    «Questo è un oltraggio bello e buono! Nessuno ha mai detto che quegli obbrobri siano utili!». Il tono di voce del ragazzo platinato era qualche decibel sopra il livello sopportabile da Isaac.

    «Senza offesa, amico, ma hanno l’equivalenza di un fucile in mano a un qualsiasi psicopatico! Dovrebbero disarmarvi tutti quanti prima che qualcuno rimanga ucciso da uno spremiagrumi troppo appuntito».

    Durante lo sproloquio senza senso, Cyril indicò anche il braccio sinistro di Isaac, pensando che fosse coperto anche quello da una manica meccanica. Sunny, invece, emise un trillo fastidioso per far eco all’unica persona a cui avrebbe mai dato ragione nella sua vita da mechpet.

    «Questo non è uno steelsleeve. È il mio braccio» rispose con calma fin troppo calcolata il rosso, mentre i nervi iniziavano piano a tirarsi. Cyril lo guardò sgranando gli occhi con l’innocenza di un fanciullo al quale si dice di non rubare la marmellata e sta calcolando un piano diabolico per non far capire che è esattamente quello che ha intenzione di fare.

    «Oh. Wow. Sei un cyborg! Non è fantastico?» domandò il selenico al cerchio di spettatori che stava pian piano diminuendo. «Di’ a questi brutti ceffi ignoranti che gli steelsleeve sono un insulto a chi ha perso veramente parti del corpo! È da un’ora che cerco di farglielo capire!».

    «Dieci minuti e ventidue secondi, in verità!» disse qualcuno dalla folla che non venne preso in considerazione.

    Rufus sbuffò e si avvicinò a Cyril e Isaac con le mani in alto in segno di resa, era decisamente stufo di avere a che fare con quel ragazzino pedante e logorroico. Sarebbe stato meglio andarsene alla svelta, anche perché era risaputo che Isaac Darcy era un guastafeste di prima categoria e sarebbe stato capace di estrarre il manuale del regolamento per iniziare a elencare le punizioni a cui sarebbero stati sottoposti. Non era da escludere nemmeno il fatto che avrebbe potuto far rapporto ai professori, così che lui e Hunt sarebbero stati sospesi dall’accademia. Rufus sarà stato un attaccabrighe provetto, ma non era di certo stupido. Sapeva quando era ora di darsi una calmata per evitare di mettersi nei guai fino al collo. I suoi genitori non gli avrebbero mai perdonato una sospensione o una bocciatura. Suo padre era stato chiaro: se per caso l’avessero spedito a casa con una lettera del preside, l’avrebbe mandato a lavorare in una di quelle fabbriche fuori città, privandolo della paghetta mensile e obbligandolo a sopravvivere con i propri risparmi. Non era certo il futuro che Lambert prospettava per sé.

    «Senti, Darcy, ora leviamo le tende e promettiamo che non ci saranno più risse». Dicendolo si voltò verso Cyril e curvò le labbra in un sorriso che di sincero non aveva assolutamente nulla. «Giusto piccoletto? Non possiamo andare contro il regolamento!». Il cyborg alzò gli occhi al cielo, non riuscendo a tollerare un comportamento del genere. Purtroppo non poteva infrangere le regole tirando un pugno a quello stoccafisso di Lambert, non quando aveva appena sedato una lite. Se solo avesse potuto, gli avrebbe spaccato la faccia senza nemmeno servirsi del braccio meccanico, gli bastavano semplicemente le nocche della mano destra per fargli male.

    «Perfetto. Ora liberate il sentiero e andate a godervi la giornata!» suggerì, facendo in modo che anche tutti i curiosi lì accerchiati si rendessero conto che era ora di sloggiare. La maggior parte dei cadetti capì l’antifona e vide bene di dileguarsi per i giardinetti, passando il resto del pomeriggio a osservare i galeoni che transitavano sopra le loro teste.

    Isaac si guardò attorno un’ultima volta e, quando constatò che tutti gli avevano obbedito, si compiacque e annuì fiero. Aveva la stoffa del comandante, decisamente. Fece per incamminarsi, quando sentì una voce sgradita alle spalle, accompagnata da uno strepitio di passi. Non tutti lo avevano ascoltato, in effetti. C’era gente davvero ottusa in quell’accademia.

    «Quel tonno imputridito di Lambert ti da retta, eh? Grandioso! Sembra quasi che abbia paura di te, ma posso ben capirlo. Guarda che cos’hai al posto del braccio!» cinguettò tutto allegro il ragazzino appena salvato, mentre si raddrizzava gli occhialoni fra i ciuffi bianchi. «Da quanto ce l’hai? Funziona bene? Dalle mie parti sostengono che i cyborg siano fichissimi!».

    Il rosso batté un paio di volte le ciglia, non sapendo il motivo per cui quella piccola mosca platinata lo stesse seguendo e riempiendo di domande alquanto inutili. Restò immobile a fissare quelle iridi dal colore anomalo, prima di decidere che i capelli fossero la cosa più inquietante di tutto l’insieme. Andavano contro ogni legge fisica. Pensò che gli scienziati avrebbero dovuto studiarli, così, forse, avrebbero scoperto un altro modo per creare un campo gravitazionale sulle navi.

    «Dalle tue parti? Da dove vieni, ragazzino?» domandò gentilmente, più che altro per deviare il discorso, visto che sapeva bene da dove venisse. Preferiva evitare di dare spiegazioni riguardanti il suo braccio a uno sconosciuto, soprattutto se questo si dimostrava un marmocchio belante e casinista. Cyril, da parte sua, prese la domanda per vero e proprio interesse, quindi gonfiò il petto e ci si batté una mano.

    «Sono di New St. Helens, nel Crisium. Una città come un’altra, non so se la conosci!». A quelle parole Isaac scosse appena la testa, anche se il nome gli pareva familiare. Giurava di averlo già sentito o letto da qualche parte. «Sai, un amico che lavora come garzone dal pasticcere vicino a casa mia, dice sempre che le braccia meccaniche sono come una torta con della panna montata extra! Nonostante la ricetta non sia quella originale, è comunque più appetitosa! Ecco che dice!».

    Questa storia riuscì solamente a lasciare perplesso Isaac, che simulò un risolino nervoso e decise che sarebbe stato alla larga da quello strano individuo per il resto dei suoi giorni. Non aveva voglia di avere a che fare con qualche strampalato reietto, soprattutto se molesto come quello.

    «È solo un braccio come un altro. Non vedo che bisogno ci sia di prestargli tanta attenzione» mormorò, prima di ricominciare a camminare. «Comunque quel garzone ha dei seri problemi. È una metafora davvero pessima».

    Il più piccolo dei due rise divertito, alzando le braccia e facendo un salto per afferrare il draghetto che stava ancora svolazzando sopra di loro. Lo strinse fra le mani e con l’unghia gli diede dei colpetti sulla testa metallica.

    «L’ho sempre pensato anch’io. Elorn è decisamente con il cervello in orbita. Non so come faccia il pasticcere a sopportarlo!». Sorrise nostalgico, prima di tornare subito esagitato e correre al fianco di Isaac per guardarlo in volto.

    «Tu invece sei proprio un grande, amico! Scommetto che tutti ti rispettano».

    «Lo spero. Però, ragazzino, adesso vai a farti vedere in infermeria. Quei tagli ti faranno infezione».

    Detto questo, si voltò con il desiderio di staccarsi di dosso quella pulce. Il suo progetto di passare il pomeriggio davanti a un tè con un altro cadetto fu sostituito da quello di chiudersi in camera e non avere più contatti con il genere umano per le dieci ore a seguire. Ne aveva abbastanza.

    Cyril lo guardò allontanarsi, prima di fare qualche passo veloce per seguirlo e sventolare il braccio per aria. Gli stava proprio simpatico quell’ingombrante cyborg che aveva appena conosciuto. Dato che non aveva stretto molte amicizie, non gli sarebbe affatto dispiaciuto passarci un po’ di tempo insieme e magari diventare un po’ più intimi. Aveva bisogno di qualcuno con cui parlare e lui sembrava una delle poche persone decenti in mezzo a quell’accozzaglia di inetti senza scopi.

    «Ah! Io comunque mi chiamo Cyril, non ragazzino. Cyril Edward Peart. Cy per gli amici!» specificò, passandosi pensoso un dito sulla punta del naso. «Anche se qui non ho molti amici a dirla tutta. Sono sicuro che però, se ne avessi, mi chiamerebbero Cy!».

    Solo quando il ragazzo finì di parlare, Isaac si rese conto che quella sottospecie di piaga albina era uno dei cadetti che gli erano stati affidati. Per un attimo gli girò la testa e si sentì in procinto di svenire, ma si riprese alla svelta. Pensò che, se solo non avesse già firmato tutti i documenti, sarebbe immediatamente corso dal preside a lamentarsi dell’ingiusto trattamento subito.

    Ormai, tuttavia, era troppo tardi per cambiare le cose. Non poté fare altro che scuotere il capo e avviarsi zitto zitto verso il dormitorio, non senza aver prima maledetto quel destino tanto avverso.

    CAPITOLO 3

    La Queen Cyrene’s Royal Naval Academy era la migliore accademia navale presente sulla Terra, senza dubbio. Lo sapeva chiunque.

    I più grandi marinai avevano studiato lì e la maggior parte di loro era nata e cresciuta a Whitby. Si potrebbe infatti dire che la popolazione della cittadina avesse la navigazione nel sangue. Vi erano comunque studenti provenienti da tutto l’impero britannico desiderosi di diplomarsi proprio alla Queen Cyrene’s, ma essere accettati era davvero dura. Solo una cinquantina di prescelti tra i numerosi pretendenti riusciva a entrare, chi grazie a borse di studio e concorsi indetti dalla marina, chi grazie a un copioso versamento per la quota d’iscrizione o alla buona parola di un professore della scuola secondaria. Gli alunni provenivano da tutte le classi sociali, anche se, come c’è da aspettarsi, alta borghesia e aristocrazia rappresentavano la maggior parte del corpo studentesco. Per un ragazzino di umili origini, ottenere una borsa di studio era assai difficile e richiedeva un impegno costante, nonché grandi sacrifici. Eppure c’era chi avrebbe fatto di tutto per ottenere il posto in un istituto rinomato come quello.

    Chi non sognava di poter metter piede sulle colonie seleniche, un giorno? Chi non desiderava un’emozionante vita piena di avventure a bordo di uno di quei galeoni che fin da quando era fanciullo aveva visto passare nel cielo?

    Più o meno ogni bambino agognava di poter partire per lo spazio e raggiungere quelle terre lontane di cui aveva sentito solo parlare. Ognuno voleva essere al timone di una gigantesca nave e comandarne l’equipaggio, esattamente come facevano gli eroi dei libri che la mamma gli leggeva prima di dormire. Non c’era quasi nessuno che non volesse diventare il protagonista di una leggenda da tramandare alle generazioni successive.

    Tuttavia, c’era qualcuno che non aveva mai sognato di andare su Selḗnē e non aveva mai neppure desiderato una vita avventurosa, pur conoscendo parola per parola ciascuno di quei libri per cui i bimbi impazzivano.

    Se ne stava seduto composto su una delle panchine disposte in aula magna, con la schiena ben dritta e lo sguardo fisso davanti a sé. I suoi grandi occhi blu erano pervasi da una curiosità e un interesse che non avevano nulla di sano. Chi fosse passato accanto a lui e lo avesse visto di sfuggita non si sarebbe accorto di quanto fosse strambo. Guardandolo, era quasi impossibile notare la sua stranezza cosa che succedeva se, invece, ci si passava insieme tanto tempo. Tuttavia accadeva molto di rado. Il ragazzo non aveva mai avuto un amico in vita sua. A volte si domandava come avrebbe potuto essere un amico, sapeva solo che era un individuo con cui si aveva un rapporto di stima e lealtà e che, quando diventava più intimo di altri, poteva definirsi amico del cuore. Non era mai arrivato a capire che cosa significasse, riusciva a comprendere moltissimi concetti difficili, ma non gli affetti. Nei due anni precedenti si era imbarcato sul galeone e a ogni viaggio aveva cambiato compagni, poiché nessuna squadra lo aveva mai accolto e accettato veramente. Non appena rimettevano piede a terra, scappavano tutti dal preside Hornsby a piangere e pregare in ginocchio di non tornare mai più su una nave con lui. Davvero non riusciva a capirli, quegli umani assurdi e la loro strana concezione di rapporti affettivi.

    Questo ragazzo non aveva un nome vero e proprio, ma se è per questo non era nemmeno un vero e proprio ragazzo. Da quando era venuto al mondo nella sede della Edison Corporation, lo avevano sempre chiamato D4n3. I professori, per evitare di ripetere quella sigla durante l’appello, lo chiamavano semplicemente Edison, che altro non era che il cognome affibbiato a qualunque computer organico uscito da quella fabbrica.

    D4n3 non desiderava una vita avventurosa e non era legato a nessuno in quella scuola, eppure non avrebbe potuto andarsene. Ciò che lo teneva ancorato alla Queen Cyrene’s era che non aveva altro posto dove andare e, soprattutto, che era tenuto a restarci per finire gli studi. Una volta fuori dalla Edison Corp. i computer organici erano infatti destinati a vari incarichi, più o meno importanti, e quando venivano inseriti nel loro campo non avevano possibilità di cambiarlo. Tuttavia, a nessun computer organico era mai saltato in mente di rivoluzionare il proprio destino o di cercare il proprio posto nel mondo. Se erano stati progettati per diventare giudici, a ventitré anni si sarebbero trovati in tribunale, così come si sarebbero esibiti al Lyceum Theatre di Londra se il loro traguardo fosse stato diventare attori professionisti. Da quando la Edison Corporation aveva iniziato a creare questi prototipi perfetti e più intelligenti di qualsiasi umano, nessuno di loro aveva fallito nel proprio scopo. Era una fortuna che ne producessero solo cinque o sei all’anno, altrimenti avrebbero potuto oscurare il futuro brillante di molte persone e queste non ne sarebbero state molto felici.

    Anche se quella militare era l’unica carriera che poteva seguire, a D4n3 piaceva ciò che faceva. Studiare per lui non era un problema, i viaggi nello spazio lo affascinavano e, inoltre, era davvero a suo agio a bordo del galeone. La cosa che lo differenziava dagli altri, oltre al fatto di essere un computer organico, era che non aveva alcuna ambizione, non gli importava diventare un eroe o un personaggio famoso. A nessun computer organico, d’altronde, interessava avere successo: sapeva semplicemente che avrebbe eccelso in ogni cosa che avrebbe fatto. Come tutti quelli della sua specie, D4n3 non aveva mai avuto alcun sogno fin da quando era stato progettato. Sognare non era una necessità, per chi era già sicuro della strada che avrebbe percorso e della meta che avrebbe raggiunto.

    Nemmeno il ragazzino che gli si sedette di fianco in quel momento smaniava di vivere esperienze straordinarie. Piuttosto che andare all’accademia navale avrebbe preferito diventare garzone del panettiere, ma solo perché Elorn gli aveva già soffiato il posto dal pasticcere. La sua più grande aspirazione era aprire una pasticceria e vendere i migliori dolci di Selḗnē. Non chiedeva altro che restare nella città in cui era nato e cresciuto.

    Anche mentre se ne stava su quella scomoda panchina di legno, Cyril pensava a come sarebbe stata la sua vita se fosse rimasto a New St. Helens a fare un qualsiasi lavoro. Era sicuro che avrebbe preparato il miglior pane della cittadina e LeeAnn gli avrebbe chiesto di prendere il tè insieme, su una tovaglia bianca stesa ai giardinetti pubblici. Avrebbero mangiato dei tramezzini alla marmellata di fragolanoce, osservando i fenicotteri e i cigni nel laghetto.

    Sbadigliò seccato allargandosi il colletto della camicia della divisa e poi distese le gambe, tirando distrattamente un calcio alla panchina dinanzi alla loro. Gli faceva male tutto, dai tagli sul viso alle costole, ma non poteva far altro che restarsene lì ad ascoltare le chiacchiere del preside. Decise di staccarsi dal braccio almeno un cerotto, per non sembrare un poveraccio. Fu in quel momento che ebbe una strana sensazione. Si voltò di scatto e vide un cadetto moro che lo fissava come se non avesse mai visto una persona prima di allora.

    «Hai una paralisi facciale?» chiese, aggrottando le sopracciglia, e D4n3 sgranò ancora di più gli occhi. Era decisamente inumano. In effetti lo era sul serio, ma era difficile capirlo a un primo sguardo, dal momento che i computer organici erano esattamente come gli umani, se non altro all’esterno. La pelle, anche al contatto, risultava della stessa consistenza di quella umana e persino la temperatura era invariata, anche se non avrebbe mai potuto salire sopra i trentasette gradi, dal momento che non potevano ammalarsi. Tutto era umano in lui, tranne quell’espressione.

    D4n3 si spostò i lunghi capelli color dell’ebano dal volto, mentre sulle sue labbra si dipingeva un sorriso da psicopatico. Non riuscì a fare nient’altro, perché era troppo occupato a emozionarsi per il fatto che qualcuno avesse preso posto accanto a lui. Era un avvenimento a dir poco eccezionale! Tutti lo evitavano come la peste data la fama che aveva all’interno della Queen Cyrene’s. Evidentemente, il ragazzino appena arrivato ne era all’oscuro. Cosa più che concepibile, dato che Cyril non aveva amici con cui parlare e passava la maggior parte del tempo con il proprio mechpet.

    «No, no! Nessuna paralisi, vedi?».

    In quel momento l’espressione del computer organico diventò ancora più inquietante. Cyril restò vagamente perplesso nel vedere lo strano individuo vicino a lui muovere le sopracciglia per dimostrare che poteva ancora comandare i propri muscoli. Si grattò la nuca prima di guardarsi attorno pianificando mille modi diversi per fuggire senza fare troppo baccano, ma quasi tutti i posti erano occupati. Gli parve strano, perché di solito non era per niente sfortunato. Ma, ahimè, non poteva certo sapere che il fato lo stava appoggiando anche in quell’attimo. Dovette rassegnarsi e tornò quindi a posare lo sguardo sul moro, che ancora stava ridacchiando e ammiccando. C’era qualcosa di assolutamente strano in lui, o perlomeno così pareva a Cyril. Quelle singolari fasce di cuoio che gli spuntavano dai capelli a mo’ di piume, accompagnate da ancora più strambe rotelle d’ingranaggi e tubi, riuscivano a renderlo più inquietante. Non che l’acconciatura fosse la più strana che il ragazzo selenico avesse visto, dato che sua madre era solita infilarsi fra i capelli addirittura dei fiori, delle piume di pavone, delle tazzine e degli orologi. Per non parlare degli animaletti impagliati: un vero e proprio insulto al buon gusto.

    La sua attenzione, tuttavia, venne catturata da una più sobria testa ramata che spuntava dal gruppo di studenti appena giunti nell’aula magna. Alzò un braccio e agitò l’aria sopra di lui, cercando di attirare lo sguardo di quel simpatico Isaac Darcy.

    «Ehi! Ehi Darcy! Ciao!» strillò, felice di averlo riconosciuto nella calca,

    «Vieni a sederti qui. C’è posto!».

    Quest’ultimo si voltò, come fecero altre venti persone, nel sentire gli schiamazzi poco eleganti di Cyril. Non appena notò che non solo quella calamità lo stava chiamando, ma addirittura accanto a lui era presente il pazzoide che sparava numeri, decise di tirare dritto e snobbarli. Sapeva che avrebbe dovuto comportarsi diversamente, visto che il moccioso era uno dei suoi compagni di squadra, ma non aveva la minima voglia di doverlo sopportare fin da subito. Non quando aveva ancora la possibilità di evitarlo, visto che a breve si sarebbero ritrovati a dividere addirittura la cabina a bordo del galeone. L’unica cosa che teneva viva la sua speranza era la certezza che il computer organico sarebbe stato un seguace migliore.

    Cyril lo guardò sparire qualche fila più avanti e corrugò la fronte, cercando di capire perché il rosso non lo degnasse di uno sguardo. Si erano trovati bene a parlare il giorno precedente, quindi, perché non stringere amicizia? Si alzò e corse tra le panche per trovare Isaac, mentre D4n3 lo guardava senza più muovere un muscolo. Era di nuovo solo, ma non gli importava più di tanto. Aveva con sé, nella tasca della divisa, l’unica cosa a cui era profondamente affezionato e questo poteva bastare.

    Il selenico, invece, era felice di essersi allontanato da quel pazzo, ma ancora non sapeva che lo avrebbe incontrato presto e si sarebbero ritrovati nella stessa squadra. Se fosse stato a conoscenza di quel che lo aspettava, con tutta probabilità avrebbe iniziato a lamentarsi e sarebbe scappato su Selḗnē con la prima nave. Tuttavia, in quel momento, la sua principale preoccupazione era trovare un posto accanto ad Isaac. Quest’ultimo si era infatti seduto sull’orlo di una panca, vicino a un allievo del terzo anno con un’acne da paura, tanto che c’era il rischio che il viso gli esplodesse a momenti. Cyril lo osservò con disgusto malcelato, prima di rivolgere un’occhiata al rosso.

    «Ti ho chiamato quando sei arrivato, ero su una panchina totalmente libera» esclamò con la voce che era un tripudio di campanellini da festa, riuscendo così a irritare maggiormente Isaac. Lui, in tutta sincerità, stava pensando a un modo qualsiasi per provocare una frattura alla gamba del moccioso platinato, così da non permettergli di partire con il resto dell’equipaggio. I professori, però, entrarono in quel momento dalla porticina laterale accanto all’enorme cattedra e fu costretto a rinunciare ai suoi intenti.

    Tutti gli studenti che ancora non avevano preso posto si affrettarono a trovarne uno e Cyril dovette sedersi sulla panca davanti a quella di Isaac, restando pericolosamente in bilico. Sarebbe bastata una minima spinta da parte del suo vicino e si sarebbe ritrovato con il sedere all’aria in mezzo alla grande sala. Per quanto fosse oggettivamente un bellissimo ragazzo, non voleva affatto avere ogni sguardo puntato addosso.

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