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Levati Sole: Diario umoristico di un italiano residente in Giappone
Levati Sole: Diario umoristico di un italiano residente in Giappone
Levati Sole: Diario umoristico di un italiano residente in Giappone
E-book183 pagine2 ore

Levati Sole: Diario umoristico di un italiano residente in Giappone

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Info su questo ebook

Salve a tutti, sono Davide. Nasco negli anni Settanta e come per molti della stessa generazione il mio destino fu segnato quando qualcuno in famiglia decise di sintonizzare la tv sulla Rai, proprio nel momento in cui veniva trasmessa la prima puntata di Goldrake. Molti anni, una laurea in Lingue Orientali e un capitale dilapidato in ogni cosa avesse anche lontanamente a che fare con la cultura giapponese dopo, mi sono trovato per motivi di lavoro a Tokyo. Quello che doveva essere un breve soggiorno di un paio di mesi, mio malgrado è venuto a trasformarsi in un lungo decennio ricco di esperienze, disavventure, disfatte e conquiste. Questi racconti umoristici vogliono essere uno sguardo ironico ad alcune vicende che hanno caratterizzato la mia vita di quegli anni e ai personaggi che ne hanno fatto parte. Dedico la mia umile opera minimalista a tutti coloro che sono interessati al Giappone ma cercano un punto di vista nuovo, schietto, senza i filtri della retorica che fin troppo spesso hanno idealizzato questa cultura ampiamente fraintesa. Buona lettura.
LinguaItaliano
EditoreHotei
Data di uscita14 lug 2017
ISBN9788826479576
Levati Sole: Diario umoristico di un italiano residente in Giappone

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    Anteprima del libro

    Levati Sole - Davide Sorgi

    sovrannaturale?

    Eroi metropolitani

    Era una giornata insulsa come tante altre. Alle sette e quaranta di mattina mi stavo recando al lavoro con una quantità di entusiasmo inversamente proporzionale alla caffeina che avevo in corpo. Il treno, in perfetto orario, impeccabilmente pulito, mi avrebbe ancora una volta portato da Nakano fino al centro di Shinjuku. Proprio quella famigerata Shinjuku, uno dei posti più affollati del Giappone, uno dei primi in cui mi sono perso pure più di una volta. Anzi, per la precisione, mi sono perso dentro alla sua stazione che di fatto ha le dimensioni di un paesino sovraffollato.

    Per darvi una vaga idea, il ciclopico dedalo si sviluppa su tre livelli, due sotterranei più uno in superficie, escludendo gli innumerevoli centri commerciali nei grattacieli sovrastanti. Calpestata quotidianamente da una media di quattro milioni di esseri umani tra visitatori, uomini d’affari, studenti, la stazione richiede anche all’esperto oltre quindici minuti per essere attraversata da Ovest verso Est. Ovviamente conoscendo le scorciatoie, le uscite esatte, che per intenderci ammontano a ben duecento! Non so se mi spiego.

    Ormai dopo anni di frequentazione io avevo una rotta ben stabilita e la seguivo spavaldamente. Ma non al momento, perché ero ancora incastrato nella scatoletta metallica su rotaie.

    Verso le otto meno dieci il treno arriva puntualissimo ed inizia l’ineluttabile rituale di quella che io chiamavo l’evacuazione mattutina. Schiacciato tra le persone come uno stronzo in un intestino pigro, cerco inutilmente di farmi strada nella carrozza a suon di gomitate, pestoni e colpi di reni. Si aprono le porte e tra una cacofonia di passeggeri gementi, pianti strozzati e peti, credo anche qualche bestemmia locale, vengo espulso a fatica da questo sfintere metallico con tutti gli altri pendolari. Mi unisco allo sciacquone di persone assonnate che fluisce lento ma inesorabile verso la meta, accompagnato da mille inutili annunci, irritanti motivetti musicali vomitati dagli altoparlanti ad ogni angolo. Decisamente il modo ideale di iniziare una lunga giornata in ufficio.

    Ma in fondo, di cosa mi lamentavo? Avevo realizzato il sogno di una vita. Ero diventato anche io un sarariman, un impiegato giapponese. Ero una di quelle formiche samurai, dedite al sacrificio per la sopravvivenza della ditta-clan, per il successo del manager signore feudale. Onestamente niente di più aberrante, antitetico alla natura dell’italiano medio, libero di spirito e paraculo di vocazione.

    Hai deciso di vivere a Tokyo? mi dicevo. Zitto dunque! Fai quello che fanno tutti.

    Del resto se volevo mantenere il visto lavorativo e avere la ciotola di riso quotidiana dovevo andare avanti.

    Non capivo tuttavia cosa spingesse questo popolo al supremo sacrificio del proprio io, alla rinuncia degli spazi personali, per un bene che francamente non ritenevo superiore, il lavoro d’ufficio.

    Mi rincuorava il pensiero che in mezzo a questo omogeneizzato borghese dovesse esserci ancora un barlume di speranza, delle sacche di resistenza al sistema. Sì, pur essendo il trionfo del conformismo, la società giapponese aveva dei baluardi di individualità, eccentriche espressioni di genio incompreso. Io alcuni di questi eroi metropolitani li avevo trovati sparsi un po’ ovunque nelle principali stazioni di Tokyo. Come tutti i personaggi usciti dai fumetti oltre ad avere un costume, dovevano avere un nome. E alcuni infatti ce l’avevano. Ad altri invece un nome lo avevo assegnato io.

    C’era il maratoneta di Shibuya, un signore anziano in completino pantaloncini-canottiera azzurri, scarpe da tennis, elmetto con borracce e cannuccia, sempre di corsa trecentosessantacinque giorni l’anno.

    Il cappellaio matto di Harajuku, altro vecchietto di sessanta chilogrammi di cui trenta solo di cappello a forma di torta nuziale decorato con orsetti di pezza, bambole, collanine di plastica, pigne. Come se non bastasse sfoggiava ai lati della testa ampolle colme d’acqua con pesci rossi vivi come orecchini. E ancora il nonno studentessa Sailor-fuku Ojisan di Akihabara, un arzillo ometto rubicondo e calvo, con una lunghissima barba candida raccolta in due graziose trecce, con addosso la tipica marinaretta blu e bianca delle liceali giapponesi. Con tali premesse, come stupirsi che negli anni sia diventato una celebrità di vari spot televisivi.

    Ma a parte questi, io vorrei parlarvi delle leggendarie figure che mi capitava di incontrare andando o tornando da lavoro, a Shinjuku appunto.

    Anche quel giorno contavo sul fatto di poterne incontrare almeno un paio. La loro sola presenza avrebbe portato un vento di ottimismo nella mia settimana. Mentre stavo imboccando l’interminabile corridoio che mi avrebbe guidato dall’uscita centrale di Shinjuku-Nishiguchi fino all’ufficio, noto il fiume umano che si apre e si richiude su se stesso per evitare un apparente ostacolo, come l’acqua che scorrendo accarezza i lati di una roccia delineandone il perimetro. Scorgo una macchia di colore agitarsi freneticamente in mezzo alle persone impassibili. Sorrido con ammirazione. Non c’erano più dubbi, era lui, il Chiappetta. L’uniforme che il Chiappetta stoicamente indossava in ogni stagione, temperatura o condizione meteo, era ricercatissima. Consisteva in zeppe vertiginose, shorts di jeans che lasciavano scoperti più di tre quarti di natica, stereotipica camicetta con maniche corte a sbuffo annodata sopra l’ombelico che timidamente copriva il suo petto nudo. A volte mi era capitato di vedergli sfoggiare un reggiseno in pizzo. Mezzo calvo ma scarmigliato, muscoloso, perfettamente depilato, in volto un filo di rossetto e ombretto. Nella mano sinistra era solito impugnare il filo a cui erano annodati tre palloncini colorati che fluttuavano nervosamente sopra la sua testa, come uccellini in panico. Cosa dire, era una diva da strip club intrappolata in un uomo di mezza età.

    Avevo già avuto occasione di vederlo all’opera, e anche quel giorno si stava esibendo nella sua routine preferita, la raccolta delle riviste. Dopo aver sparso tutto attorno a sé magazine di vario genere, camminava a gran passi secondo una coreografia che solo lui poteva decifrare ridendo istericamente, parlando sguaiatamente da solo. La mossa successiva consisteva nel piegarsi platealmente a novanta gradi mettendo maliziosamente in mostra le cosce lucide, perfette e i glutei scolpiti nella roccia. Con maestosi gesti delle braccia, afferrava quindi le riviste per poi riporle in sportine di plastica del supermercato appoggiate ai piedi di una colonna, in effetti se mi è concesso, una piccola caduta di stile. Io lo osservavo piroettare continuando la mia marcia non potendo che constatare una cosa ovvia che i suoi connazionali si sarebbero sempre rifiutati di ammettere. A differenza di tutti gli altri attorno che si sforzavano di ignorarlo, era sì un demente, ma libero e soprattutto felice. Lui, il Lunedì mattina rideva, nessun’altro. Credo che questo fosse il vero motivo del celato turbamento generale.

    Applaudo commosso dentro di me, lo saluto con la mente. Continuo il mio cammino sperando di incontrare qualche altro fenomeno. E l’apparizione non si fa attendere a lungo.

    Più avanti mi accorgo di un signore irritato che cerca di non inciampare in una cosa indefinita che sembrava muoversi di vita propria sul pavimento. Ad un’occhiata distratta poteva sembrare un topo, uno scoiattolo, meglio ancora, un riccio, lanciato all’inseguimento di un signore vestito di scuro. Ma io sapevo benissimo cosa fosse e anche a chi appartenesse. Questo paladino urbano era forse più consapevole del suo ruolo rispetto al Chiappetta in quanto un nome se lo era dato da solo e lo sbandierava con un cartello.

    Si chiamava Tawashi-ojisan, che potremmo tradurre come Zietto-spazzolone, Uomo di mezza età-spazzola. Ben inteso, le tawashi non sono quelle graziose coloratissime minchiatine fatte all’uncinetto e vendute su internet, tutt’altro. Sono delle rozze, ispide spazzole di paglia tenute assieme da un anima di ferro, solitamente marroni. Tawashi-ojisan forse per solitudine, velleità artistica, o semplice egocentrismo, ne aveva trasformata una in animaletto domestico. Se la trainava dietro al guinzaglio ovunque andasse irritando tutti i passanti che rischiavano di spezzarsi l’osso del collo nel tentativo di scansarla.

    Ovviamente il costume del nostro eroe non poteva limitarsi a questo. Alternava una serie di copricapi che andavano dal cilindro, alla bombetta inglese fino a spingersi ad Halloween al cappello da strega. Rigorosamente in giacca e cravatta, valigetta, sobria mantella corvina lunga, alla Harry Potter per intenderci. Ma il tocco di classe era dato dal fatto che la spazzola-animaletto sfoggiasse gli stessi ornamenti del proprietario. Cappello e mantello lui, mini-cappellino e mini-mantellina lei. Uno spettacolo per gli occhi. Va detto anche che Tawashi-ojisan di spazzole doveva averne un esercito a casa dal momento che mutavano di forma quotidianamente. A volte avevano le fattezze di un riccio, altre di tartaruga, capibara e chi più ne ha più ne metta. Gliene avevo visto trainare fino a quattro alla volta ma voci incontrollate affermavano che il numero stesse crescendo esponenzialmente.

    A mio avviso però rimaneva un personaggio dalle connotazioni malinconiche, con una sua filosofia di vita. Mi era capitato infatti di leggere una frase illuminante tra i suoi svariati cartelli che lo elevavano al di sopra del rango di pazzo comune. "Meglio trascinarsi dietro una spazzola tawashi che il peso di una vita di ricordi infelici" o qualcosa di simile. Poetico, d’effetto. L’uomo sapeva il fatto suo.

    Comunque recenti testimonianze riferiscono che anche il nostro tristemente solingo paladino alla fine abbia trovato una degna compagna, un’anima gemella, Tawashi-oneesan la sorellina o giovane ragazza con la spazzola. Dio li fa e poi li accoppia anche in Giappone.

    Schivata la spazzola evitando miracolosamente di schiantarmi al suolo proseguo nel mio cammino. Dal piano sotterraneo in cui ero rimasto fino ad allora prendo una scala mobile emergendo finalmente al piano terra di Shinjuku-Nishiguchi. Proprio lì dove non mi sarei mai aspettato di vederlo mi trovo difronte a Tiger Mask, il primo più famoso in assoluto dei giustizieri. Una presenza garantita a Shinjuku-Higashiguchi, il lato opposto alla stazione rispetto al mio ufficio in realtà, zona che bazzicavo nelle pause pranzo. Proprio come il suo omonimo dei fumetti giapponesi anche questo Tiger Mask indossava appunto una maschera di tigre.

    Anziché essere un famoso lottatore di wrestling il baldo giovane era un ben più mondano nonché eccentrico garzone addetto alla consegna dei quotidiani porta a porta. Inutile dirvi che il suo costume non si limitasse ad una banale maschera di tigre. Chi avrebbe notato un fattorino mascherato a Tokyo? Nessuno appunto. Per questo suppongo che Tiger Mask, oltre alla maschera avesse deciso di indossare una parrucca rosa riccioluta, fosse interamente ricoperto di peluche, rami di plastica con foglie d’acero gialle e rosse, foulard, copri pantaloni, cavigliere decorate da sfarzosissimi fiori, ventagli. Portava anche una borsa a tracolla che a malapena si intuiva in quel carnevale di colori. Era il mito di molti turisti stranieri, sempre gentilmente disponibile per foto di gruppo o indicazioni stradali.

    Era un eroe anche per me. Un vero guerriero che a colpi di consegne, tanto ma tanto sudore soprattutto d’estate, lacrime e sangue, combatteva la mediocrità. E cazzo ….. stava vincendo alla grande.

    In quei frangenti spinto da spirito d’emulazione l’immaginazione iniziava a volare. E se anche io fossi diventato un vendicatore mascherato? Potevo aspirare anche io un giorno a trasformarmi in uno di loro? Già mi vedevo come un immigrato Spider Man, con la cravatta portata elegantemente sopra ad una calzamaglia rossa ornata di tele, camminare sulle pareti di vetro volando tra i grattacieli di Tokyo, lanciando saluti e segni di vittoria ai turisti in visibilio, sereno, distratto. Tanto che crimini da strada avrei mai dovuto sventare? La città ha uno dei tassi di criminalità più bassi al mondo. Una pacchia.

    Ma fermi tutti. Mi vibra il telefono. Un messaggio di mia moglie.

    Buon lavoro tesoro, fatti forza.

    Alzo lo sguardo. Sono ai piedi del palazzo che ospita il mio ufficio. Spider Man si schianta rovinosamente al suolo e torna l’impiegato.

    Che tristezza.

    Profumo d’autunno

    Durante la mia vita all’estero, prima in America e ora in Giappone, mi sono reso conto che la mente tende a ricordare in maniera molto nitida sapori, odori, immagini associate a circostanze insolite, ambienti inusuali, sperimentati per la prima volta. Questi ricordi si cristallizzano nella memoria al punto di divenire simboli inconsci che rievocano sensazioni di meraviglia ed entusiasmo ogni qualvolta le medesime circostanze si ripresentano. Il mio cervello aveva registrato il caldo torrido, cactus, cowboys, torta di mele e tacchino ripieno come America. Per quanto riguardava il Giappone potrei dire che un ruolo similare l’avevano i tifoni, i distributori automatici di bibite, l‘umidità, l’architettura buddhista e i colori autunnali. Sia io che mia moglie adoravamo l’autunno, il periodo in cui avevamo messo piede a Tokyo per la prima volta. In questa stagione aumentava puntualmente la voglia di esplorare le aree della nostra città adottiva. Ovviamente quelle aree dove il cemento non aveva ancora sopraffatto del tutto la natura. Proprio per questo non potevamo chiedere di meglio che vivere a Suginami, un comune molto vicino al centro nevralgico della frenetica vita giapponese, ma insolitamente verde e tranquillo. Va precisato infatti che dopo svariati anni passati a Tokyo, luoghi turistici popolarissimi ed affollatissimi come Asakusa, Ginza, Roppongi, Shibuya o Akihabara, non erano nemmeno lontanamente nella lista delle possibili opzioni. Seppur esotiche mete stravaganti, dopo qualche tempo avevano perso ai nostri occhi la magia che le caratterizzava agli inizi del nostro lungo soggiorno.

    Per questioni di lavoro eravamo sempre e comunque ostaggio della vita mondana di questa megalopoli. E’ quindi facile immaginare che durante le nostre camminate rifuggissimo dal caos e dalla folla nipponica il più possibile, immergendoci quindi nella quotidianità dei vicoli,

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