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SociaList: Diario di rete 2013 - 2017
SociaList: Diario di rete 2013 - 2017
SociaList: Diario di rete 2013 - 2017
E-book441 pagine6 ore

SociaList: Diario di rete 2013 - 2017

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Info su questo ebook

Vivere attivamente la vita dei social media comporta impegno, pazienza, dedizione. In gioco, dentro la palestra dei social media, c'è la propria immagine, per come la si vuole costruire e gestire pubblicamente. Roberto Maragliano ha fatto questa esperienza per cinque anni. Ne dà conto in questa sorta di diario pubblico, che filtra un'ampia serie di tematiche scolastiche e universitarie. Ma anche editoriali, artistiche, letterarie, politiche.
LinguaItaliano
Data di uscita18 dic 2017
ISBN9788827536643
SociaList: Diario di rete 2013 - 2017

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    Anteprima del libro

    SociaList - Roberto Maragliano

    Ringraziamenti

    Presentazione

    Negli ultimi cinque anni ho fatto molta vita social. E qui se ne trovano abbondanti tracce.

    Dovessi riassumere in una frase le ragioni di questa esperienza, direi che ho voluto, così, dare un contributo fattivo alla ricostruzione della mia immagine pubblica.

    Non sembri presuntuosa questa affermazione. C’è indubbiamente, come negarlo? un elemento narcisistico, in tutto ciò. Ma c’è anche dell’altro.

    Come docente universitario e come autore di testi in forma di libri, saggi, articoli ecc. ho svolto per più di quattro decenni un (limitato) ruolo pubblico. Non importa qui che si entri nel merito di come l’ho svolto, né ovviamente tocca a me farlo. Piuttosto, è il caso di far notare che l’esercizio di tutte e due queste funzioni, professore e autore, danno inevitabilmente una caratterizzazione specifica a quella che ho chiamato ‘immagine pubblica’. Sei il ‘prof’, sei ‘quello che ha scritto determinati libri’, ecc.

    Ciò che più mi ha spinto ad essere così assiduo nei social è il fatto che quel tipo di caratterizzazione mi sta stretto. Ma così era anche nei tempi passati. Sarà per effetto di una mai sopita vocazione libertaria, fatto sta che, in non poche occasioni, e soprattutto in quelle in cui si esercita il confronto delle idee, preferisco agire ‘senza rete’, mi va insomma di rinunciare al ‘piedistallo’.

    Nei social, se li si vive con assiduità e ampiezza, si è perlopiù senza etichetta, non sono garantite reti di salvataggio né basamenti protettivi. C’è sempre, in quel che uno scrive e soprattutto per come viene letto, una componente di anonimato, ed è proprio questa componente che favorisce dialogo e confronto pubblici, talvolta anche serrati e duri. Il ‘lei non sa chi sono io’ (ma senza esclamativo!) è una delle fondamentali regole di reciprocità dell’interazione pubblica, assieme all’altra del ‘lei sa (solo) cosa scrivo qui’. Le discussioni, lì in rete, tendono ad essere ‘alla pari’.

    Anche troppo, secondo alcuni.

    Io la penso diversamente, e mi figuro i social come un’interessante palestra entro cui esercitare una sorta di scrittura dialogica.

    Scrivi e da come altri interagiscono con te vieni direttamente a sapere, subito o quasi (e comunque con tempi molto più ristretti di quelli della stampa, pure di quella periodica), che sei stato letto. Soprattutto come lo sei stato. Ciò paradossalmente vale anche quando non c’è interazione, se dunque non compare nemmeno un like a sostegno di quanto hai scritto. In quel caso non sei stato letto o quanto hai lasciato scritto non ha meritato attenzione. Comunque, già saperlo è bene, anzi un bene che, se vuoi, potrai mettere a frutto quando ti capiterà di scrivere nelle forme e nei contesti tradizionali. Ricordati, insomma: una delle ragioni per cui scrivi è perché qualcuno ti legga. Auspicabilmente in modo libero.

    Sono modalità di comunicazione, quelle di cui sto dicendo, assai diverse, com’è evidente, dalle forme della produzione accademica o saggistica, garantite dai piedistalli dell’istituzione universitaria ed editoriale, ed anche da quella giornalistica.

    Tutto questo può piacere. O anche dispiacere. E, di conseguenza, uno può legittimamente decidere di non sperimentarla, la scrittura social. Anche se è prof, o pubblicista, o giornalista. O forse proprio per questa ragione, proprio per tenere quelle figure al riparo delle intemperie. Del resto, non si danno vincoli, su una simile materia. Paradossalmente, per preservare la propria identità pubblica tradizionale, e nello stesso per mettersi in gioco con l’interazione, uno che fosse curioso potrebbe ricorrere all’anonimato. Ma non tutti quelli che pubblicamente scrivono sono curiosi in fatto di meccanismi di scrittura, e lettura.

    Io di questa pratica dello scrivere interattivo ho fatto e continuo a fare esperienza per un’ulteriore ragione personale che, voglio chiarirlo, aspira ad essere intesa come sufficientemente diversa da quella narcisistica, non fosse altro perché ha o mira ad avere una fondatezza politica. Inoltre, con l’esporla mi dovrebbe riuscire di giustificare, qui, quel ‘ri’ che ho inizialmente associato alla costruzione della mia personale immagine pubblica.

    Il periodo dei cinque anni (dal 2013 al 2017) che perimetra il mio diario social è anche quello in cui sempre più pronunciata s’è fatta, almeno ai miei occhi, la crisi della formazione universitaria di settore: il settore, per intenderci, dell’educazione generale e di quella indirizzata ai docenti scolastici, futuri e/o già in servizio.

    Essendomi sempre occupato del rapporto fra educazione e media, ed avendo interesse ad individuare i meccanismi di funzionamento della didattica soprattutto all’interno di quel rapporto (meccanismi affatto diversi a seconda che a ‘mediarli’ siano il libro a stampa o la televisione o il web), m’è sembrato che, anche in opposizione alla ‘fortuna’ del digitale fuori delle istituzioni educative e ai rischi paventati di una inarrestabile colonizzazione da parte dei nuovi media, si sia rinforzato, all’interno delle istituzioni accademiche, una didattica libresca; più specificamente, manualistica. Si tratta di una soluzione, questa di cui sto dicendo, che trovo preoccupante per gli esiti di acquiescenza e passività che rischia di produrre nello studente, il quale si trova ad essere destinato a diventare sempre più servomeccanismo di una macchina didattica (lezione, studio sul libro/manuale, test) tanto impersonale e ricattatoria a livello di sistema, quanto rinunciataria per quanto riguarda curiosità e autonomia a livello di singolo.

    Questo, lo ripeto, è quanto m’è capitato di vedere nei tempi più recenti. Ovviamente, non faccio di questa mia esperienza una regola generale. Semplicemente via via m’è sembrato che una didattica di tipo attivo, dialogico, costruttivo, quale ho sempre cercato di praticare, avesse sempre meno possibilità di concretizzarsi, e trovasse sempre più disorientato lo studente massa, quello interessato a sapere soprattutto ‘cosa portare all’esame’.

    Mi sono dunque chiesto se sarebbe stato possibile ricreare, anche per questa tipologia di studente, quel clima di partecipazione, scambio, ricerca condivisa che prima mi riusciva talora di costituire: prima che (lo so, è un paradosso) la tematica dei media e delle tecnologie assumesse la visibilità e la ‘fortuna’ che rete e digitale le hanno recentemente conferito in ambito accademico; prima che tutto questo (apparente) fermento si traducesse in ulteriore terreno da affidare all’impersonale e conformistica produzione di manuali di settore per l’opera di colonizzazione (dei presunti colonizzatori!).

    Ho ritenuto, dunque, che al fine di smuovere queste condizioni potesse risultare utile proporre allo studente tipo (ma non imporgli) un’immagine diversa di docente e ricercatore, meno settoriale e asettica di quella ‘istituzionalizzata’. In particolare mi interessava vedere se, ai suoi occhi, poteva delinearsi la figura di un docente che si occupa di multimedialità o di social non in quanto tecnico specialistico, ma come soggetto interessato ad alimentare, ampliare e far condividere così, con le ‘aperture’ consentita dai nuovi media, i suoi personali interessi di tipo culturale, politico, artistico. Insomma, un ‘essere vivente’, non ‘un libro’. ‘Vivente’, appunto, come avrebbe il diritto/dovere di essere egli stesso, studente sì, ma anche soggetto portatore di interessi personali di tipo culturale, politico, artistico e latore di un bagaglio di esperienza col quale e sul quale far riflettere l’universo digitale.

    Così, ritenevo, avremmo potuto convenire e ragionare assieme attorno ad una delle prerogative principali della logica di rete, cioè il poter procedere per vie dirette e di superficie, collegando, integrando, cucendo e dunque collocandoci al di là delle dimensioni più congelanti e cognitivamente paralizzanti inscritte nei ruoli istituzionali di docente e studente.

    Non potevo farlo, un simile passo, se non incrementando la mia presenza nei social, mirando a fare di questa presenza un impegno di ‘ricostruzione’ (come detto prima) della mia immagine pubblica di docente, e auspicando che qualche studente potesse trarne profitto. Nella lista di post che ho qui raccolto potete verificare come io abbia condotto l’impresa.

    M’è riuscito di ottenere quanto auspicavo? Sarò sincero. No.

    Malgrado tutto, lo studente collettivo (fatto ‘di figli(e) senza voglie, di voglie senza sbagli’ per dirla con Franco Fortini) ha continuato a tenermi sul piedistallo, non accettando interazione, diffidando, temendo tranelli: probabilmente a ragione, sentendosi autorizzato, sì, ma non libero di comunicare, per via della valutazione finale cui sarebbe stato sottoposto. Escluso qualcuno più ‘maturo’ (si badi bene: in termini di età) ho dunque trovato ben pochi seguaci, in questa mia operazione. Che comunque mi ha consentito di ampliare, notevolmente, la riserva di ‘amici’ collocati ai diversi livelli della scuola militante.

    Che dire? Pensare che un qualcosa lo si potesse ottenere, così facendo, dentro l’istituzione universitaria e le sue regole, scritte e non solo, è stato certamente un’ingenuità, da parte mia. Può pure darsi che questo intento io l’abbia realizzato malamente. Il diario che segue consente di verificarlo.

    Insomma, la ricostruzione interna all'istituzione è pressoché fallita.

    Ma punto ancora su quella esterna, prioritaria ora che da ‘pensionato’ sono fuori dell'istituzione, per la sua parte militante

    Sappiatelo, e di riflesso, se vi va, fatemi sapere, voi che leggete. Io c ontinuo ad essere lì. Nei social.

    Concludo con piccole notazioni, apparentemente tecniche. Parte sul versante autore/editore, parte sul versante lettore.

    Come autore ho provveduto a raccogliere, selezionare e ordinare cronologicamente solo i testi da me prodotti in questi cinque anni. Non tutti però. Ho escluso comunque le discussioni che talvolta sono scaturite dai post, in quanto coinvolgevano altri. Chi abbia esperienza di rete sa che cassare l'interazione equivale a fornire un'immagine parziale delle pratiche di scrittura che le sono proprie. Ma non potevo agire diversamente. Comunque nei vari ambienti in cui sono state prodotte quasi tutte queste scritture permangono, e dunque è possibile reperirle, assieme alle discussioni che hanno provocato. Inoltre ho provveduto personalmente ad editare questo libro/diario, usufruendo dei servizi di self publishing forniti da StreetLib (la copertina è opera di Andrea Patassini).Tengo a chiarire che non ho specifiche competenze professionali in ambito informatico o redazionale. Semplicemente, sono un normale e assiduo utente della rete e della pubblicistica, con in più qualche curiosità per i temi e i problemi della scrittura pubblica. Dunque, provo attrazione per le aperture che la rete attualmente garantisce a chi, per esempio insegnante, svolge un ruolo di comunicazione pubblica. Tanto più mi sento interessato a sperimentare queste opportunità quanto più constato la profonda crisi di identità che coinvolge assieme, oggi, le istituzioni scolastiche, accademiche, editoriali. Dunque questa mia diretta, artigianale esperienza di self publisher può rinforzare l'invito che assieme ad altri apertamente rivolgo agli insegnanti intraprendenti: quello di sperimentare direttamente l'autoeditoria, coinvolgendo nell'impresa le loro classi, e così sviluppando un approccio 'largo' alla media education che sappia coinvolgere attivamente e costruttivamente anche lo strumento principe dell'attuale didattica. Ma per tutto ciò rimando all'ebook Editori digitali a scuola.

    Due parole anche per il lettore. Un libro come questo non può funzionare su carta. Se infatti gli si togliessero i link (che qui sono qualche centinaio) e soprattutto la possibilità di attivarli contestualmente alla lettura dei singoli testi lo si depriverebbe di una parte importante, forse decisiva della sua 'anima'. Derivando dalla rete, questo è un libro che mai potrebbe darsi una vita totalmente autonoma rispetto alla rete. Ciò vale anche sul piano della fruizione: senza la possibilità di attivarla tramite proprie personali ricerche interne (nei libri digitali l'indice analitico è a misura di utente, è lui a deciderlo), la lettura rischierebbe di risultare sterile. Ho verificato tutti i link al momento di congedare il libro. Ma, si sa, la rete è un corpo vivo, in perenne trasformazione. Dunque, non è detto che funzionino sempre.

    Dicembre 2017

    2013

    13 gennaio 2013

    Il centunesimo oggetto

    Neil MacGregor è, dal 2002, direttore del British Museum. Ma è anche autore, anzi coautore di un’importante iniziativa multimediale che, recentemente, ha avuto un approdo anche nel nostro paese.

    Di che si tratta?

    Tutto nasce da un progetto radiofonico: ricostruire tramite cento brevi chiacchierate il tanto di storia che è concentrato in altrettanti oggetti recuperati in diverse parti del mondo e conservati nel museo londinese. Insomma, dar conto attraverso questi oggetti di cosa è stata ed è ora la storia dell’umanità tutta.

    Ne sono scaturite cinque puntate la settimana, ciascuna di 15 minuti: ma attenzione! niente a che fare con certe noiose lezioni dettate dai ritmi impersonali di un speaker che legge, piuttosto dei prodotti ottenuti tramite un’attenta regia polifonica, utilizzando più voci e musiche e suoni che procedono di pari passo.

    Andata in onda nel 2010, la trasmissione ha subito creato interesse e coinvolgimento, al punto che gli ascoltatori, una volta capito il meccanismo, vi hanno preso parte in diretta contribuendo alla definizione dell’elenco e chiedendo che vi fosse incluso questo o quel reperto.

    Insomma, The History of the World in 100 objects è da valutare oggi (e studiare) alla stregua un vero e proprio evento mediatico; ben diverso però da quelli nostrani perché non centrato sulla performance esibizionistica di questo o quel personaggio, ma rispondente ad un esplicito intento di sana, intelligente e davvero non pedante divulgazione.

    L’appetito vien mangiando e poiché, diversamente da quanto ...(ecc. il resto lo sapete, dunque mettiamoci d’accordo, ogni volta che non posso non segnalare la macroscopica differenza rispetto a quel che avviene da noi inserisco un gulp); poiché dunque la cultura multimediale in UK costituisce una realtà solida (basti confrontare il sito della BBC con quello gulp della RAI) quell’evento radiofonico non poteva non diventare qualcosa di più ampio, solido e duraturo.

    Così è nato il sito dell’operazione, dove non solo si possono vedere tutti gli oggetti e riascoltare tutte le puntate della trasmissione radiofonica, ma anche si accede ad una sintesi video dell’intera operazione, e ad una serie di indici dinamici tramite i quali gestire il proprio itinerario di consultazione ed eventualmente la propria visita al museo. Così, ugualmente, è venuto alla luce un imponente libro (più di seicento pagine, innumerevoli foto, un chiletto di peso), che raccoglie, adeguatamente revisionato e tradotto in scorrevole e vivace scrittura, il contenuto dell’intera serie di lezioni/conversazioni.

    Per non dire poi della pagine in Facebook con più di 10.000 like, e ancora della bella lezione che Neil MacGregor ha tenuto al TED e che anche chi non mastichi nulla d’inglese può adeguatamente seguire, grazie ai sottotitoli e la trascrizione contestuale e dinamica in più lingue, italiano compreso, garantiti dal TED stesso (su questo occorrerà tornare, a proposito del rapporto tra cultura accademica e cultura multimedialità). Bene, arriviamo a noi, e a quel che di tutta l’impresa è stato gulp importato.

    Niente radio, niente sito, niente Facebook.

    Soltanto il libro, La storia del mondo in 100 oggetti. Bene, direte, in questo non siamo diversi dagli inglesi. Niente gulp, dunque. Eh no, la differenza c’è, e non da poco. Sta nel fatto che l’edizione inglese prevede, assieme al volume di cui ho detto, anche: l’edizione in economica, la versione audio, il testo digitale in formato Kindle. Certo, tutte e quattro possono essere acquisite anche da noi tramite Amazon, a prezzi decisamente vantaggiosi: 29,30 l’edizione rilegata, 10,08 l’edizione tascabile, 38,19 l’edizione in audiolibro, 6,99 l’edizione Kindle [prezzi 2013]. Ma occorre essere in grado di leggere o ascoltare capendo l’inglese. All’italofono (diversamente dallo spagnolo, che ha la versione Kindle) non resta che il chilo di carta a 49 euro, vero e proprio centounesimo oggetto, ma di una storia, questa, destinata a finire male. L’editore nostrano ha fatto il colpo sotto Natale, puntando sulla strenna, ben sapendo che quando si fa un regalo importante si è più generosi nella spesa. Dunque, nessun contributo alla buona divulgazione, ma nemmeno lo sforzo di fare un piccolo ragionamento commerciale, del tipo: se costa 49 ne vendo x, se costa 7 ne vendo ben più di sette volte x.

    L’unica cosa che consola è che con quest’andazzo l’apprendimento della lingua inglese si incrementa.

    14 gennaio 2013

    Valore simbolico e recondito (nemmeno tanto) significato antropologico di un atto come quello cabarettistico del pulire le sedie. Quel che la sinistra politica continua a non capire (a non voler capire) del Berlusconi ch’è in noi. [ Marco Belpoliti]

    14 gennaio 2013

    A proposito della manifestazione di Parigi, domenica 13 gennaio 13, e delle ripercussioni/discussioni qui da noi. Come al solito il grande tema silente è quello dell’amore. Si parla e sparla di natura e contronatura, di vincoli e svincoli, di diritti e di doveri come se fossero solo contratti e non legami affettivi ed effettivi. Piuttosto, vedetevi L’amore e basta, questo bel film di Stefano Consiglio.

    15 gennaio 2013

    L’immaginario che non vediamo

    Ciò che più mi sorprende nella reazione di tanta parte dell’intellettualità di sinistra che, predisponendosi ad assistere alle stoccate finali di Santoro e Travaglio sul corpo che si immaginava inerte di Berlusconi, a Servizio Pubblico su La7 la sera di venerdì 11 gennaio 2013, s’è poi trovata di fronte ad una performance di vitalità di quest’ultimo, è che, appunto, sia stata una reazione di sorpresa. E sì che non si trattava di un fatto nuovo: sulle colonne del Corriere ci s’è divertiti a ricostruire i precedenti di tale colpevole cecità. Ma tant’è, l’antica vocazione dell’italico pensatore, tanto più se di sinistra, a non voler fare i conti con la realtà, meglio con quella parte di realtà che l’immaginario contribuisce ad alimentare, non deflette mai, al contrario: si direbbe che più riceve disconferme più si autoconferma. Il Berlusconi che è in noi, in tutti noi, pure in loro, no: quello si ostinano a non coglierlo, a non farci i conti.

    A questo pensavo, in tempi e contesti non sospetti, la scorsa estate, nel leggere il bel saggio di Fausto Colombo, Il paese leggero. Gli italiani e i media tra contestazione e riflusso.

    Lì una paziente analisi, condotta sull’ infinita serie di norme, spesso non scritte, e spesso addirittura inconsapevoli, che determinano la sua [di un popolo] visione della realtà e regolano il suo comportamento (per dirla con il Pasolini delle Lettere luterane) induce a darsi una ragione, non certo l’unica possibile, ma probabilmente una delle più attendibili, del come e perché si sia passati (passati e non precipitati, si badi bene) da una fase in cui al centro degli interessi e delle preoccupazioni dei più c’era l’impegno a contestare e trasformare il mondo, com’è stato negli anni Sessanta e Settanta, ad una fase dominata dalla veduta corta e persa sulla superficie delle cose e dei fantasmi da questa artatamente evocati, o tutt’al più volta ad un passato mitizzato come età dell’oro: che è, ammettiamolo, la condizione che molti ritengono di essere costretti a vivere dopo la svolta degli anni Ottanta, quella condizione che farebbe tutt’uno con Berlusconi e il berlusconismo.

    Come e perché questo sia avvenuto è un tema che si fa fatica a mettere a fuoco, soprattutto se ci si affida agli strumenti, in verità molto spuntati, dell’analisi storico/politica di stampo ufficiale. Certo, il terrorismo, le Brigate Rosse, la cacciata di Lama dall’Università, il compromesso storico, il rapimento di Moro, Craxi e il craxismo, sino ad arrivare alle ripercussioni nazionali della caduta del muro e dell’URSS e a mani pulite: sono tutti fatti, peraltro ben corposi, gli stessi che i migliori manuali elencano doviziosamente. Si direbbe, però, che partendo da lì e, soprattutto, lì restando si rischia di sfiorare soltanto e dunque non aggredire il tema su cui invece più dovrebbero concentrarsi gli sforzi per capire il perché e il percome di un tale passaggio, quello, del resto, che sembra essere al centro delle attuali occupazioni e preoccupazioni della collettività, e di chi a tale collettività parla e dà parola: il tema, lo ripeto, dell’immaginario. Non giriamoci attorno. La questione sta anche qui, nell’antica propensione dell’intellettualità nostrana, progressista o di sinistra o come diavolo la si voglia etichettare, a confrontarsi con i sogni, le emozioni, i fantasmi, in una parola gli 'umori' che stanno dentro e attorno e soprattutto sotto quel che pensa e fa la gente. Salvo poi scoprire che le cose sono diverse da quelle immaginate (anche la sinistra immagina, ma immagina male).

    Fausto Colombo lo sa bene e lo dice chiaramente. Il termine 'immaginario' è ambiguo e rischia di contaminare le analisi, per via della sua costitutiva imprecisione. Uno ci mette tutto e così tutto presume di poter spiegare. Però, però non se ne può fare a meno. Ci dice e ci fa vedere cose concrete, spesso molto più concrete di quelle che siamo abitati a etichettare per tali. Non è l’oppio dei popoli, ne è invece lo specchio, lo spazio di identificazione, l’alimento.

    Guardiamo a cosa è successo negli anni Ottanta. Improvvisamente tutto ciò che fino a qualche tempo prima appariva accettabile o addirittura necessario (partecipazione politica e civile, rivendicazione dei diritti, emancipazione dei soggetti più deboli, ridiscussione del ruolo delle istituzioni politiche e culturali) d’un tratto si rovescia nel suo contrario: diventa passatista, fuori moda, surclassato nel sentire collettivo (o comunque, certamente nella rappresentazione di questo sentire) da valori individualisti, tesi alla promozione del diritto al consumo e a una cultura più decisamente ludica.

    Questo è spiegabile con il ricorso alle interpretazioni correnti della razionalità politica? No, occorre andare al di là, al di sotto: occorre sporcarsi le mani con l’immaginario.

    Se, tanto per parlare di cose che pratichiamo, un progetto globale di rinnovamento della scuola e dell’università, pazientemente messo a punto nella fase montante, una volta approdato alla fase della messa in atto improvvisamente si sfarina e volatilizza, se tutto questo avviene (oggi ne paghiamo le conseguenze sulla nostra pelle), e se tutto l’armamentario concettuale che stava alla base di quel progetto viene messo sotto processo (eguaglianza, valutazione, compensazione, recupero, sostegno, individualizzazione, gruppo), senza reazione alcuna, come poter pensare che ciò sia dovuto ad errori tattici, all’ingenuità di quel politico o alla cattiveria di quell’altro? Ben diverse sono le questioni che un tale fallimento solleva, hanno a che fare con l’incapacità di costruire storie e racconti credibili, fascinosi e affascinanti, su quel progetto e sul parallelo rifiuto di confrontarsi con quanto via via si trasformava e quanto rimaneva immobile, nello spazio dell’immaginario che racconta l’apprendimento, l’insegnamento, il sapere, il saper fare, il saper vivere.

    Ci sono, sotto e dentro tali fenomeni, cose ben più solide di quelle che siamo abituati a prendere in considerazione. Cose che stanno in quell’area intermedia in cui si praticano discorsi, i più diversi ed eterogenei, a volte tra di loro alternativi, che non necessariamente sono appannaggio di soggetti chiari, distinti, riconoscibili, ma che più spesso si forgiano nelle comunanze di interessi, negli equivoci identitari. Insomma, esistono correnti narrative, per così dire, articolazioni a volte embrionali a volte molto complesse che raccontano il presente, il passato e il futuro dentro schemi che si consolidano, e offrono spiegazioni e indicazioni per atteggiamenti e comportamenti individuali e collettivi. Berlusconi ha saputo dar corpo a quei discorsi, l’ha fatto e lo sta facendo di pancia. Spetta a noi confrontarci seriamente con ciò che quei movimenti di pancia esprimono, e fare i conti con il cambio di scena e scenografia che vi sono inscritti. In caso contrario, sempre perdenti saremo.

    Si tratta, con Fausto Colombo, ma non solo, di provare a seguire (e riflettere su) un’altra storia, quella dell’immaginario che ha alimentato due/tre generazioni. Inizia

    con Valentina Mela Verde del Corriere dei Piccoli e con Ghigo, il figlio maggiore de La famiglia Benvenuti, e porta, attraverso complesse vicende, fino a noi, ai Cesaroni e a Belen Rodriguez. Credetemi, dà conto, molto più di tante analisi dotte, di quel che nel frattempo è venuto e avvenuto al mondo.

    23 gennaio 2013

    Visto censura

    Perché il tema del suicidio è trattato con estrema leggerezza e facilità di esecuzione, come se fosse un atto ordinario o un servizio da vendere al dettaglio creando il pericolo concreto di atti emulativi da parte di un pubblico più giovane, quali gli adolescenti che attraversano un’età critica. Per di più la rappresentazione sotto forma di cartone animato costituisce un veicolo che agevola il pubblico più giovane la penetrazione di tale messaggio pericoloso.

    Questa che avete appena letto è la motivazione in base a cui l’italica commissione di revisione cinematografica, meglio conosciuta e più opportunamente designata come commissione censura, ha imposto, agli inizi di dicembre 2012, il divieto della visione del film La bottega dei suicidi ai minori di diciotto anni.

    Poco conta che, successivamente, sia tornata sulla decisione rendendo la visione accessibile a tutti: evidentemente questi non sono tempi buoni per la giustizia; si pensi, per non toccare la politica, ai patteggiamenti calcistici. Pochissimo conta, poi, che la commissione appaia, a chi abbia occhi disincantati sul mondo e l’educazione, il residuo anacronistico di una concezione occhiuta del ruolo dello Stato, dove si nega il diritto di genitori e tutori di stabilire autonomamente cosa far vedere ai minori. Addirittura niente conta il fatto che il film in questione, dopo un inizio fulminante, vada via via perdendo lo slancio e che ciò avvenga man mano che viene alla luce la sua tesi educativamente positiva: sappiamo tutti che il male ha più appeal estetico del bene.

    Di fatto quelle smilze righette dicono molto, a proposito di una pedagogia solida, di formazione e riproduzione spontanea, tuttora molto diffusa in vari strati sociali e intellettuali, almeno qui da noi.

    Se vi interessa confrontarvi con siffatta pedagogia, ne trovate una sintetica trattazione qui sotto. Sta subito dopo i suggerimenti conclusivi di questo mio post, che qui anticipo per il rispetto che considero doveroso nei confronti del rapido (e frequentemente sapido) lettore di rete.

    Vado ai suggerimenti, dunque.

    1. Portate pure i vostri bambini a vedere il film e preoccupatevi solo se non si annoiano nella seconda parte. Insomma, non censurate la morte. È il grande rimosso della nostra cultura, di fronte al quale ci ritroviamo tutti senza parole. Certo, ma è evidente non siamo sprovvisti di immagini, il cinema ce ne offre continuamente, dunque vediamole e facciamone uso.

    2. Se vi convince o comunque vi incuriosisce quanto suggerito in 1. provate a fare un passo in più e procurarvi, con modica spesa (è un ebook), il mio Pedagogia della morte, dove appunto si parla di cinema anzi si assume il cinema come soggetto che parla e fa parlare il tema della morte.

    E ora torno al testo.

    Mi interessa metterne in evidenza tre elementi costitutivi, e interpretarli come tratti a loro modo paradigmatici di buona parte dei discorsi censori.

    Sono:

    - la fusione/confusione di contenuto e modalità discorsiva,

    - la fiducia incondizionata nei confronti della teoria ipodermica,

    - il pregiudizio che equipara un medium immersivo a risorsa specifica per l’infanzia.

    Esagero? Non direi proprio. Come d’abitudine, la censura procede per tagli ed esclusioni, ma capire la logica in base a cui vengono effettuati simili interventi comporta un impegno di ricostruzione che non è operazione delle più semplici. Dire aboliamo la censura non basta: per annullarne il bisogno, occorre individuare e capire su cosa questo bisogno si fonda. Ecco perché vi invito a prendere sul serio le baggianate contenute nel nostro documentino. Sono le stesse che trovate nelle pieghe di tanti discorsi correnti: loro, vostri e nostri.

    Primo aspetto. Nel film, si sostiene, il tema del suicidio è trattato con estrema leggerezza. D’accordo, è un’opinione. Io potrei pensarla diversamente, ma non è questo il problema. Piuttosto, cosa c’entra, nella stessa frase, il riferimento alla facilità di esecuzione? È il film che tratta in modo leggero il suicidio, ok, ma quella facilità di esecuzione non è attribuibile al film bensì al suicidio così come viene lì rappresentato. La leggerezza della rappresentazione, par di capire, si tradurrebbe in leggerezza del contenuto rappresentato: è come se al posto di sorridiamo del suicidio fosse stato messo consideriamo il suicidio come un sorriso. Così (s)ragiona il censore. Un semplice slittamento linguistico, direte voi, niente di grave. No, osservo: è uno slittamento concettuale, tipico di questa maniera di argomentare, che tende a fare tutt’uno di oggetto e modalità di rappresentarlo. Il che equivale a pensare e dire che una cosa seria possa essere rappresentata soltanto seriamente (di qui il limite della seconda parte del film), una brutta solo in modo brutto, e così via. Adaeguatio rei et intellectus, come si insegnava nella scuola da tanti rimpianta. Insomma, la tomba di ogni possibile forma di indipendenza intellettuale. Quale sarebbe, di conseguenza, la soluzione migliore per rappresentare la noia? Annoiare. E qui verrebbe a fagiolo la rappresentazione dell’Antonioni noioso che Dino Risi dà nella mitica scena de Il sorpasso. Ma non divaghiamo, cerchiamo piuttosto di capirlo bene, questo elemento. Il fatto è che una volta imboccata una simile china, non ci saranno freni che possano soccorrere. Ecco allora che la formula narrativa volutamente paradossale adottata dal film al fine di trattare il tema del suicidio – rappresentarlo come un servizio da vendere in bottega, con tanto di riferimenti parodistici alle musiche e ai linguaggi della pubblicità – diventa, nella mente non particolarmente elastica del censore, quella che egli intende e denuncia come tesi subdola e pericolosissima del film: istigazione ad emulare.

    Questo ci porta direttamente al secondo aspetto. L’ha toccato Ornella Martini in un post di pochi giorni fa e mi riallaccio direttamente alle sue parole: L’oscurità è parte di ciascuno ad ogni età: confrontarsi con il male dentro è la condizione necessaria per ogni percorso di crescita che possa definirsi tale. Bene, questo il pensiero censorio non vuole dirselo, non vuole proprio che gli venga detto. Ciò che ci mette sopra, e che gli permette di censurare tale voce, è, appunto, una versione famigliare e di pronto uso della teoria ipodermica. Detto con un luogo comune, è, quella, la formula delle cattive amicizie, ed è la stessa che agisce tutte le volte che la tv ci mette in contatto con le tanto brave persone (per i vicini), colte in flagrante di omicidio e poi bollate come dedite a videogochi violenti. Brave, appunto, ma che l’iniezione sottocutanea di cattiveria ha il potere di trasformare. È il caso di aggiungere che questa teoria, nella versione originaria risalente agli USA degli anni quaranta, è etichettata come 'bullet', cioè 'pallottola'?

    Direi di sì. Comunque la si pensi, il censore ritiene che esporsi al negativo, anche soltanto all’immagine del negativo, porta conseguenze devastanti: di qui la scelta di impedire l’esposizione, ovviamente per il bene dell’educando. Per tornare a noi, il giovane di per sé non penserebbe al suicidio, perché lui è buono e angelico, e lo è per natura, ma se lo si va a sfrucugliare e se questo lo si fa rappresentandogli il suicidio come cosa facile, da conquistare/acquistare facilmente, ridendoci sopra per di più, quella natura buona va subito in tilt. Censura, dunque. Ma è un taglio che come minimo si porta via un secolo di elaborazione scientifica (da Freud in poi) e due millenni di elaborazione artistica (dai tragici greci in poi), pure tagliati via. Ma tant’è, più è ignorante, più fa ignorare, più questo meccanismo funziona, o meglio: sembra funzionare. Perché ammettiamolo: noi ‘mondani’ sappiamo bene che non funziona, sappiamo pure che il più delle volte il proibizionismo produce l’effetto contrario (e consente all’industria clandestina di lucrare).

    Da ultima, la questione se volete meno impegnativa, ma pur essa meritevole di un’adeguata presa in carico. Per il censore il mondo è dicotomico: come ci sono cose buone e cose cattive, le prime fungendo come le uniche adatte ai bambini (e ai ragazzi) buoni, ci sono pure i linguaggi preposti per i bambini e i ragazzi e quelli preposti per un’utenza di adulti (un tempo compariva talvolta la specifica ‘con riserva’). Il cartone animato, in questo modo di pensare, agisce come medium infantile: fatto di disegno e suono non aspira al realismo, vive piuttosto di (e per) costruzione fantastica. Ma questa produzione fantastica, è legittimo anzi doveroso obiettare, che collocazione trova in quello spazio di costruzione del reale dentro cui l’individuo, anche e soprattutto quello in crescita, fa la sua esperienza di vita? Si colloca tutta al di fuori o non è, invece, una parte di quella costruzione? Siamo dunque sicuri che l’animazione sia prioritariamente (ed esclusivamente) un linguaggio per l’infanzia? Autorizzano a pensarlo la sua origine, il suo sviluppo e la sua attuale fortuna dentro l’universo multimediale? O, piuttosto, non è più corretto e utile e liberatorio ritenere che l’animazione e l’immaginario di cui dà conto contribuiscano ad alimentare la parte infantile, diciamo non scrittoria, di ciascuno di noi?

    …morale di tutta la storia, non smettete di riflettere sul censore che sta in voi e in tutti noi…

    …per parte mia, minaccio un prossimo post con un esempio eclatante in proposito…

    25 gennaio 2013

    Milano e Roma capitali del porno? Non scandalizzatevi. Un terzo delle azioni e interazioni in rete, a livello internazionale, sono collegate al porno. E, del resto, il rapporto fra porno e tecnologia, dal disegno alla stampa, dal cinema alla videocassetta, è sempre stato di agevolazione reciproca (leggetevi Erotic Engine). Vediamo la parte positiva di questa notizia. Il paese reale è in rete, molto più e molto meglio di quanto non pensi o non voglia il paese legale.

    30 gennaio 2013

    Il genio censurato

    Igmar Bergman per la mia generazione e per quanti come me sono passati attraverso l’esperienza dei cineforum è un intoccabile. E come tutti gli intoccabili capita pure a lui di essere da tempo intoccato. Resta lì, come un monumento, mancando occasioni per riprendere il dialogo. Fino a che non capita qualcosa.

    Ora qualcosa c’è stato. Si tratta della pubblicazione, dal novembre 2012, della Bergman Collection, una serie di trenta dvd con edizioni restaurate dei film, corredate di extra di vario tipo: testi di commento in versione ebook, foto e video di scena, documenti personali, ecc.

    L’iniziativa mi ha incuriosito, anche perché nasce sotto l’egida della Cineteca di Bologna, realtà alla quale sono molto affezionato.

    Bene. Sono andato in libreria e ho scelto, fra i disponibili, il film di cui avevo più labile memoria, Sorrisi di una notte d’estate. Certo, non mancavano fili a tenermelo in vita: dal fatto, ricordavo, che è stato il mitologico riferimento di Woody Allen per un suo titolo (non certo dei migliori), all’abbondante aneddotica elargita, con il solito cinismo, dallo stesso Bergman in Lanterna magica e che anche Aldo Garzia richiama nel suo godibilissimo Bergman. The Genius. La vita, le idee, i film,i libri, i rapporti con l’Italia, l’amore per l’isola di Fårö. Però, l’ammetto, del film vero e proprio ricordavo poco e niente. Dunque, l’ho visto come fosse la prima volta.

    Ed è stata, lasciatemelo dire, un’esperienza fantastica. Di quelle che ti cambiano il rapporto con il mondo. Fuoriuscito dal monumento, Bergman è tornato ad essere uno dei miei. Ma qui non ci sono parole che valgano, se non l’accorato consiglio di procurarvi, vedervi e godervi il film. Poi, se volete, ne parliamo: del resto, i post di

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