Il patto del lago
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Anteprima del libro
Il patto del lago - Iolanda Pizzorni
Albatros
Nuove Voci
Ebook
© 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma
www.gruppoalbatrosilfilo.it
ISBN 978-88-567-7976-9
I edizione elettronica agosto 2016
A mio marito,
forza gentile.
"Troppo per quel che faccio,
troppo poco per quel che potrei fare."
(Wolfgang Amadeus Mozart)
Capitolo I
Sedeva rivolto verso il lago, la figura lievemente ricurva, immobile alle folate del vento che ritmiche fendevano il balcone.
Si stagliava poderoso dal parapetto del poggiolo, come se la parte inferiore del corpo fosse saldamente ancorata alla sedia mentre la restante lottasse spasmodicamente per protendersi in avanti, oltre la parte centrale del lago.
I suoi occhi, piccoli ed acuti, si perdevano in un punto indefinito tra le rive della parte più angusta e persa nel fitto dei pini, dove questi si riflettevano come le ombre di centinaia di mani dischiuse.
Le braccia cadevano come piombi lungo il busto eretto e meticolosamente serrato nel doppiopetto grigio.
Le mani erano l’unico punto vitale, sembravano suonare una tastiera inesistente snodata lungo i fianchi della seggiola, in un moto perenne, per bloccarsi ogni tanto in riflesso di un’impercettibile contrazione degli arti.
Il sudore colava in rivoli copiosi che furtivi seguivano i corsi rugosi delle guance, per allargarsi in tanti piccoli laghi sul collo della camicia, serrata in un nodo scapino antico ed austero che per incanto restituiva il rigore che gli era proprio.
Visto da sotto il terrazzo così schiacciato contro il cielo, dava l’impressione di dover dire qualcosa da un momento all’altro o, comunque, fosse ambasciatore di un’oscura verità che corrodendolo da dentro stentasse ad uscire dalle labbra per schiudersi nelle membra e animarsi in allarme nel movimento delle mani.
I capelli, d’un grigio luminescente, erano un punto di conforto, suddivisi in due parti simmetriche, non si scomponevano mai, scissi in una sorta di impavida corona, calzata come un elmo su due occhi erranti.
Lo vedevo in quella posizione due volte al giorno, tranne la domenica, dopo pranzo ed al calare del sole, puntuale, ad un appuntamento con se stesso, al quale sembrava non poter rinunciare, sul verone centrale, l’unico sotto l’insegna dell’hotel.
La scritta dell’Albergo al Lago
, il balcone e lui parevano una cosa sola con il lago antistante.
Erano ormai due anni che frequentavo la pensione dei coniugi Terzini, ma fin dall’inizio avevo avuto l’impressione di essere a casa, o di averla con me in valigia, ogni volta che pulivo le scarpe sul salve
dello stuoino di iuta dell’ingresso.
La voce flessuosa della signora Rosa mi avvolgeva, come di consueto, in un turbine di gioia, deferenza ed odore di arrosto appena cotto.
«Allora, signor Antonio, le faccio aprire la camera numero sei o la otto? Come lei sa già, nella cinque c’è il Professore».
«La sei per me va benissimo», risposi incantato.
Anche quell’anno la Rosa ripeteva il suo copione di cortesia, battibeccando con il marito e mostrando soddisfatta, con l’indice teso, la teca delle chiavi sempre più vuota.
«Il Professore sottolinea sempre che il ciondolo delle chiavi è troppo grande, tondo così il numero si incurva e perde il suo fascino algebrico! Lei che ne pensa, signor Antonio? Meglio la forma a goccia della palla, almeno si prende bene per la punta e non scappa tra le dita! Dirò a Fausto di comprarle al mercato il prossimo mercoledì giù alla valle. Venga, signor Antonio, l’accompagno al piano superiore».
«Grazie», risposi deglutendo.
«Quest’anno ho fatto rivestire le stanze di perline d’abete; vedrà signor Antonio, sembrano nuove».
Le sue parole avevano su di me l’effetto di mille ninnananne.
Come un bimbo che lotta con il sonno, aspettavo di seguirla trepidante sulle scale scricchiolanti di legno di pino, senza perdermi ogni mossa, attento a posare le mani sui pomoli della ringhiera laddove lei aveva appena staccato le sue.
Le cocche del grembiule di sangallo le ricadevano lungo i fianchi e si distendevano come teli di bandiera al vento dal nero della gonna. Inamidate e candide, s’alternavano avanti e indietro, insieme al rumore appena abbozzato che emetteva nel salire lo scalino successivo, staccando il tallone dallo zoccolo, mentre l’altra gamba tendeva sinuosa il polpaccio.
Stordito, guadagnavo il ballatoio e anche quell’anno tutti i miei propositi, frutto di un inverno di preparazione, si scioglievano come cera al fuoco incapaci di sostenere l’ardore che esalava da lei.
«Signor Antonio, le faccio portare una bella bibita fresca da Fausto. Venga, si metta comodo, alla nostra età bisogna incominciare a godere pienamente della vita; no?».
Il cuore mi si fermò in petto, il cervello annebbiato da quell’ultima frase. Con uno sforzo che mi squarciò le viscere dissi: «Signora Rosa, lo sa che non so quanti anni ha?».
In quel momento avrei voluto scomparire per la mediocrità di ciò che ero riuscito a dire.
Lei, per nulla turbata, si girò delicatamente come un fiore fa nel dischiudersi, nel mentre le sue ciglia scandivano morbidamente il richiudersi lieve delle palpebre sui suoi occhi dai riflessi d’ambra.
«Io, i suoi documenti li ho e mi avanza di poco, stia tranquillo, non dirò niente a nessuno!», rispose ridendo delicata.
Prossimo ai quarantacinque, mi domandai quale età dovesse avere Rosa, ma subito la sua voce mi riportò bruscamente all’attenzione.
«Antonio?».
«Sì?», gemetti io.
«Mi chiami pure solo Rosa», disse riprendendo a salire le scale, lasciandomi ancora più intontito.
L’Albergo al Lago
era una poesia mattutina che avevo scoperto per caso l’anno prima, gironzolando tra i paesini e le valli che copiosi si snodano, per incanto, nella provincia di Trento.
Emergono tra i meli per poi cedere, bruscamente, il passo a pini severi che rigogliosi si addensano a mucchi di eserciti verde cupo alle radici delle montagne.
Rilievi montuosi custodi di profumi e colori indescrivibili che talvolta racchiudono, come scrigni, macchie d’acqua in cui cielo ed alberi, insieme, si riflettono, espandendosi in laghi di rara bellezza.
La prima volta che giunsi al lago, era un afosissimo pomeriggio d’agosto.
Avevo lasciato il servizio postale alle due e subito ero scappato con la mia utilitaria, alla ricerca di un poco d’incerta frescura, approdando ben presto all’ombra di un melo a guardare un vecchio contadino in un campo che, con un curioso macchinario sulla schiena, spruzzava un liquido turchino sulle foglie dei rami.
«Questo caldo le farà nascere cotte anziché belle mature!», mi apostrofò. «L’avevo detto io, sarà un anno gramo, lo si sente dal profumo del lago».
«C’è un lago qui?», chiesi, certo di non ricevere risposta.
«Come no! È bello e traditore. La Rosa ha le camere con i numeri tondi per i turisti, ma qui ne vengono pochi. C’è da fare due chilometri a piedi per arrivare al lago. È roba della forestale e le macchine non vanno».
«Mi sa indicare dove rimane?».
«Sarà un’ora da qui. Si va su per la biforcazione di destra, fino al lavatoio, poi dritto verso la malga del Bepi e dopo la frazione della Genzianella sempre a sinistra per il lago e la pensione della Rosa».
Mentre mi avviavo oltre lo steccato che cingeva il prato, il vecchio mi richiamò e, levandosi il cappello di cuoio, che fedele ombreggiava le sue gote rubizze, mi chiese a bruciapelo:
«Che mestiere fa lei?».
«Sono postino al servizio di Trento».
«Ma, non è di qui, no?».
«No, vengo dal mare. Perché?».
«Mah! Ce l’ha scritto negli occhi che è uno che deve consegnare qualcosa. La Rosa la conosce già?».
«Rosa, chi?».
«La Rosa del lago, su, dell’albergo, dico. L’ho tenuta sulle ginocchia da bambina. Gran donna!».
«Ah! Se ci arrivo gliela saluto volentieri. Lei come si chiama?».
«Fidenzio», disse, rimettendosi il cappello. «E lei?».
«Antonio. Cosa è quello che spruzza? Non ho mai visto fare così».
«Una mistura che faceva mio padre e prima di lui mio nonno. Bisogna saper mescolare, lo dico sempre io! Le mele maturano e la buccia si tira come la pelle di una donna in chiesa. Non viene male alla pancia, come con quei prodotti che usa Giovanni, che fa crescere delle mele che sembrano zucche. Dicono di comprare le macchine, ma che macchine! Basta un goccio di questo e metti fine a un sacco di problemi con i parassiti e volendo anche con i cristiani!».
«Stia bene, signor Fidenzio», dissi salutandolo.
«Perché? Lei come sta?», rispose lui mentre io mi avviavo alla macchina.
Mi voltai a guardarlo. La figura risaltava in negativo rispetto al contorno del sole e non riuscivo a distinguerne l’espressione ma, negli anni, ho sempre mantenuto l’impressione forse propiziatoria che stesse ridendo.
* * *
Girovagai ancora parecchio nel circondario, perdendomi a rincorrere i grilli nei prati e a raccogliere fragoline, dove le macchie del sottobosco si facevano più scure, dando sfogo a zone di vegetazione eterogenea che senza posa passava dal muschio iridescente delle radici degli alberi ad una pianta di mirtilli.
Ritemprato nei polmoni e nello spirito giunsi alla contrada della Genzianella, un gruppo di case color pastello che sembravano spruzzate via dalla tavolozza di un pittore svogliato, rimanendo a ridosso dei pini e sulle soglie dei prati che degradanti si tuffavano, via via, a capofitto nella valle.
Presi una spuma all’arancia al Caffè della Posta
, proprio di fronte al lavatoio e per un attimo sentii il profumo del fieno. Quattro vecchi giocavano a carte vicino alla finestra, le mani corrose dal lavoro nei campi coprivano gran parte del disegno decorato del frontale.
Si guardavano come tra i banchi di scuola quando c’è un esame. Uno fumava in attesa di una mossa, quello con le spalle alle tendine arricciava il naso, come se il punteggio sperato dovesse uscire dalle narici.
Il più basso era l’unico senza gilet e i quadri rossi della camicia erano più grossi.
D’improvviso un sentore di pascolo mi sferzò le narici.
«Si sta bene qui in alto, eh?».
La barista che spuntava appena, appoggiata su un seno poderoso, dall’acciaio del banco si buttò più avanti nel pronunciare il resto della domanda.
«Viene a sostituire qualcuno alla posta?».
Per un attimo rimasi in silenzio, interdetto.
«No», risposi a fatica ricambiando l’interlocutrice con un’interrogazione.
«Il signor Fidenzio mi ha detto che c’è un lago, poco lontano da qui?».
Appena nominai il vecchio, il giocatore con il gilet si volse, muovendo rumorosamente la sedia impagliata, per ricomporsi subito.
Dopo di lui anche gli altri si girarono, guardandomi di sottecchi e dicendo sottovoce qualcosa di indecifrabile per le mie orecchie. Uno posò una carta sul tavolo, rumorosamente.
«Il lago dei ricordi, così lo chiamiamo noi. A me, mette tristezza», fece eco la barista comprimendo quelle poderose poppe al punto che d’istinto indietreggiai con la sensazione che mi