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Sospeso sopra un gran vuoto
Sospeso sopra un gran vuoto
Sospeso sopra un gran vuoto
E-book247 pagine3 ore

Sospeso sopra un gran vuoto

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Info su questo ebook

Ispirato a un fatto realmente accaduto, la storia di Alex Ponato si basa su un’ingiustizia sociale causata da un abuso di potere. Il punto di vista è quello di Alberto, cinquantenne, separato, che perde il giovane figlio investito da un automobilista ubriaco, mentre attraversava a piedi la circonvallazione di Lucca. L’incriminato è un Marine della vicina base americana, che era in libera uscita. Per Alberto l’esito del processo è un’assurdità: il Marine è libero, e torna negli Stati Uniti. Alberto grida vendetta e si domanda se alla guida non ci fosse stato un Marine, ma solo un semplice cittadino, l’esito sarebbe stato il solito? Ma alla fine medita che non gli conviene andare contro la Grande Potenza. Così sprofonda nella solitudine e i ricordi a fargli brutta compagnia. All’ingiustizia del Sistema risponderà la vita stessa che, col tempo, gli riserverà delle sorprese in cui trova la sua rivalsa.

Alex Ponato è un infermiere con l’hobby della scrittura creativa. Ha partecipato a diversi premi letterari con vari riconoscimenti. Nel 2016 al Pisa Book Festival, per il V premio letterario “Edizione Straordinaria”, viene assegnato il secondo posto al suo primo romanzo “La voce nascosta”.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2018
ISBN9788869631702
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    Sospeso sopra un gran vuoto - Alex Ponato (pseudonimo)

    Alex Ponato

    SOSPESO SOPRA

    UN GRANDE VUOTO

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2018 Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    elisonpublishing@hotmail.com

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    ISBN 9788869631702

    Dedicato a

    Alessandro Colibazzi

    all’associazione Il mondo di Claudio Marchini Onlus di Lucca

    Indice

    Uno

    Due

    Tre

    Quattro

    Cinque

    Sei

    Sette

    Otto

    Nove

    Dieci

    Undici

    Dodici

    Tredici

    Quattordici

    Quindici

    Sedici

    Diciassette

    Diciotto

    Diciannove

    Venti

    Ventuno

    Ventidue

    Ventitré

    Ventiquattro

    Venticinque

    Ventisei

    Ventisette

    Ventotto

    Ventinove

    Trenta

    Trentuno

    Uno

    Avrebbe voluto avere la possibilità di rincontrarlo.

    Anche per caso, pensa Alberto, semmai se ne fosse andato per una discrepanza tra di noi. Ma tra loro non c’era mai stata discrepanza tanto grave da privarsi della possibilità di rincontrarlo. Anche solo per rivederlo, e magari riabbracciarlo. Lo avrebbe voluto rivedere, sì, sarebbe bastato. E anche senza riabbracciarlo, a questo punto. Anche se l’avesse incontrato laggiù su quella strada ignobile in cui una volta è stato beccato anche lui stesso, senza saperlo, ma Alberto non se ne fece accorgere d’averlo visto; e non gliel’ha mai detto. In quella strada in cui anch’io, ricorda Alberto, feci un giro sulla febbrile giostra dell’amore. Dell’amore inquinato, s’intende, perché ormai quello puro se n’è andato. Su quella strada ignobile solcata da file notturne, paradossalmente molto più ordinate e rispettose di quelle mattutine agli sportelli dei vari uffici pubblici. Ma che ci faceva un ragazzo di neanche vent’anni laggiù? Vent'anni è l’età in cui l’amore dovrebbe essere sempre puro. Invece no. Alessandro era insieme a quella moltitudine triste di solitari avviliti che aspettano il proprio turno d’un giro d’orgasmo a pagamento. Anche fosse stato laggiù, su quel viale abietto, che Alberto non voleva che lui solcasse (se non di passaggio per andare al mare, come avevano fatto tante volte assieme), avrebbe voluto avere la possibilità di rincontrarlo. Invece no, non ha più la possibilità di rivederlo, suo figlio. E perché? Perché se n’è andato. Se n’è semplicemente andato, Alessandro. Ma purtroppo non per suo volere: verso quella Londra che ambiva visitare, o quella Berlino che voleva abitare, o qualsiasi altra capitale europea che gli desse l’opportunità, dopo il diploma, di realizzarsi. In Italia non ci sono possibilità di guadagnarsi da vivere, se non con un lavoro che quelli come suo figlio non volevano più fare, e che ormai rimane alla stregua dei poveri nostri o dei poveri immigrati: l’operaio. Suo figlio si voleva realizzare, e invece Alessandro se n’è andato all’altro mondo. Il suo unico figlio.

    Quello che ha permesso questo scempio è stato quell’americano ubriaco, Rod, con questo nome che sembra un acronimo ruttato: Rod, che l’ha falciato sulla circonvallazione della piccola città di Lucca, mentre Alessandro e il suo amico Max attraversavano a piedi. Tornavano dalla loro consueta corsa, quella sull’anello delle antiche Mura del centro storico. Sarà stato sudato, stanco, sedotto dal rischio, ma sicuramente con la voglia di vivere ancora, suo figlio. E ad Alberto non gli esce dalla testa la maglia gialla di Greenpeace violata dalla chiazza del sangue del suo sangue. Un contrasto di giallo e rosso che lo infiamma ogni volta che ci pensa. Ricevette la telefonata in ditta: Alberto Stagi, è lei il padre di Alessandro? È successo un grave incidente a suo figlio e quell’aggettivo grave come gli ha dato la spinta di correre per le strade, più dei corrieri della ditta per cui lavora, mettendo a sua volta a repentaglio la sua, di vite, ma anche quella degli altri, senza volere. Senza volere stava emulando Rod, un americano ruttato da chissà quale fogna e che gli è stata tolta la patente e basta, e forse anche la dignità, ripensa Alberto, senza togliergli però la piena libertà. Tanto che Rod è riuscito a tornare in America, libero, appellandosi chissà a quale santo o provvida orchestrazione manichea estrapolata dall’intrico legislativo che il suo avvocato è riuscito a tirar fuori dal suo cilindro e a rattoppare sul manifesto della sentenza che decreta non colpevole il suo cliente. Non colpevole. Un boia paragonabile a quello della Lucca antica che aveva la sua casa nell’edificio diroccato, oggi monumento denominato Casa del boia, in un punto chiamato Bastardo, sopra le antiche Mura della piccola città. E oggi il boia s’è fatto uomo in Rod e ha decapitato la vita di un giovane di vent’anni, bastardo!

    Non colpevole è quello che ora è il suo spauracchio: Rod il ruttato. Non colpevole, non è possibile, si dice Alberto. Ma allora, ha domandato al suo avvocato, come si definisce senza quel non che nega la colpevolezza, quello che ha ucciso mio figlio? Innocente? Non ci può credere che al primo grado la corte, per direttissima, ha decretato questa ignobile sentenza. Dalla rabbia ha intimato al suo avvocato di ricorrere in appello, ma poi ci ha ripensato, perché suo figlio, il suo Alessandro, non sarebbe più riapparso la mattina in cucina per la colazione che la madre (la sua ex moglie), e negli ultimi tempi lui stesso, gli preparava prima di andare a scuola.

    Alessandro non sarebbe tornato mai più, ormai. E poi l’avvocato gli ha detto che si potrebbe di certo ricorrere in appello, ma con la puntuale considerazione che quell’americano è un soldato dell’esercito degli Stati Uniti in stanza al Camp Darby, la base militare americana vicino a Tirrenia, a poco più di venti chilometri da Lucca. Sarebbe tutto più difficile e dispendioso, almeno all’inizio. È già tanto (ma secondo Alberto è il minimo) che gli abbiano tolto la patente, e forse anche la dignità, con l’interdizione dal nostro paese per cinque anni e la sospensione per un anno dall’esercito americano (così poco, rimarca il suo avvocato, perché era fuori servizio quando ha combinato il guaio) per guida in stato di ebrezza.

    Neanche al Camp Darby, per cinque anni, può tornare.

    Invece Alberto avrebbe voluto che il suo desiderio si avverasse, perché è il desiderio di un padre che ha perso il figlio in un modo così… stupido. Il suo desiderio sarebbe di saperlo dietro le sbarre a vita, quell’ubriaco, quel Rod ruttato, quel boia bastardo; o almeno, visto che piega ha preso il processo, almeno gli avessero concesso di rientrare al Camp Darby. Così lui, dopo che le acque si fossero, non tanto calmate perché non si sarebbero mai calmate, mai e poi mai, ma almeno stabilizzate nella loro ondulante caparbietà di voler nascondere nel fondo dell’abisso ogni relitto con tutti i suoi affogati appresso, Alberto sarebbe andato a trovarlo per guardarlo in faccia da solo, al Camp Darby, e, prima di aprire bocca, tra le pieghe di quel volto straniero, volerci cogliere il frustrante rimorso che va a frantumare il suo amor proprio. In quel viso duro da Marine ci avrebbe scorto lo squarcio di una dignità, è sicuro. Quello che non ti capaciti e che vorresti con forza tornare indietro e non fare, quel che ormai hai terribilmente fatto, ma visto che non è possibile nessun rewind, allora ti spiaccichi in un muro. Sì, avrebbe voluto vederci scritto, su quel volto straniero, su quel muso bastardo d’un boia, la volontà di un imminente suicidio. Per questo, l’avrebbe solo guardato dritto in faccia senza aprire bocca. Sarebbe bastato, pensa Alberto. Sarebbe bastato per indurlo a compiere quell’azione ultima; che, però, desidero fare anch’io, continua ultimamente a ripetersi.

    Non poteva non pensarci, Alberto, al suicidio. L’avrebbe desiderato non prima, però, di quello compiuto dall’americano, se avesse avuto la possibilità di starci faccia a faccia. Dritto in faccia l’avrebbe guardato, è sicuro, e non avrebbe di certo abbassato lo sguardo di fronte a un Marine. È solo così che potrebbe vendicare suo figlio? No, mai. Ma non tanto per vendicare Alessandro, mai e poi mai, ma quanto per vendicare quella bella gioventù, vent’anni, che ti apre una strada immensa di possibilità davanti a te, faccia a faccia con la vastità del tuo futuro che non si debba per nessun motivo denominare morte. Quella tronca eventualità che a vent’anni non ci pensa nessuno. E Alberto ha pensato, invece, di voler raggiungere l’anima di suo figlio tramite il richiamo dell’abisso, sospeso sopra un grande vuoto faccia a faccia con l’incommensurabile morte. Ma è lì che ci riflette che prima deve trovare giustizia qui, sulla Terra, anche in qualche modo assurdo, ma è qui che deve avere la possibilità di rifarsi.

    L’ha pensato subito che quella è stata una sentenza che è venuta meno al principio scritto sulle pareti di rovere di ogni tribunale, La legge è uguale per tutti, e che ogni volta i suoi occhi, seguendo le tanto contorte, quanto subdole intenzioni della difesa, i suoi occhi con l’immagine fissa dei colori alterati della maglia di Greenpeace incendiavano quella scritta, come s’incendia un albero malato perché non serve più a niente. Anzi: a quel punto, quando il dibattimento stava prendendo una piega a suo sfavore, quella scritta è diventata offensiva nei suoi confronti e nei confronti di ogni padre che gli viene falciato il figlio di vent’anni in quel modo inspiegabilmente stupido e in torto marcio. Falciato sulle strisce da un’auto bastarda d’un boia ubriaco. E non fanno altro, queste parole, che indurlo a pensare a ciò che avrebbe voluto dimenticare subito e per sempre, cioè a com’era andata, quel giorno fatidico, mai e poi mai, faccia a faccia, avrebbe voluto andasse.

    Era il giorno libero di quel soldato americano, Rod il ruttato. Dopo l’incontro avuto con una ragazza di Lucca, conosciuta una sera in una discoteca del litorale pisano di Tirrenia, s’era fermato a bere in un bar del centro, subito fuori della Cerchia, per dimenticare l’improvvida stangata che poco prima aveva avuto sulle Mura con lei, sporcata con quelle mani addosso, messole sul culo e sul petto, dietro un baluardo scosso. Lei tenta di urlare, ma lui le tappa la bocca con un bacio aggressivo, dispotico, e se la stringe a sé facendole saggiare la forza brutale di un soldato ben addestrato, che mette paura agli uomini, figurati a una ventenne così scricciola, poco incline al consumo di un’esperienza così forte.

    Così lei, lì per lì, aveva visto di starci, per dimostrargli che la sua femminilità ha la forza di stritolare un maschio così forte, ben piazzato, con la sola arma della dolcezza. Ma solo lì per lì, perché poi, al primo tiepido rilascio di quell’abbraccio inaspettato e indesiderato, lei svicola via con la convinzione di poter fuggire a un Marine americano dal baluardo scosso. Così lui, come ha spiegato in aula con un’inaspettata franchezza e una riprovevole fierezza, perché avvolta, secondo Alberto, da una crudele aurea narcisistica, lui, lì per lì, così forte, le ha dato qualche metro di vantaggio, tanto per continuare a giocarci un po’, come il gatto fa col topo. Nel momento in cui il topo sembrava sfuggirgli, il gatto ha detonato rabbia felina nelle sue gambe esplosive, lui, così forte, in una corsa all’impazzata. E ce la fa a riacchiapparla. La prende da sotto e la solleva fin sopra la sua testa, in mezzo agli urli striduli della ragazza. Alberto, lì per lì, non credeva fosse possibile una roba del genere, che l’avesse montata lui, aurea narcisistica, solo per montarsi la testa, quel Rod ruttato, e così incutere timore nei presenti, bastardo d’un boia. Ma quando Alberto ha visto in aula la ragazza a testimoniare, scricciola, così e così, e confrontandola con la massiccia presenza del soldato, così forte, ha capito che quella roba raccontata dal Marine americano Rod ruttato, il bastardo d’un boia, è potuta accadere.

    La ragazza ha deposto alla corte la sua dinamica dei fatti che, così e così, collimava simmetricamente con quella dell’americano, così forte, e da lì è ripartita per aggiungere le sue impressioni e la sua verità: dopo quel volo che mi ha fatto fare sopra la sua testa, mi sono messa a urlare, ma subito dopo a ridere e ci siamo riabbracciati di nuovo. Solo che lui inizia a tastarla da tutte le parti, come c’avesse avuto cento mani, quello, così forte, e tutte addosso a lei, lì, così e così, come il gatto fa col topo.

    Allora inizio a urlare per davvero, raccontava lei, concitata; come se prima avesse urlato per gioco, pensa Alberto. Insomma, lei inizia a urlare attirando la presenza di un poliziotto di quartiere che faceva la ronda sotto le Mura. Quello accorre e tira fuori perfino la pistola, e intima: – Fermo o sparo! – in faccia all’americano, che lì per lì lascia subito la ragazza qualificandosi come Marine di stanza al Camp Darby, omettendo d’essere il bastardo d’un boia che ormai tutti conosciamo. Il poliziotto di quartiere, mai e poi mai, rimette a posto la sua pistola d’ordinanza che iniziava già a tremare, faccia a faccia con quello statuario, perché lo sguardo del Marine non trema davanti a niente e a nessuno. Pietrificato come la faccia dei quattro fondamentali presidenti americani sul monte Rushmore. Fondamentali per quel paese inventato dalla prepotenza che Loro hanno chiamato libertà, senza affiancarla al concetto di uguaglianza e fraternità. Com’è stata fondata la Nostra vecchia Europa, pensa Alberto. Ma qualche americano mi può controbattere: dove sono scoppiate le due guerre mondiali? Chi vi ha liberato dal nazifascismo? Sì, ok, gli risponderei, pensa Alberto, ma almeno non fate i prepotenti a casa degli altri.

    Insomma, il poliziotto di quartiere gli chiede i documenti e si accerta che la ragazza stia bene e se a Lucca, lui, così forte, è venuto per violentare le nostre donne così e così.

    La ragazza, mentre deponeva, aveva più eloquenza nello sguardo che nelle parole, a spiegare il terrore che ha provato quando l’americano, così forte, s’incornicia in un tetro silenzio e punta gli occhi del poliziotto di quartiere, fino ad apparirgli la severità della sua divisa che non indossava, ma che gli si vedeva stampata in faccia. La guardia non può altro che sorridere e dirgli che stava scherzando. L’americano non fa cadere nel ridicolo la posizione assunta che si regge sul piedistallo dell’arroganza, della sua aurea narcisistica, della sua riprovevole fierezza; un’altra faccia da aggiungere al monte Rushmore. Allora il poliziotto di quartiere, per pacificare il tutto, chiede alla ragazza, così e così, se vuole sporgere denuncia: e lei dice no; se vuole continuare a stare in compagnia dell’americano: e lei dice no. E che deve fare il poliziotto di quartiere? Dopo aver accolto queste comprensibili risposte discordanti, decide di lasciarla andare via. Ma il soldato americano continua a fissarlo negli occhi, ed è solo quando si tocca la pistola al fianco, il poliziotto, e mentre la ragazza fugge a gambe levate giù dalle Mura, che il soldato in borghese se ne va per la sua strada, verso la storica Casa del boia, a lui tanto affine.

    La ragazza scricciola, così e così, non sapeva altro.

    Infatti non si sa cosa abbia combinato ancora, quel tipo, Rod il ruttato, che non mi va neanche di nominare, pensa Alberto, gli puzza l’alito d’alcool colpevole. Che ha combinato, quello straniero, quell’extracomunitario in soldoni, nell’ora intercorsa tra l’incontro avuto con il poliziotto di quartiere e la sua permanenza al bar dello stadio, subito fuori le Mura del centro storico di Lucca, dove il bastardo d’un boia è entrato savio e nervoso e ne è uscito, secondo la testimonianza del barista, dopo un’ora ubriaco ed euforico? Non si sa.

    Ma si sa benissimo, così forte, cosa ha combinato dopo, lì per lì, sulla circonvallazione con un’auto non sua, mai e poi mai, che si era fatto imprestare da qualcuno al Camp Darby, faccia a faccia, il bastardo d’un boia ubriaco di Rod il ruttato…

    Avrebbe voluto avere la possibilità di rincontrarlo, Alessandro, se avesse lo stesso potere che ha il destino e impiegarlo in un rewind per dirgli di non attraversare. Il potere del destino è stato un po’ meno fantastico, ma incredibilmente stupido. Così è stato, e così tutto ha lasciato com’era, Alberto, che oggi è già un mese, pensa, solo in casa.

    Quando passa davanti alla camera dove suo figlio ha dormito quell’ultima notte prima della sua dipartita, apre la porta con delicatezza, quasi a non voler disturbare un sonno che non c’è più. Osserva le cose di suo figlio che non vuole toccare, su cui lascia accumulare nuova polvere. Entra e apre la persiana per cercar di far luce sul mistero insondabile della sua vita, e sfiora gli oggetti voluti e appartenuti, gli oggetti toccati o anche solo sfiorati, senza intralciarne le disposizioni che sono state assicurate per un prossimo ritorno, dallo stesso Alessandro; e gli vengono via solo granelli di nuova polvere che turbinano nel vuoto, illuminato, su cui Alberto è inesorabilmente in sospeso.

    Alberto è inesorabilmente in sospeso su questo grande vuoto, ed è attratto dal suo abisso.

    Vorrebbe prendere in mano la fotografia sul comodino che ritrae suo figlio con le braccia alzate, vincente in una gara podistica che si svolse sulle Mura tre o quattro primavere prima (ci pensa, ma non si ricorda esattamente quando), ma il fatto è che preferisce piegarsi lui con la sua schiena che ormai non ha più l’elasticità idraulica di una gru che sposta avanti a zoom la telecamera che sostiene, così da riprendere un qualsiasi particolare che gli interessa immortalare. Infatti, Alberto sente dolere i suoi lombi di mezza età, se prova a piegarsi sulla foto; anche se continuava, prima della tragedia, a tenerli allenati con il jogging. Sarà anche per il fuori allenamento, che avverte quel fastidio che rischia d’inchiodarti in una posizione da gobbo di Notre-Dame. Così si ritira su, ma preferisce non toccarle più le cose di Alessandro, e neanche sfiorarle, per non vedere nella polvere che vola via quello che ormai rimane di suo figlio. Quella foto in particolare preferisce non avvicinarsela a sé, anche per non vederci, in quel gesto, il beffardo inganno di una sua presenza, l’illusione di un abbraccio cui non può più ardire, ormai. È lui che gli ha scattato quella foto, e subito dopo, sì che l’ha abbracciato, quella volta sulle Mura che non gli viene in mente quante primavere prima vinse quella gara. E poi l’ha fatta sviluppare ed è sempre lui che gli ha regalato la cornice, per valorizzare quella bella espressione sorridente di suo figlio che esulta con la medaglia d’oro al collo, appena uscito vincitore dalla Venti Chilometri di Podistica sulle Mura di Lucca di qualche primavera fa; che ora proprio Alberto non si ricorda quando, bastardo d’un boia, anche se ci sarebbe scritto dietro la foto da smontare dalla cornice, ma che tanto ogni anno la fanno, quella gara, e quest’anno gli organizzatori la vogliono intitolare proprio a lui, ad Alessandro.

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