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Il fabbro, il templare e la reliquia
Il fabbro, il templare e la reliquia
Il fabbro, il templare e la reliquia
E-book631 pagine7 ore

Il fabbro, il templare e la reliquia

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Info su questo ebook

Medioevo, tempo di feudi, di spade e di reliquie, tempo di battaglie e di cavalieri, di matrimoni combinati e di titoli nobiliari, di crociate e di Templari. Aprite questo libro e vi ritroverete lì, a percorrere strade insidiose, con le orecchie tese e la mano sull’impugnatura della spada, se mai dovessero attaccare i banditi. Incontrerete Martino, il fabbro che non ama la guerra, ma che è stato costretto a conoscerla. E vi piacerà, Martino… potete esserne certi. Lui piace a tutti, a parte quelli che desiderano ciò che sta proteggendo, s’intende. Piace a tal punto che un suo nemico gli deve la vita per due volte, viene nominato cavaliere per i suoi meriti, coglie la virtù di una donna meravigliosa e viene accolto tra i Templari. Ora, tra tutte queste cose, se gli fossero state proposte, almeno di qualcuna avrebbe fatto a meno. Sta di fatto che ora dovrà scortare quella reliquia nel viaggio verso la sua destinazione finale. E come si dice in questi casi, davvero non sarà una passeggiata. Un romanzo eccezionale, scritto con grande maestria da Lorenzo Pesce.
LinguaItaliano
Data di uscita29 mar 2018
ISBN9788893844963
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    Anteprima del libro

    Il fabbro, il templare e la reliquia - Lorenzo Pesce

    © 2017 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 978-88-9384-496-3

    I edizione novembre 2017

    Il fabbro, il templare e la reliquia

    A Manuela

    «Questo è l’ultimo schiaffo che tu subisci senza reagire!»

    Quindi prese la spada di Roland e toccando di piatto sul capo, sulla spalla sinistra e poi sulla destra di Martino,

    pronunciò la formula tradizionale…

    Cap. 1

    ALLAH-U AKBAR!

    Benevento, febbraio 1266

    Allah-u Akbar!: il grido del muezzin risuonò nel campo svevo, mentre il pallido sole invernale tramontava. I fedeli musulmani si raccolsero nell’angolo meridionale dell’accampamento, disposero a terra i loro tappeti da preghiera, si inginocchiarono e seguirono l’orazione dell’imam, Ali ibn-Bakkaq. Il campo svevo, disposto nella spianata compresa nell’ansa del fiume Calore, ai piedi della collina su cui sorge Benevento, brulicava di tende. Quelle dei musulmani, fedelissimi di Manfredi, erano situate nella parte più a sud, in modo che fosse più facile prosternarsi in direzione della Mecca. Così non avrebbero turbato il resto delle forze del re, costituite da armati di varia provenienza ed etnia, tutti cristiani certamente poco praticanti, ma poco propensi ad accettare i riti e la presenza stessa degli infedeli. Ovunque nell’accampamento svevo fumigavano fuochi di bivacco, dove gruppi di soldati tentavano di scacciare il freddo penetrante e di cuocere lo scarso cibo, razziato nei dintorni o offerto con parsimonia dagli addetti ai rifornimenti delle forze sveve.

    Le premesse

    Si stava avviando al termine la lotta tra Manfredi-re per molti, usurpatore per altri – e Carlo d’Angiò. Il primo, figlio illegittimo ma amatissimo di Federico II, aveva occupato il trono di Sicilia alla morte del padre, usurpando i diritti dei legittimi eredi, ma soprattutto, aveva rifiutato l’omaggio feudale al papa, scatenandone l’ira. Così papa Clemente aveva chiamato Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX, affinché abbattesse Manfredi e ristabilisse nel regno di Sicilia il potere della Chiesa. A Carlo d’Angiò l’omaggio al papa poco importava: contava molto di più avere l’occasione per un regno proprio, per non dovere sempre rendere omaggio al fratello re di Francia, un sant’uomo, per carità, ma ingombrante. Dopo un lavorio diplomatico complesso, il reperimento dei fondi necessari, i compromessi con gli alleati, la raccolta di uomini e mezzi per l’impresa, le forze angioine avevano lasciato Roma, dove Carlo aveva concluso gli ultimi accordi con papa Clemente, e si erano dirette a sud, varcando i confini del regno di Sicilia. Manfredi, scomunicato, indebolito dalle defezioni di alcuni baroni, si preparava a combattere e aveva raccolto, a sua volta, un esercito. Nel febbraio del 1266, in pieno inverno, dopo qualche scontro non decisivo, il re attendeva alle porte di Benevento l’arrivo di Carlo. Sapeva che l’avversario era a corto di viveri per gli uomini e per i cavalli e che anche il denaro, così importante per pagare i mercenari e per corrompere avversari, cominciava a difettare. Purtroppo Manfredi sapeva che il tradimento serpeggiava tra le sue forze, soprattutto tra i baroni pugliesi: era necessario giungere al più presto a combattere, prima che il numero dei disertori aumentasse o che a Carlo arrivassero altri uomini. Ma anche Carlo non dormiva sonni tranquilli. Malgrado esazioni da comunità ebraiche e prestiti forzosi richiesti ai banchieri toscani, l’oro raccolto stava finendo e ne serviva ancora tantissimo: corrompere i baroni pugliesi, i più sensibili alle sue offerte, aveva un prezzo altissimo e le notizie che giungevano da sud non erano abbastanza confortanti. Alcuni erano disposti a tradire, ma volevano essere certi che fosse un buon affare: la conferma degli antichi privilegi e l’aggiunta di nuovi benefici. Carlo poteva anche promettere, ma doveva fare i conti con gli appetiti dei suoi baroni, che contavano di soppiantare la nobiltà del regno di Sicilia. Le ricchezze del Regno facevano gola a tutti, dal papa a Carlo d’Angiò, dai cavalieri provenzali all’ultimo mercenario, fino ai mercanti al seguito dell’esercito, che si ripromettevano comunque traffici lucrosi, con i vecchi e i – forse-nuovi padroni.

    Nonostante l’appoggio della Chiesa di Roma, che valeva quanto una potente armata, Carlo aveva forti dubbi che il suo esercito rimanesse ancora a lungo compatto. Tenere insieme cavalieri provenzali con mercenari fiamminghi, toscani e francesi, alcuni legati al principe da vincoli di vassallaggio, altri dal semplice tornaconto economico, era già di per sé un’impresa. Ma a ciò si aggiungeva la stagione fredda, che comportava difficoltà nel reperimento di cibo per l’esercito e foraggio per i cavalli, un’avanzata lenta per strade fangose, innevate nel passaggio dei monti che separavano Roma dalle pianure campane. Nella città eterna l’angioino era rimasto stupefatto alla vista di ciò che rimaneva della Via Appia: strade come quella avevano reso facile la conquista del mondo alle legioni romane. Ma la sua strada era poco più di un tratturo, una pista buona per greggi di pecore, ma tremendamente lenta per un esercito, che aveva al seguito carriaggi di rifornimenti e anche un discreto numero di civili (mercanti, compagne dei soldati e donne di piacere).

    L’esercito svevo

    Erano gli ultimi giorni di febbraio. Tutti nel campo sapevano che lo scontro decisivo era prossimo e si preparavano, a combattere, o a tradire. Le forze presenti comprendevano i fedeli Saraceni di Lucera, forse 10.000 arcieri (ma la cifra fornita dalle fonti è sospetta e tendenzialmente esagerata: qualche migliaio pare più ragionevole) e cavalleria leggera – qualche centinaio di uomini-. C’erano poi i mercenari tedeschi, 1200 uomini, il nerbo delle forze sveve: si trattava di cavalieri esperti, con armatura in piastra metallica – una novità, per l’epoca – che li rendeva quasi invulnerabili. Ma su quel quasi si giocò poi la sorte della battaglia. Li comandavano Giordano Lancia, cugino di Manfredi, e Galvano d’Anglona. C’erano quindi i mercenari italiani: toscani e lombardi, ma anche piemontesi, un migliaio di uomini, quasi tutti a piedi, guidati da Galvano Lancia, zio del re, che li aveva personalmente reclutati al nord e che godevano della sua fiducia. Ultime erano le forze dei baroni del regno, circa 1400 armati, agli ordini dello stesso Manfredi, che ne temeva le defezioni.

    Le forze angioine

    Carlo disponeva di una forza altrettanto variegata: fanteria e cavalleria provenzali, circa 900 uomini, comandati da Ugo di Mirepoix e Filippo di Montfort. Poi 1000 armati provenienti dalla Francia centrale, e 400 italiani, soprattutto guelfi toscani, sotto la guida dello stesso Carlo. Chiudevano l’elenco delle forze angioine 700 mercenari dal nord della Francia e dalle Fiandre, guidati da Gilles de Trasignies, Connestabile di Francia, e da Roberto III di Fiandra.

    I Piemontesi

    Tra le truppe del re c’era anche una compagnia di mercenari, detti i Piemontesi, provenienti in buona parte dal Piemonte, ma anche da altre parti dell’Italia del nord e del resto d’Europa: Canavesani, Monferrini, Albesi, uomini delle vallate alpine, delle colline e delle pianure, contadini rovinati dalle guerre e borghesi delle città subalpine esiliati a causa delle lotte intestine, che avevano scelto il mestiere delle armi come unica possibilità per non morire di fame. Pochi i cavalieri, figli cadetti di nobili rovinati, senza speranza di eredità, spesso appiedati, perché un cavallo costava troppo. Si trattava quindi prevalentemente di fanti, con armamento spesso raffazzonato: armi offensive ricavate dagli attrezzi del loro lavoro (come falci e scuri) o razziate sui campi di battaglia, armature spesso assenti o ridotte a giubbe di spesso cuoio, a volte rinforzate con lamine metalliche – come brigantine primitive – o con piastre nei punti più esposti. A difesa del capo avevano caschi di cuoio bollito o elmi di metallo (solo i più fortunati, che se li erano procurati come preda di guerra, come del resto anche altre parti di armatura). C’erano molte spade corte, adatte al combattimento a piedi, ma frequenti anche roncole, coltellacci, scramasax, molte balestre, dal momento che l’addestramento di un balestriere era abbastanza rapido: in fin dei conti bastava avere una schiena solida, braccia robuste e una buona vista. Al gruppo di forse 200 uomini, con un forte spirito di cameratismo, consolidato da anni di lotte e di sofferenze comuni, si erano aggregati anche una dozzina di arcieri gallesi, fuggiti dal loro paese dopo le persecuzioni degli invasori inglesi. L’arco lungo gallese, alto quanto un uomo, aveva destato la curiosità dei loro compagni d’arme, abituati ad archi più leggeri e meno potenti. La curiosità era diventata ben presto autentica ammirazione e aveva spinto alcuni compagni a procurarsi archi simili: in fin dei conti non mancavano allora in Italia foreste in cui trovare tronchi di tasso adatti. Ma nessuno riusciva a raggiungere la perizia dei Gallesi nell’uso dell’arma nazionale, anche se il loro esiguo numero non poteva comunque rovesciare l’esito di uno scontro, come sarebbe invece successo nelle guerre di Francia un secolo dopo. L’età dei mercenari del gruppo variava, dai giovani quasi imberbi, che seguivano padri o fratelli maggiori, a uomini maturi, con i capelli ingrigiti, veterani di guerre, dove avevano visto tutto il male possibile. I loro sguardi erano disincantati, duri, rivelavano tutta l’amarezza di una vita vissuta ai margini della società, che li temeva e li odiava: i mercenari erano una maledizione, che fossero amici i nemici. Bisognava pagarli in tempo di pace e in tempo di guerra, e il denaro necessario si poteva reperire solo con odiose gabelle. Bisognava nutrirli e ciò che non veniva dato spontaneamente era preso con la forza o la minaccia. Sulla virtù femminile, messa a dura prova da tutti i guerrieri – che fossero nobili o plebei, fanti o cavalieri – è inutile aggiungere qualcosa a ciò che tutti possono immaginare. Da una parte l’immagine del fiero uomo d’arme, apparentemente senza paura, poteva affascinare dame e contadine, le une e le altre spesso sposate a uomini maturi, o vecchi, di cui non erano innamorate. Ma molto più frequenti erano le violenze, singole o di gruppo, di individui abituati a prendere con la forza ciò che desideravano: né spose, né vergini consacrate a Dio, né luoghi sacri potevano arrestare uomini preda di pulsioni sessuali sfrenate. Solo comandanti severi e spietati erano in grado di controllare soldati privi di scrupoli, con punizioni esemplari, dalle frustate fino alla pena capitale. Per evitare guai peggiori, ogni esercito si portava al seguito un certo numero di prostitute e di mezzani, un male necessario, che anche la Chiesa, per quanto a malincuore, accettava come il male minore.

    Martino

    Nel gruppo dei Piemontesi spiccava Martino, un giovane di statura media, tarchiato, bruno di capelli, con una corta barba scura che gli incorniciava il viso dalla mascella forte. Poteva avere forse 25 anni, ma era già un veterano: da almeno sette anni faceva parte della compagnia e tutti avevano avuto modo di apprezzare il suo coraggio, la sua forza fisica, la sua resistenza alla fatica e ai disagi, la sua abnegazione. Molti dei camerati erano in debito con lui, perché Martino era pronto ad aiutare chi era in difficoltà o in pericolo, anche a rischio della propria vita, e poi era un buon compagno con cui condividere una brocca di vino o giocare a dadi, senza tema che barasse. Nessuno sapeva per quale ragione fosse diventato un soldato: qualcuno lasciava intendere, avendolo udito in un momento di abbandono, che la sua famiglia non c’era più, massacrata da malfattori, forse sbandati di uno dei tanti eserciti di passaggio in Piemonte. Qualcuno sapeva invece che di mestiere era destinato a diventare fabbro, prima di buttare il maglio e il grembiule di cuoio e seguire altri mercenari: lo provava la sua abilità nel riparare armi danneggiate. Ma era con la balestra che Martino mostrava la sua maestria: con il piede nella staffa tendeva rapidamente la corda e la bloccava nella noce, incoccava il dardo, prendeva la mira e scoccava, poi ricaricava velocemente ed era pronto per un nuovo bersaglio. Martino si era ancora indurito in mezzo a fegatacci con pochi scrupoli, miscredenti, crudeli, legati solo da un reciproco patto di solidarietà con gli altri del loro gruppo, provvisoriamente fedeli al signore che li pagava, finché la paga arrivava, più o meno puntuale. Professionisti della guerra, che dalle battaglie potevano aspettarsi la morte o un ricco bottino, ma non certo la ricchezza; forse solo alcuni comandanti potevano sperare di arricchirsi e di sistemarsi, magari con un buon matrimonio. Era noto in tutta Europa il caso di un cavaliere di famiglia modesta, che aveva fatto carriera grazie al proprio valore e alla propria intelligenza: si trattava di Guglielmo detto il Maresciallo, il più famoso cavaliere d’Inghilterra al tempo di Riccardo Cuordileone. Vincitore in tutti i tornei cui aveva partecipato, onusto di gloria e di prede, era diventato addirittura reggente durante l’assenza del re e, già in età matura, aveva sposato una ricca ereditiera. Era morto già anziano, onorato da tutti. Che bell’esempio, per dei rudi guerrieri! Ma si trattava comunque di un cavaliere, di un uomo che aveva combattuto per il suo re, fedele a dei principi, non di un mercenario pronto a vendersi al migliore offerente. Di questo discutevano spesso davanti ai fuochi di bivacco i compagni di Martino, avidi di gloria, ma soprattutto di denaro, quello proveniente dalla paga e quello dei saccheggi. Quasi tutti speravano di accumulare un gruzzolo sufficiente per ritirarsi dal loro pericoloso mestiere vivi e integri, diventare piccoli possidenti e vivere in pace il resto della vita. Alcuni, però, si erano totalmente abituati a quell’esistenza disordinata, priva di regole certe, in cui si poteva essere vincitori al mattino e in fuga alla sera, ricchi per un momento e alla disperazione poco dopo, destinati a dormire all’aperto, sulla nuda terra o in un palazzo signorile, in un letto con baldacchino. Le donne poi! Tutte erano possibili prede, volenti o nolenti, grasse o magre, nobili o plebee, giovani o mature… Le fantasie erotiche dei mercenari non avevano limiti e si accendevano vieppiù nelle soste in taverna, quando ognuno vantava la propria virilità, il numero dei rapporti sessuali avuti con donne diverse, più o meno consenzienti, la quantità di mariti cornificati e spesso bastonati. Martino ascoltava, talvolta divertito, più spesso annoiato o infastidito: certo che sentiva prepotente il desiderio per molte delle donne incontrate e non si era tirato indietro quando gli era capitata qualche favorevole occasione. I suoi occhi scuri e profondi, la sensazione di forza tranquilla che emanava, persino il suo sorriso timido piacevano alle donne, ma mai aveva ottenuto con la violenza o le minacce i favori femminili. Sognava, una volta lasciato quell’orrendo mestiere, di sposare la donna amata, di mettere su famiglia, avere dei figli, una casa, un focolare, una vita tranquilla e operosa, quello che anche altri compagni sognavano, ma non osavano confessare, per tema di apparire dei deboli.

    Bivacco al campo svevo

    Quando i mercenari lombardi e toscani, sotto il comando di Galvano Lancia, erano giunti al campo svevo nel tardo pomeriggio del 24 febbraio, Martino era rimasto stupito dal numero di tende che ricoprivano la breve pianura tra l’ansa del fiume Calore e la collina su cui sorge Benevento. Lo avevano lasciato perplesso, ancor più della varietà di armati a piedi a e a cavallo, le lingue parlate nel campo. Per un uomo abituato a parlare il franco-provenzale della sua valle, che capiva il francese e il provenzale, che parlava il piemontese e altre parlate locali, anche l’italiano era una lingua straniera. Ma qui si parlava il tedesco e, addirittura, la lingua degli infedeli saraceni! Questi ultimi rappresentavano, per Martino, un piccolo mistero: come era possibile che un re cristiano, per quanto scomunicato (che cosa era poi la scomunica?), avesse rapporti di amicizia con dei musulmani? Come mai la sua guardia del corpo era costituita da arabi? Martino tenne per il momento per sé queste domande, in attesa di trovare qualcuno che gli desse risposte accettabili. Fuochi innumerevoli punteggiavano il declivio e il vento leggero portava verso i nuovi arrivati odori diversi: il fumo della legna, il fetore di migliaia di corpi mal lavati, dei cavalli e dei muli, dei cessi, anche della carne arrostita. Quest’ultimo odore era quello che più turbava i mercenari, affamati e digiuni dal mattino: al massimo avevano rosicchiato qualche tozzo di pane rinsecchito durante la marcia forzata, continuamente stimolati da Galvano Lancia, che aveva promesso loro un pasto caldo e il pagamento del loro soldo all’arrivo al campo.

    Finalmente si mangia!

    I mercenari sistemarono bagagli e carriaggi nella parte dell’accampamento a loro destinata dal maestro di campo; vennero così a trovarsi proprio a una decina di pertiche dal campo saraceno, dove i Pugliesi avevano rifiutato di fermarsi. Troppo stanchi per protestare e senza valide ragioni per farlo, gli uomini di Galvano Lancia provvidero, ognuno secondo i propri compiti, a porre i paletti con funi per cintare il loro campo, sciogliere i finimenti degli animali e rifornirli di foraggio. Lasciarono quindi con loro gli addetti ai carriaggi, mentre alcuni scavarono rapidamente le latrine, nell’angolo dell’accampamento più periferico e sottovento. Altri eressero rapidamente le tende di tela pesante – ciascuna per sette o otto uomini-, sistemarono i giacigli per la notte, stabilirono i turni di sentinella e poi pensarono al rancio. Vista l’ora e poiché avevano sentito, con qualche apprensione, che l’ora del rancio era già passata, temevano di continuare il digiuno. I razziatori già si preparavano ad una spedizione, quando giunse in mezzo ai nuovi arrivati un messo del re. Manfredi, grato per il loro apporto, che rinforzava notevolmente le sue truppe, li salutava e mandava loro i suoi servi, con cibi caldi appena cucinati dai cuochi stessi del re. Infatti seguivano il messo alcuni uomini che trasportavano con lunghe stanghe marmitte fumanti: zuppe di cereali, arricchite con pezzi di carne di maiale, e grosse forme di pane di segale. Altri servi portarono brocche di vino rosso, che posarono vicino al comandante: sarebbe spettato a lui assegnare alle compagnie, secondo il loro numero, una quantità equa di vino. I mercenari si raccoglievano per gruppi omogenei, così come erano soliti disporsi in battaglia, attorno ai fuochi, che, nel frattempo, avevano acceso e alimentato. Ognuno di loro aveva una ciotola (alcune di legno, altre di stagno o addirittura di peltro, evidentemente preda di guerra) e un boccale (parecchi di cuoio, molti di legno, altri di metallo), mentre per tagliare il pane non mancavano certo i coltelli. Presto molti cucchiai di legno cominciarono a risuonare nelle ciotole, piene di zuppa spessa e fumante, confortando il corpo infreddolito dei soldati. Per loro fortuna il freddo serale era mitigato dal calore dei fuochi; l’inverno era meno rigido di quelli del nord, ma comunque sgradevole, soprattutto non potendo cercare riparo sotto un tetto. Attorno allo stesso fuoco si trovarono una trentina di uomini, che Martino conosceva da tempo e con cui parlava volentieri; in verità anche parlare non era stato facile, inizialmente: non solo per la naturale tendenza di costoro al silenzio e alle parole meditate, ma anche perché parlavano dialetti simili, ma con consistenti differenze. Il provenzale di alcuni differiva dal franco-provenzale di altri, ancora diverso dal piemontese di pianura rispetto a quello delle colline astigiane o cuneesi, per cui valeva per tutti una lingua franca, abbastanza simile a quella parlata dai lombardi. John, il gallese, si era adeguato a questa parlata, ma era in grado di capire e parlare l’inglese degli invasori della sua terra, il francese e anche l’italiano dei toscani. Alla destra di Martino c’era Attone di Casale, il capo riconosciuto dei mercenari piemontesi: alto, robusto, con una capigliatura bruna, che lasciava ormai scoperta la fronte e ingrigiva sulle tempie; la barba nera e incolta gli dava un’aria inquietante, accentuata dagli occhi scuri e incorniciati da folte sopracciglia. Gli uomini lo avevano scelto come loro guida per la sua lunga esperienza di guerriero – aveva ormai dimenticato a quante guerre aveva partecipato, di qua e di là delle Alpi e degli Appennini – e per la sua capacità di guidare con sicurezza i suoi uomini. Duro quanto basta, con amici e nemici, era alieno dalla inutile ferocia e non aveva mai abbandonato uno della sua compagnia nei guai. Galvano Lancia sapeva di poter contare su di lui, uno dei suoi comandanti in sottordine più fidati e sapeva che altrettanto si poteva fidare degli uomini di Attone. C’erano poi, tra gli altri: i taciturni Bodo e Gaimaro da Pont, il primo detto il Tiradritto, il secondo il Falco, per la sua vista straordinaria; Giacomo da Mesnil, un montanaro che continuava a parlare della sua valle come se fosse il posto più bello del mondo (a chi gli domandava perché non ci era rimasto, se era così bello, rispondeva che purtroppo non c’era da vivere) ; Maurizio da Torino, detto lo Spretato (che aveva rinunciato ai probabili agi di una vita da chierico, per seguire l’avventura); Vittorino e Simone da Alba, Vilfredo da Pinerolo, Wolf, detto il Lupo, dalla Valsesia, i due fratelli Varmondo e Arduino, da Ivrea (che sostenevano di avere qualche quarto di nobiltà, senza essere presi troppo sul serio), Rollone da Saluzzo, detto lo Sfregiato, e John, il gallese, tarchiato e tosto.

    In vino veritas

    Terminato il pasto, consumato in silenzio e assaporando le delizie di una zuppa calda e sostanziosa, i piemontesi si stiracchiarono le membra indolenzite e versarono altro vino rosso nei boccali. Il forte vino meridionale, probabilmente un Falerno-riscaldava i cuori e le membra dei soldati e li invitava a parlare, a ricordare gli amici comuni, le buone cose che si mangiavano alle feste, il calore di casa. Già, soprattutto il calore: il buon fuoco nel camino, l’odore buono della legna secca e resinosa, le castagne arrostite sulla fiamma viva, il profumo dei semplici cibi contadini… Martino ed i compagni per un momento dimenticarono le ragioni per cui erano finiti così a sud, in mezzo a gente che non li amava, in quanto soldati e forestieri, abituati a prendersi con la forza ciò che volevano. Era stato l’ingaggio in monete sonanti ad attirarli, la speranza di futuri pagamenti, la possibilità di saccheggio, la certezza di sottrarsi con una vita rischiosa ad una miseria certa. Qualcuno aveva fatto fortuna con il mestiere delle armi, lo sapevano, ma tanti non erano tornati o erano finiti mutilati a mendicare in mezzo a gente poco meno miserabile. Mentre pensieri poco piacevoli cominciavano ad occupare i loro cuori, passò accanto al loro fuoco Galvano Lancia, il cugino del re, seguito dai suoi scudieri.

    -Signore, volete unirvi a noi e scaldarvi al nostro fuoco?-disse Attone, alzandosi in segno di rispetto, mentre anche gli altri mostravano di alzarsi.

    -State seduti!- rispose burbero il conte -Accetto il vostro invito: questo freddo entra nelle ossa e non basta il mio mantello a scaldarmi!-.

    Fecero posto intorno al fuoco a lui e ai suoi scudieri; Galvano si sedette sullo sgabello portato per lui e raccolse intorno al corpo il pesante mantello di lana chiara, con l’interno rivestito di pelliccia, coprendosi il capo con il cappuccio. Fecero per versare il vino dalla brocca nella sua coppa d’argento, ma Galvano rifiutò cortesemente e fece portare da un servo una botticella quasi piena, ne fece travasare parte del contenuto nelle brocche ormai vuote e disse:

    -È un vino da principi: è Moscato di Samo, proviene dalla Grecia. È un dono del re che voglio dividere con voi. Abbiamo diviso cibo ammuffito e pericoli, abbiamo versato insieme il nostro sangue. È giusto che dividiamo anche le cose buone. Un vino così dolce e forte è difficile che lo abbiate mai bevuto e forse non lo berrete mai più. Domani o dopodomani combatteremo. Forse ci incontreremo all’inferno, la prossima volta. Ma ora beviamo!-.

    Mentre parlava, gli scudieri versavano il liquido ambrato nei boccali, poi ci fu un primo brindisi alla salute di Manfredi, un secondo a quella di Galvano, poi ciascuno bevve secondo il proprio gusto. Abituati a vini rasposi, aspri, talvolta annacquati dagli osti – battezzati, dicevano loro – mai avevano gustato un vino così dolce e forte, che scaldava le viscere e allontanava i brutti pensieri. Attone urlò con voce stentorea, per sovrastare il vociare degli uomini intorno ai fuochi:

    -Lanfranco! Vieni qui con la tua arpa! Suonaci qualcosa di speciale, se vuoi bere con noi!-.

    Quasi subito giunse il giovane chiamato: aveva capelli chiari, un accenno di barba; era pallido e aveva l’aria timida; portava con sé un’arpa celtica, uno strumento perfetto per un cantore girovago. Dopo aver salutato con rispetto il conte Lancia e aver bevuto con soddisfazione un primo bicchiere di vino greco, si schiarì la voce e disse:

    -Vi suonerò una canzone, che molti di voi conoscono: Il lamento di Tristano-.

    Lanfranco iniziò a pizzicare le corde dello strumento, seguendo un’aria famosa in tutta Europa, che narrava la storia del cavaliere Tristano e del suo infelice amore per la bella Isotta. Appena Lanfranco ebbe terminato il suo brano tra il vociare soddisfatto dei compagni, Vilfredo cavò fuori il suo flauto e iniziò a suonare una estampida, che i tamburini accompagnarono con il rullio dei loro strumenti ed i compagni con il battito ritmato delle mani. La musica popolarissima e il ritmo dato da Vilfredo scossero dal torpore alcuni uomini, che iniziarono a ballare, come se si trovassero sull’aia di casa. Anche per Galvano il freddo era passato. Altri si erano uniti al gruppo del comandante: almeno una cinquantina di uomini stavano ormai intorno al fuoco di Martino, che lasciò il gruppo perché era giunto il momento del suo turno di sentinella. Raggiunse il posto assegnatogli, rilevò il compagno e apprese da lui la parola d’ordine, poi si apprestò a rimanere sveglio e attento per le successive tre ore. Si avvolse strettamente nel corto mantello di lana, controllò che la sua spada scorresse nel fodero, che il pugnale fosse pronto all’uso nella cintura, infilò i guanti di pesante cuoio e tenne la balestra pronta all’uso. Avrebbe dormito volentieri, dopo la marcia forzata, ma era necessario che qualcuno vegliasse sul riposo dei compagni; lui avrebbe riposato dopo, per qualche ora. Ma pensieri cupi lo tormentavano: verso nord, sulle montagne, rosseggiavano fuochi numerosi. Era l’esercito francese di Carlo: ormai il confronto era prossimo e dall’esito dello scontro sarebbe dipeso il destino di Manfredi, ma soprattutto, quello di Martino. Se Manfredi avesse vinto, quasi certamente i mercenari non sarebbero più serviti e Martino avrebbe dovuto cercare, con i suoi compagni, un nuovo ingaggio, un’altra guerra. Ma se avesse vinto Carlo, le cose sarebbero andate molto peggio per i mercenari: o la fuga o la morte. Non si facevano prigionieri, a parte i nobili, per cui si poteva ottenere un riscatto; i feriti e i prigionieri erano semplicemente eliminati, a meno che qualcuno pagasse per loro un improbabile riscatto. La paga ottenuta da Martino fino a quel momento erano monete d’oro e d’argento (qualche fiorino d’oro, alcuni genovini, freschi di conio), in parte ottenute vendendo ai mercanti il bottino dei saccheggi. Teneva il tutto in un sacchetto di pelle, che pendeva dal collo, tra la camicia e la giubba di cuoio; solo con la forza avrebbero potuto strapparglielo: il suo futuro, pensava, dipendeva da quelle monete. Si trattava in realtà di una discreta somma: gli avrebbe permesso di acquistare una casa, di mettere a frutto la sua abilità come fabbro, di guadagnarsi da vivere onestamente, sposarsi e avere figli…

    La spia

    Si riprese immediatamente dalle sue chimere, quando udì un rumore sospetto: qualcuno si stava avvicinando ai limiti dell’accampamento, silenziosamente, ma non abbastanza per i sensi esercitati di Martino. Questi incoccò una quadrella, prese la mira verso il punto da cui proveniva il rumore e disse con voce ferma:

    -Chi va là? Chi sei? Parola d’ordine!-.

    -Vittoria e Svevia!- rispose a voce bassa il misterioso personaggio, uscendo dal buio e avvicinandosi con le mani bene in vista. -Portami dal conte Galvano: ho notizie per lui-.

    Martino chiamò un compagno e, avendo quasi terminato il suo turno di sentinella, lasciò l’altro a vigilare e scortò lui stesso l’uomo dal comandante. Si trattava di una spia, conosciuta con il soprannome di Faina, inviata da Galvano a controllare i dintorni e, se possibile, infiltrarsi tra le fila dei francesi. Faina, avvolto nel mantello e con il cappuccio calato sul volto, aspettò brevemente che il conte fosse svegliato, dopodiché parlò a lungo con lui, che mostrò con il suo malcelato nervosismo quanto le notizie lo turbassero. La spia gli rivelò i movimenti delle truppe nemiche fino a quel momento, l’arrivo di forze fresche a cavallo, ma anche la scarsità di cibo per gli uomini e di foraggio per i cavalli. C’era poi dell’altro: Faina aveva visto nel campo angioino anche uomini che già aveva notato con i baroni pugliesi; secondo lui, qualcuno si preparava a tradire. Galvano già lo temeva e aveva altre notizie in tal senso che alimentavano il suo pessimismo. Concluse il loro colloquio dicendo alla spia:

    -Passa dal mio segretario per il tuo compenso, quando vuoi; immagino che tu voglia riposare: vai nella mia tenda, poi rimani a disposizione. Ti convocherò in giornata per una riunione importante-.

    Sonno e incubi

    Martino era rimasto in disparte, fuori portata delle voci dei due, che erano d’altra parte troppo basse per essere udite. Comprese comunque che non si trattava di buone notizie ma in quel momento era troppo stanco per riflettere ulteriormente. Raggiunse la tenda che gli era assegnata, si sistemò senza spogliarsi sul paglione, dopo aver spostato delicatamente la gamba di Bodo, che cambiò solamente il ritmo della sua russata. Anche gli altri compagni russavano fragorosamente e c’era un tremendo odore di flatulenze, di sudore e di corpi che da tempo non conoscevano acqua e sapone, ma il relativo tepore della tenda rispetto al freddo all’esterno conciliarono immediatamente il sonno di Martino, che si avvolse strettamente nel mantello e dormì come un sasso fino alla sveglia mattutina. Fu un sonno senza sogni: non gli succedeva spesso, ultimamente. Erano frequenti incubi angosciosi, in cui cercava di sfuggire ad un nemico tremendo, di cui non riusciva a vedere il volto, che lo inseguiva feroce e implacabile, brandendo una spada. Nel sogno Martino aveva le gambe di piombo e a malapena riusciva a trascinarsi, mentre l’altro lo raggiungeva e immergeva la lama nella sua schiena, una, due volte, finché Martino si svegliava madido di sudore e con la sensazione che il nemico fosse lì vicino. Attribuiva questi incubi ricorrenti alla cattiva digestione, ai cibi poco salutari, alle bevute di vini di scarsa qualità, ma si affacciava anche il lui il sospetto che fosse la sua cattiva coscienza a morderlo, che il mestiere delle armi avesse un prezzo pesante: o la morte della coscienza o gli incubi. Ora però non c’era tempo per pensare: la battaglia era prossima; se fosse sopravvissuto, vincitore o vinto, avrebbe meditato se continuare a campare sul sangue, proprio o altrui, oppure se era ora di cambiare mestiere.

    Cap. 2.

    BENEVENTO, 25 FEBBRAIO 1266

    La vigilia della battaglia

    L’aurora era prossima e dalle montagne a est di Benevento si annunciava un pallido sole; sul campo svevo fumigavano ancora i fuochi, che erano rimasti accesi tutta la notte. Il rullo del tamburo diede la sveglia a Martino ed ai suoi camerati: emersero dalle tende con occhi segnati, la barba incolta, i capelli ispidi, ma bastò il richiamo secco dei loro capitani perché le ultime nebbie del sonno si dileguassero. Cercando di eliminare pulci e altri fastidiosi parassiti, compagni inevitabili di tutte le guerre, passarono a rimediare una ciotola di brodo caldo con pane raffermo e qualche pezzo di carne. Come ogni formazione militare, anche i mercenari di Galvano avevano al seguito cuochi e cucine da campo, che preparavano ciò che trovavano sul territorio. Trovare è ovviamente un eufemismo, poiché requisizione o rapina sarebbero termini più precisi. Attone passò in rivista la sua truppa, controllò quanti erano vivi e vegeti e quanti invece erano rimasti nelle tende: una decina di uomini, non abituati ai forti vini meridionali, erano in preda ai postumi della sbornia da Falerno, ma in poche ore sarebbero stati in grado di riprendere le normali attività. Attone ordinò di portare dal fiume qualche secchio d’acqua e di rovesciarlo sugli ubriachi. Sarebbe bastato a svegliarli del tutto.

    Baruch

    Sentì anche il medico che da qualche mese si era aggregato al gruppo di mercenari. Si chiamava Baruch ed era ebreo: Galvano aveva di lui una grande stima, poiché sapeva che aveva studiato alla scuola medica di Salerno ed aveva fatto esperienza in giro per l’Italia, ma anche in Spagna e in Egitto, dovunque c’erano comunità ebraiche. Era in grado di curare ferite anche gravi e di utilizzare erbe di varia provenienza, per lenire il dolore o procurare il sonno. Baruch, che era trattato da tutti i mercenari di Galvano con molto rispetto, riferì che qualcuno stava realmente male ed era febbricitante, anche in conseguenza di ferite recenti, per cui avrebbe avuto bisogno di decotti di erbe per abbassare la febbre e, possibilmente, del ricovero in qualche casa, dove stare al riparo.

    -Se non posso averli con me domani, tanto vale che siano curati come si deve. Dove li puoi portare?- domandò Attone.

    -A poca distanza da qui, sulla riva del Calore, ma prima delle mura di Benevento, c’è una magione dei Templari. Lì c’è un ospizio per pellegrini e malati: i Templari non fanno distinzioni e accolgono tutti-.

    -Bene, allora ti darò un carro e due uomini, per accompagnare i nostri malati e quelli delle altre compagnie dai Templari. Ma non avranno problemi con un ebreo come te?-Attone sembrava sinceramente preoccupato sia per i suoi uomini, sia per Baruch, in un paese dove gli ebrei erano spesso visti con sospetto e preoccupazione.

    -Tranquillo, capitano, i Templari sono abituati a trattare con ebrei e musulmani da un secolo e mezzo. Da noi hanno imparato parecchio e dagli arabi anche. Con loro noi ebrei non abbiamo nulla da temere-.

    D’accordo, ma dopo ritorna da noi: avremo molto bisogno di te, domani!-.

    In esplorazione

    Avendo provveduto ai malati, Attone comandò a tutti gli altri di affilare le armi, di ingrassare le parti in cuoio di armature e scudi e di controllare archi, balestre, frecce e dardi, in modo da essere pronti ad un combattimento, che si preannunciava prossimo. Convocò poi Martino:

    -Il conte mi ha fatto chiamare prima dell’alba, insieme agli altri capitani, per fare il punto della situazione; ora è necessario che andiamo a studiare il campo di battaglia, perché è chiaro che ci batteremo qui-.

    Incuriosito, Martino domandò:

    -E io a che cosa ti servo?-

    -Sai cavalcare?-

    -Se vuoi ordinarmi cavaliere e condurmi alla carica contro i Francesi, mi devo addestrare!- rispose ironicamente Martino.

    -Cavaliere no: non potrei, visto che neppure io sono cavaliere, ma uomo a cavallo sì- altrettanto ironicamente replicò Attone e continuò: -Tu mi accompagnerai nella mia perlustrazione: hai gli occhi buoni e non parli a sproposito; inoltre non ti ho mai visto ubriaco e questo è un buon segno!-

    -Grazie per la fiducia- concluse questa volta seriamente il giovane, -Farò il possibile per non deluderti-.

    Il guado

    Il campo svevo era posto nell’ansa del fiume Calore, a nord ovest della città, sulla strada che i Francesi avrebbero dovuto percorrere nella loro avanzata; a ovest del campo scorreva un altro fiumiciattolo, il Sabàto. Verso nord un ponte permetteva il passaggio del Calore, che non era un grande fiume, ma aveva rive scoscese e fangose, per cui era facile impantanarsi. L’esplorazione del territorio al di là del fiume sarebbe durata qualche ora, per cui Attone e Martino si fecero dare dagli scudieri del conte due ronzini, sauri, con una sella leggera, e qualche provvista. Attraversarono tutto l’accampamento e raggiunsero il ponte, che era vigilato da arcieri saraceni: dopo i controlli di rito, i due passarono il ponte in pietra, ad arco, largo abbastanza per il passaggio di due cavalieri affiancati o di un carro.

    -Bastano pochi uomini a difendere un ponte così…- osservò Attone.

    -Sì, ma passano pochi uomini per volta: se ci schieriamo nella pianura qui davanti e dovremo ritirarci, potrà farlo solo qualcuno. Sarà una strage, per gli altri- ribatté Martino.

    -È per questo che ti ho voluto con me: hai capito subito la situazione. Ora vedremo di trovare un guado praticabile: se sarà necessario ritirarsi, sarà meglio evitare il ponte!-.

    Fu così che i due cavalcarono al piccolo trotto seguendo il corso del Calore sulla sponda destra; furono fortunati, perché a un centinaio di passi dal ponte trovarono un guado. Martino si tolse le calzature, i gambali, i calzoni e il gambeson di cuoio, così rimase solo con la camicia; depose anche le armi, per non bagnarle, ma conservò lo scramasax, che si pose ad armacollo. Legato ad una fune tenuta da Attone, provò ad attraversare il fiume: l’acqua era limacciosa e fredda, ma sopportabile e la corrente abbastanza lenta; saggiò il fondo con un lungo bastone e, procedendo con cautela, riuscì a raggiungere l’altra riva senza bagnarsi oltre l’inguine. Ritornò indietro con sicurezza, si sciolse dalla fune e con Attone si premiò con un sorso di vino dalla fiasca di pelle lasciata con gli abiti:

    -Dopo tanta acqua fredda, ci vuole un po’ di vino per scaldarsi!-. Poi aggiunse:-Direi che il guado sia largo una dozzina di piedi, quanto basta per il passaggio di tre uomini appaiati; il fondo è solido. Mettiamo un segnale sulla riva, per non sbagliarci in caso di bisogno-.

    -D’accordo: taglia quei due alberelli vicino al passaggio: dovrebbe bastare-.

    Martino si rivestì, sentendo qualche brivido di freddo; rimise al suo posto al fianco lo scramasax e il pugnale, appese alle spalle lo scudo con la cinghia più lunga; quindi estrasse dalla custodia la scure e tagliò due alberelli vicino al guado. Il capitano commentò:

    -Una cosa è fatta. Certo che qui la riva è fangosa: a piedi potremmo farcela, ma gli zoccoli dei cavalli affondano. Dovremo fare attenzione. Ora andiamo a vedere dove ci piazzeremo per sorvegliare il ponte. Messer Galvano vuole che siamo noi a controllare l’accesso al ponte. Ha in mente qualcosa che non vuole ancora dirci…-.

    E Martino aggiunse:

    -…ma tu hai già un’idea… per esempio che non si fida di qualcuno che è già qui, e non si tratta certo di noi, vero?-.

    -Bravo Martino, ci siamo capiti; a fine giornata forse lo sapremo. Ora proseguiamo l’esplorazione: dovresti essere abbastanza asciutto!-.

    Risaliti a cavallo, tornarono vicino al ponte; Attone, con occhio esperto, valutò dove piazzare i suoi uomini, per un valido controllo del passaggio. Definì un’area che fosse sufficiente per controllare l’accesso al ponte, lasciando nel contempo il passo per le truppe sveve che sarebbero passate da lì.

    -Qui- disse al suo compagno -piazzeremo i pali per bloccare le cariche di cavalleria contro di noi; dietro metteremo i palvesi per difendere arcieri e balestrieri, intervallati con gli armati di picche e falcioni-.

    -Abbiamo pali a sufficienza?- domandò Martino.

    -No, dovremo tagliarne e prepararne altri; appena tornati al campo, darò gli ordini-.

    Cavalieri al galoppo

    Proseguirono il cammino verso nord, al piccolo trotto, per controllare il terreno. A nord del Calore si stendeva la pianura detta di Santa Maria della Grandella; a poche miglia c’era la collina detta del Roseto, poi iniziavano le montagne, alle cui falde era posto l’accampamento angioino, illuminato in pieno dal sole del mattino. Era circa l’ora terza e l’aria era limpida: si vedevano molte tende, ma una svettava sulle altre: un grande padiglione, accanto a cui sventolava una grande bandiera azzurra con i gigli d’oro dei Capetingi e una specie di lambello-o di merlatura rovesciata – rosso nella parte superiore. Era l’emblema di Carlo d’Angiò, fratello cadetto di re Luigi di Francia. Anche a distanza si vedeva la polvere sollevata dai movimenti dei soldati.

    -Se ricevono l’ordine di avanzare, ci saranno addosso nel giro di un’ora- osservò Attone.

    -Certo, questa pianura si presta allo battaglia: pochi alberi, pochi fossati, quasi nessuna casa. È l’ideale per uno scontro in campo aperto! Si tratta solo di vedere quando ci sarà-concluse Martino.

    Proprio mentre stavano per volgere i cavalli per il ritorno, videro a poco meno di mezzo miglio una nuvola di polvere che si avvicinava. Il tempo di tre o quattro respiri e individuarono due cavalieri arabi inseguiti da un gruppo numeroso di nemici a cavallo, armati alla leggera. Entrambi i gruppi erano diretti verso il ponte: entro un minuto al massimo vi sarebbero giunti. Attone imbracciò lo scudo ed estrasse la spada, mentre Martino aveva incoccato un dardo sulla balestra e preso di mira i cavalieri avversari, dopo essersi accertato che il cavallo rimanesse ben fermo, in attesa del momento favorevole. Quando i due musulmani furono a non più di cinquanta passi e i nemici a un centinaio, Martino scoccò e centrò uno dei nemici, che cadde rovinosamente al suolo.

    -Se anche il colpo non è stato mortale, con la caduta si sarà spezzato l’osso del collo!- disse Martino, mentre smontava da cavallo e ricaricava rapidamente la balestra.

    I due arabi, rinfrancati dalla presenza di Attone e Martino, fecero impennare i cavalli alla loro altezza, li bloccarono, imbracciarono i loro archi e scoccarono le frecce contro gli inseguitori. Uno cadde, un altro, solo ferito, perse il controllo del cavallo e rimase appeso per un piede alla staffa; fu trascinato via urlante. Rimanevano cinque uomini, armati di lancia e scudo, che erano quasi addosso ai due musulmani, ma un altro cadde, colpito al collo dal secondo dardo di Martino e altre due frecce degli arabi ferirono i superstiti, che a quel punto preferirono ritirarsi.

    Martino e i musulmani

    Martino rimise la balestra nella sua custodia di cuoio e, insieme ad Attone, rivolse un sorriso ai due cavalieri, a cui avevano risparmiato grossi guai. I due portavano in capo un tarikat – un elmo di ferro, che scendeva a proteggere anche la nuca – avvolto in un turbante, per proteggersi dal sole; il corpo era coperto da un qaftan di stoffa colorata, che ricopriva una cotta di maglia di ferro lunga fino alle ginocchia. Ai piedi portavano stivali di cuoio morbido, i khuff, larghi quanto basta per infilarvi i larghi calzoni. Sulle spalle un ampio mantello chiaro con cappuccio e sul braccio sinistro uno scudo rotondo, di legno e cuoio. Al fianco sinistro di entrambi pendeva una spada diritta, a destra un pugnale ricurvo; montavano due vivaci cavalli berberi, con la caratteristica sella leggera araba a staffe corte. I due parlarono in quell’italiano del sud, che pure non era la loro lingua e che i due piemontesi poco praticavano, ma non fu difficile capirsi:

    -Salam aleikum, shukran, grazie, il vostro aiuto è stato prezioso! Che Allah, il pietoso, vi ricompensi!- disse quello che sembrava il capo. -Sono Hussein e faccio parte della guardia del re; il mio compagno è Mohamed-.

    -Io sono Attone e questi è Martino: siamo giunti ieri dal nord con il conte Lancia-.

    -Sappiamo con chi siete: vi abbiamo visti arrivare ieri sera e accamparvi vicino a noi. Oggi ci avete salvato la vita e ve ne siamo grati. Vi aspettiamo al nostro campo questa sera, per dividere con voi il pane e il sale-.

    -Grazie- rispose Attone -invito accettato; intanto bevete con noi!- e porse ai due la fiasca di pelle con il vino.

    Hussein sorrise e rifiutò sorridendo:

    -La nostra legge non permette di bere vino o birra, come voi, ma vi offro io qualcosa- e porse loro un piccolo otre contenente airan, la bevanda a base di yogurt, acqua e spezie usata in quasi tutto l’oriente, ma del tutto ignota in occidente.

    Martino bevve subito dopo il compagno, entrambi dubitosi sulla bontà della bevanda, ma si ricredettero subito: era rinfrescante e piacevole, specie dopo la polvere sollevata dal breve scontro e l’arsura provocata dall’azione. Il giovane, che era curioso di sapere di più sui due arabi, domandò loro che cosa ci facessero nella terra di nessuno. Hussein rispose assumendo un’aria seria:

    Stavamo inseguendo un uomo, che avevamo visto allontanarsi come un ladro dal nostro campo; lo abbiamo colpito a morte con le frecce. Abbiamo controllato il corpo e abbiamo trovato un messaggio. Forse è importante, forse è il messaggio di un traditore. Dobbiamo portarlo al nostro capo, l’emiro Yussuf. Lui deciderà se è importante e se è cosa da riferire al re. Ma mentre stavamo per risalire a cavallo, sono comparsi all’improvviso quei francesi. Non è stato il loro numero a farci fuggire, ma l’importanza di consegnare al più presto il messaggio. Ma Allah, il potente, ha mandato due infedeli ad aiutarci. Shukran, ma ora è meglio affrettarci-.

    Qualcuno tradirà.

    Prima di tornare verso il ponte, i quattro recuperarono le frecce e i dardi, oltre ai cavalli e alle armi dei nemici caduti, che si divisero amichevolmente. Fu così che Martino si dotò di un giaco di maglia di ferro, da portare sul gambeson, di un cappello di ferro e di una spada da cavaliere, oltreché di un cavallo. Non pensava di cambiare il suo ruolo: un balestriere aveva bisogno di avere i piedi ben saldi a terra, non sulle staffe di un quadrupede. Ma spostarsi a cavallo era certamente più comodo che viaggiare a piedi… Il resto del bottino fu caricato sui quattro cavalli recuperati, così la piccola compagnia valicò nuovamente il ponte, in senso contrario. I due arabi raggiunsero la tenda del loro comandante, mentre Attone e il compagno cercarono messer Galvano, per riferirgli l’esito della loro esplorazione e le ultime vicende. Trovarono ben presto il comandante, che si preparava ad un consiglio di guerra con il re: ciò che i due riferirono lo inquietò parecchio:

    -Dunque il tradimento serpeggia tra di noi! È la conferma di ciò che già temevo e delle notizie di Faina. Fra un momento sentirò Yussuf: è ben triste doversi fidare maggiormente di un infedele che dei cristiani! Ora tu, Attone, parla a nome mio con gli altri capitani e riferisci loro quello che mi hai detto, ma senza parlare degli arabi e dei traditori: solo del guado e della posizione da occupare! Acqua in bocca: non sappiamo di chi fidarci!-

    Ciò detto, l’anziano cavaliere si allontanò, per raggiungere il grande padiglione rosso e oro del re.

    Consiglio di guerra: Manfredi

    C’era grande animazione intorno alla grande tenda del re. Alcune guardie musulmane, con abiti di seta dai colori sgargianti e le lance, controllavano arcigne tutti coloro che si avvicinavano. I loro ordini erano precisi: nessuno sconosciuto doveva passare senza rigidi controlli e tutti, salvo i fedelissimi del re, dovevano essere controllati, anche con perquisizione personale. C’era un giustificato timore che qualche sicario tentasse di pugnalare Manfredi prima della battaglia. In fin dei conti uccidere uno scomunicato come lui non era un assassinio per un buon cristiano e il papa aveva promesso il perdono dei peccati e assicurato la vita eterna a chi avesse tolto di mezzo il re. D’altra parte nel vicino Oriente non aveva forse prosperato per un centinaio di anni una comunità di assassini? Probabilmente molti nel campo svevo conoscevano la storia del Veglio della Montagna e dei suoi fedelissimi, i fidaj, pronti a sacrificare la vita per un ordine del loro capo e ad uccidere chiunque, fosse pure un re o un principe. Lo stesso sultano Saladino era stato minacciato dagli Assassini ed era sceso a patti con il loro capo. Corrado di Monferrato, capo riconosciuto dei crociati dopo il disastro di Hattin, era stato ferito a morte da due fidaj, circa 80 anni prima, al tempo della terza crociata. Ma non era scritto nel destino che Manfredi finisse ucciso dai sicari, anche se la linea della sua vita era ormai molto breve: ancora un giorno e avrebbe concluso gloriosamente la sua esistenza, sul campo di battaglia. Ma quella tarda mattinata di fine febbraio lo vedeva determinato, pronto a vincere o a morire; non più dubbi, non più esitazioni: la battaglia che si preannunciava imminente avrebbe deciso chi doveva regnare sul regno di Sicilia, con o senza scomunica papale. L’esercito che aveva radunato era forte, ma composito; solo sui Saraceni sapeva di poter contare pienamente. Ma i mercenari che gli aveva portato Galvano Lancia, quanto gli sarebbero stati fedeli? Quanto lo sarebbero stati i baroni pugliesi? I suoi informatori gli avevano portato notizie poco incoraggianti, sull’andirivieni di individui dal campo svevo a quello angioino, sulla lentezza con cui dalla Puglia giungevano le truppe di alcuni feudatari. La scomunica papale era giunta opportuna per chi non aspettava altro che una scusa per tradire. Ma nessuno ancora lo aveva fatto apertamente. Manfredi contava di poter recuperare almeno alcuni dei tentennanti fra la fedeltà a lui o un nuovo patto con Carlo, in attesa di nuovi benefici. Ora lo attendeva il consiglio di guerra: il sole era ormai alto nel cielo e i suoi ufficiali stavano giungendo. Manfredi lasciò la parte più privata della tenda e ne raggiunse il centro, luogo della riunione: tutti i convocati erano presenti e si alzarono con deferenza al suo ingresso. C’erano l’emiro Yussuf e Galvano Lancia, seduti vicini; accanto a loro Riccardo Filangeri, signore di Gragnano, poi Giordano Lancia, cugino del re, con Galvano d’Anglona. In disparte, pronto ad intervenire al minimo cenno del suo re, il fedelissimo Occursio, il suo coppiere. Salvo il re, che aveva una sedia più comoda, con schienale, tutti gli altri stavano seduti su sgabelli pieghevoli da campo, intorno ad un tavolo, sul quale stava una pergamena. Manfredi rispose cordialmente al loro saluto, guardando con attenzione i loro volti e il loro aspetto.

    -Yussuf, amico mio, mi sembri ringiovanito dall’ultima volta che ci siamo visti. Hai forse fatto visita alle tue mogli?-

    Sorridendo sornione, l’anziano emiro rispose:

    -Sidi, ho visitato le due più giovani: sono loro la mia gioventù!-

    Tutti sorrisero, qualcuno con una certa amarezza, dal momento che le mogli erano lontane e le donne di facili costumi che accompagnavano l’esercito non erano quasi mai né belle né giovani. Il re passò poi agli altri presenti:

    -Galvano, il mio zio prediletto! Sono mesi che non ti vedo: mi sembri un po’ sciupato!-

    -È vero, mio re: non ho più l’età per andare a cavallo a lungo, ma ti assicuro che farò il mio dovere fino in fondo-.

    -Non ne dubito, mio valoroso amico. Chi mi hai portato dal nord?-

    -Dei mercenari lombardi, toscani, pièmunteis dalle terre di tua madre, con altri di diversa provenienza, tutta gente in gamba, che merita il compenso ricevuto. Combatteranno, non solo per il soldo: parecchi hanno vecchi rancori con Carlo e gli Angioini e non vedono l’ora di saldare il conto-.

    -Bene! E tu, Giordano, cugino mio, come stai? L’ultima volta che ci siamo visti era autunno inoltrato: eravamo a caccia dalle parti di Andria e ci sentivamo sereni…-

    Sì, mio re, eravamo sereni e la caccia era stata fortunata. Forse andremo ancora insieme a caccia di cinghiali, ma ora è tempo di combattere-.

    -Già, c’è un tempo per vivere e un tempo per morire, dice l’Ecclesiaste, ma noi vivremo, almeno lo spero…- riprese Manfredi -Che uomini ci hai portato, Giordano?-

    -Mercenari tedeschi, uomini a cavallo e con armature nuove in piastra! Gente decisa a battersi e senza paura di nulla!- affermò Giordano Lancia.

    -Che cosa sappiamo di queste nuove armature?- domandò Filangeri incuriosito.

    Intervenne Galvano d’Anglona, in veste di capitano agli ordini di Giordano:

    -Si tratta di armature in acciaio, prodotte in Germania, che hanno il pettorale in un pezzo unico. Offrono una resistenza ai colpi di spada e

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