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Solo Andata
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E-book122 pagine1 ora

Solo Andata

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Il titolo richiama il viaggio in treno che portò l’autore da Cosenza a Roma, ancora bambino, per scelta dei genitori, che avevano deciso di vivere nella “ grande città”. Quella scelta, l’Autore non l’ha mai sentita sua e il legame con Cosenza ha pesato molto, addirittura fuori misura e si è tradotto in una testarda fedeltà che ha attraversato il tempo dello studio, del lavoro e della famiglia.
Il ritorno è stato ripetutamente cercato e alla fine è sembrato che potesse finalmente realizzarsi.
La riscoperta della realtà, però, in questo caso la natìa Cosenza è sempre molto diversa da quella percepita con la lente della memoria.
La conclusione dell’Autore è che, anche nel suo caso, il ritorno da difficile è diventato impossibile e questa conclusione si motiva con il racconto della città di come era e di come oggi è diventata.
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2018
ISBN9788868226800
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    Anteprima del libro

    Solo Andata - Franco Pellegrini

    Paola

    Prefazione

    Ai lettori, pochi o molti non so prevederlo, che immagino come me legati a Cosenza per nascita, per vincoli di affetto, per nostalgia o anche per esiti di sofferenze e incomprensioni, debbo fornire qualche chiarimento e anticipare qualche semplice considerazione.

    Il titolo richiama il viaggio in treno che mi portò da Cosenza a Roma, ancora bambino, per scelta dei miei genitori, che avevano scelto di andare a vivere nella grande città.

    Non un evento eccezionale né frutto di una scelta alla quale si fosse stati obbligati. Per me bambino un viaggio senza consapevolezza di ciò che lasciavo e perdevo e quindi da questo punto di vista, a quel tempo immune da sofferenza o rimpianti.

    Questi sentimenti si sarebbero affacciati più tardi, facendosi progressivamente negli anni più robusti, al punto da procurarmi a mano a mano che gli anni scorrevano con gli studi prima, e con il lavoro dopo, la consapevolezza della perdita del vecchio piuttosto che quella dell’acquisto del nuovo che Roma era in grado di offrire.

    Nel libro mi capita di citare spesso un antropologo calabrese Vito Teti e il suo ultimo saggio per descrivere la molteplicità e la complessità dei sentimenti che accompagnano l’emigrante. Ed io che mi sono sempre considerato tale, forse senza neppure esserlo veramente per la modestia della distanza e la crescente facilità delle relazioni con la mia città natia, mi riconosco in alcuni di quei sentimenti, in particolare, la nostalgia, alla quale farò più volte riferimento nelle pagine che seguono.

    «Il sentimento nostalgico», scrive Teti, «fonda la memoria delle persone in viaggio».

    Nel confronto con altri cosentini che non rinunciavano ad esibire la forza e la persistenza nel tempo di questa nostalgia, in qualche caso diventata rimpianto, per un cambio di luogo e di appartenenza, mai veramente condiviso, mi sono reso conto che non ero il solo a restare fedele a Cosenza, a celebrarne ad ogni occasione le virtù e le qualità naturalmente mitizzate dalla lontananza, a pensare come possibile e auspicabile, che dopo l’andata, potesse venire il tempo del ritorno.

    Come scrivo nel libro, il ritorno non è sempre e solo un banale cambio di indirizzo o di residenza, che pure può essere irto di difficoltà per ragioni di lavoro o di vincoli familiari.

    La soluzione non è una scelta logistica o fisica giacché la vera difficoltà risiede nel recupero della familiarità nel contatto sociale, nell’illusione (ma sarebbe meglio dire la percezione) che la tua comunità di origine riesca a favorire quel viaggio di ritorno.

    Intendo dire che è essenziale volerlo quel ritorno ma perché poi possa effettivamente realizzarsi occorrono condizioni di apertura, empatia, direi anche una sorta di consenso da parte della comunità che in qualche modo ti deve accogliere e favorire. Un po’ ipocritamente si dice comunità ma spesso capita che il segno identificativo di questa comunità sia affidato a quelle componenti che per formazione, cultura, potere e ruolo, vero o presunto, svolto nella città decidono se il segnale che introduce al ritorno è di apertura o al contrario di chiusura.

    È pur vero che anche il modo con il quale si atteggia chi si candida al ritorno non è un dato irrilevante. La lontananza può aver generato anche inconsapevolmente estraneità, o un eccesso di arroganza o di aspettative.

    In un caso o nell’altro il ritorno cioè la ricomposizione in una nuova trama di relazioni, sentimenti e condivisioni non riesce.

    Questo libro ha molti limiti, compreso il vincolo di discrezione e di prudenza dei fatti che nella sfera più personale e privata possono aver contributo ad accentuare quei sentimenti, nostalgia e rimpianto, dei quali ho detto, nonché ad alimentare oltre misura il pensiero e il desiderio del ritorno.

    Tuttavia, pur con questi limiti, ho cercato nel racconto del libro di riferire stagioni e passaggi della mia vita, una sorta di obbligata sintesi autobiografica, non per gusto di esibizione (mancano le ragioni minime per farlo, per un deficit di spettacolarità) ma per avere chiaro il percorso nella realtà che ha determinato l’andata e costruito l’aspettativa del ritorno.

    Franco Pellegrini

    SI PARTE

    SETTEMBRE 1953

    Il treno a vapore è composto da tre sole carrozze, due di seconda classe ed una di prima.

    La terza classe – quella di solito più frequentata a quel tempo in un’Italia ancora ben lontana dagli agi e dal benessere diffuso dal cosiddetto miracolo economico – è bandita da quel treno che sosta al primo binario della stazione di piazza Matteotti in attesa dei viaggiatori che debbono andare a Roma.

    Anzi a Ruma come le persone più semplici chiamavano la Capitale, meta per loro solo immaginabile e quasi irraggiungibile.

    Quel treno offre ai viaggiatori in prima classe, pochissimi quasi meno della dita di una mano, ed in seconda classe il privilegio di non dover cambiare a Paola.

    Lì la locomotiva a vapore si sarebbe sganciata dalle carrozze per consegnarla nel cuore della notte ad un espresso a trazione elettrica proveniente dalla Sicilia. Tra quei viaggiatori, quella sera di settembre c’ero anche io, un bambino di 7 anni, con i miei genitori e mia sorella più grande di me di 8 anni.

    Molte altre volte mio padre mi aveva portato alla Stazione per assistere alla partenza di quel treno, spiegandomi che avrebbe fatto un viaggio lunghissimo – in effetti il viaggio inclusa la sosta di quasi due ore a Paola durava oltre 14 ore – per arrivare nella città più importante italiana: Roma.

    Oggetto del desiderio di chi voleva vedere da vicino le sue bellezze e soprattutto il Papa, e di chi invece sognava di stabilirvisi diventandone cittadino lasciando per sempre la sua piccola città di provincia.

    Mio padre era tra questi ultimi e dopo essersi per anni lamentato del clima, a suo dire insostenibile che era obbligato a subire lavorando alla Banca Nazionale del lavoro di piazza Valdesi, era riuscito alla fine ad esaudire il suo desiderio.

    Ecco, questo forse è il punto nodale: il desiderio era suo non mio.

    Quella era l’epoca in cui i genitori non si chiedevano se le proprie scelte fossero le scelte ideali anche per la propria progenie.

    Erano i tempi in cui il capofamiglia decideva per quello che a lui sembrava il bene del suo nucleo familiare.

    Senza immaginare lontanamente quale ricaduta le sue decisioni potessero avere sui propri figli.

    Suppongo che per mio padre quel trasferimento avesse assunto una valenza positiva per se stesso e per la sua famiglia.

    Una positività tale da impedirgli di pensare anche lontanamente alla frattura che invece produsse in me.

    Voglio prendere in prestito le parole del sociologo Abdelmalek Sayad, studioso della migrazione, che così descrive e riassume questa frattura: una doppia assenza, l’assenza conclamata del paese d’origine e l’assenza del paese di approdo, in cui chi arriva si ritrova smarrito e senza un suo spazio sociale delineato.

    L’antropologo Francesco Pompeo, che ha ripreso il concetto di Sayad, ne definisce ancora meglio i contorni parlando di esperienza del fuori-luogo.

    E, magari potrò apparire esagerato nel volermi vedere come un emigrato estirpato dalla sua terra coercitivamente, anche perché l’età non mi consentiva alcuna ribellione, ma ritengo che il concetto sia del tutto calzante alla vita.

    E se grazie al caso, o al destino, la mia cosentinità ha prodotto incroci da cui sono poi scaturite esperienze e conoscenze, quella doppia assenza io continuo ancora oggi a sentirla.

    Ma mio padre, peraltro in accordo con mia madre, non poteva sapere tutto questo per cui proseguì nel realizzare il suo proposito.

    A Roma era potuto andare anche prima di quanto previsto, avendo ottenuto il trasferimento con un anticipo di un anno.

    Trasferimento che invece era stato negato a mia madre, insegnante elementare presso la scuola di piazza Cappello.

    Ma finalmente, in quella serata settembrina, tutta la famiglia si preparava a ricongiungersi salendo, di certo un po’ stordita dalla novità, sul diretto per Roma.

    In quel momento avevamo poco spazio per il rimpianto di dover lasciare la città dove eravamo nati e avevamo vissuto bene, vicino alla nonna paterna, ai parenti e ai molti amici che frequentavano abitualmente la nostra casa di via Piave.

    Eppure Cosenza, la Cosenza di quegli anni, piccola, con i segni della guerra ancora visibili, accogliente e quasi protettiva, avrebbe meritato nelle ore della partenza

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