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L'ultima battaglia
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E-book409 pagine12 ore

L'ultima battaglia

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Info su questo ebook

«Sorrentino unisce sapientemente gli ingredienti tipici del thriller al sapore di antiche e misteriose civiltà.»
Il Mattino

Un grande romanzo storico
La saga del principe guerriero

1180 a.C. Hhelenoi, indovino e sovrano di Bouthroton, è addolorato dal lutto. Nel palazzo aleggia ancora il fumo della pira della sua Andromache e ogni notte, in sogno, il fantasma della moglie lo esorta a partire: deve recarsi in Oriente, attraversare le acque pericolose del Grande Ondoso e seppellire le sue ceneri nella piana di Wilusa. Un tempo Hhelenoi era principe di quella città, capitale di un regno fiorente. Poi arrivarono gli invasori Ahhiyawa e il suo popolo fu annientato dopo anni di assedio. I pochi superstiti furono ridotti in schiavitù, incatenati e condotti nelle rocche dei vincitori. Tuttavia Hhelenoi sa che a decretare la fine di Wilusa è stato un terribile inganno frutto di un tradimento, e dopo quindici anni quel pensiero lo affligge ancora, insieme alla preoccupazione per il destino di suo figlio Kiestrenu, sul cui capo pendono delle profezie funeste. Ma l’azione è un dovere sacro per il principe guerriero, che si ritroverà insieme ai suoi compagni ad affrontare un’avventura ricca di insidie e di incontri imprevedibili… 

Una saga indimenticabile
Un’avventura senza confini
La grande epopea del principe guerriero
Fabio Sorrentino
È nato nel 1983 e vive a San Giorgio a Cremano. È un ingegnere civile. Ha scritto i romanzi storici Ante Actium. Il destino di un guerriero e Sangue imperiale, tradotti in Spagna. La Newton Compton ha pubblicato Il segreto dell’Anticristo, Il tempio maledetto e L'ultima battaglia.
LinguaItaliano
Data di uscita15 feb 2017
ISBN9788822705433
L'ultima battaglia

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    Anteprima del libro

    L'ultima battaglia - Fabio Sorrentino

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Avviso ai lettori

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Epilogo

    Nota dell'autore

    Misure di lunghezza e loro approssimazioni metriche

    Dizionario dei termini ricorrenti

    en

    1502

    Prima edizione ebook: aprile 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0543-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Fabio Sorrentino

    L'ultima battaglia

    La saga del principe guerriero

    omino
    Newton Compton editori

    Ai miei genitori,

    con tutto l’amore che ho.

    Close the door, put out the lightY’ know they won’t be home tonight.The snow falls hard and don’t you knowThe winds of Thor are blowin’ cold.They’re wearin’ steel that’s bright and true,They carry news that must get throughThey choose the path where no-one goes.They hold no quarter,They hold no quarter.

    (Led Zeppelin, No Quarter, Houses of the Holy, 1973)

    cartina

    Il viaggio di Hhelenoi e i maggiori regni alle soglie del Medioevo Ellenico.

    avviso ai lettori

    Questo romanzo è, nelle intenzioni dell’autore, il primo volume di una trilogia e pertanto presenta un finale aperto. La vicenda narrata non si conclude alla fine di quest’opera: gran parte dei personaggi in essa presenti saranno ripresi nei libri successivi insieme alle loro vicende, ragion per cui, laddove alcuni passaggi possano suscitarvi dubbi e interrogativi al termine della lettura, confidate nel seguito dell’intera storia e concedete a chi scrive la possibilità di condurvi fino all’epilogo di questo avventuroso cammino.

    Capitolo 1

    Epiro, colonia di Bouthroton. 1180 a.C.

    Il fulmine squarciò le tenebre oltre le spesse tende del loggiato e il suo fragore spaventoso mi ridestò dall’incubo che mi accompagnava ormai ogni notte. Madido e ansante, spalancai gli occhi nel debole barlume della lucerna e d’istinto mi voltai alla mia destra, lungo il lato del talamo occupato dalla mia sposa. Con le dita tremanti sfiorai il suo posto freddo e vuoto, quindi socchiusi le palpebre e cercai d’immaginarla come mi era apparsa solo pochi istanti prima, nell’angoscia di quel sonno tormentato.

    Andromache, principessa della verde foresta alle pendici del Placo. Vanto di Wilusa colma d’oro ed eletta della stirpe di Alaksandu. Nelle uggiose stanze della rocca avvertivo ancora l’odore di fumo della sua pira funeraria, bruciata per una notte intera appena tre lune prima, e il suono a un tempo armonioso e nostalgico della sua voce sembrava accompagnarmi fra i corridoi e le terrazze del palazzo reale, lungo le torri della cittadella e fra i campi di grano giallo oltre le porte di Bouthroton.

    È accanto a lui che devo riposare.

    Io, la più sciagurata fra le donne del regno, erede di un trono lordo di sventure e destinato a svanire nella pena del fuoco.

    Un tempo era stata semplicemente una cognata gentile. La più devota e morigerata fra le mogli dei principi wilusiani.

    L’unica che mi aveva pregato di rientrare fra le imponenti mura della città quando, sdegnato e col cuore gonfio di rancore, avevo oltrepassato le porte affacciate sul Karamenderos, scaraventando nelle acque maledette del fiume la spada dall’elsa gemmata e l’elmo piumato di rosso. Il simbolo del mio casato, la vasta dinastia di Prijamadu.

    Una donna capace di piangere davanti al corpo esanime del terrificante Achireu, l’invincibile sterminatore che l’aveva strappata all’affetto del padre Eetion e dei fratelli, tutti vigorosi e nel fiore degli anni, ma, soprattutto, il semidio dal cuore di pietra che aveva stroncato il grande amore della sua vita, il primo difensore di Wilusa. Mio fratello Ecotoro, il maggiore e più valoroso tra i figli del vecchio re Prijamadu.

    Dagli spalti delle torri spettatrici di orrore, Andromache e la famiglia reale avevano assistito con angoscia allo spaventoso scontro tra i due campioni indomiti, i migliori guerrieri di entrambi gli schieramenti, simboli viventi di due culture diverse giunte ormai alla resa dei conti, e la principessa aveva innalzato grida furibonde e straziate quando il biondo condottiero Ahhiyawa aveva affondato il bronzo rilucente della sua spada nel petto dell’eroe wilusiano.

    Achireu non si era limitato a falciargli la vita ma aveva fatto scempio del suo cadavere davanti all’intera confederazione Arzawa, legando il corpo del nemico al retro del proprio carro per poi lanciare i suoi enormi cavalli al galoppo intorno alle mura di Wilusa. Al terzo giro, con le orecchie invase dalle esultanze dei soldati Ahhiyawa e dalle grida abominevoli del loro implacabile condottiero, Andromache era svenuta con suo figlio ancora neonato stretto fra le braccia.

    Eppure, lacrime amare come il veleno avevano solcato i tratti sublimi del suo volto quando aveva sfiorato la fronte impolverata del soldato nemico, ucciso da una freccia scoccata a tradimento.

    In guerra dovrebbe esserci onore, ricordai di averla sentita mormorare in ginocchio, davanti all’altare di Apaliunas. Quando finirà tutto questo? Quando?

    Tirai via le coperte e mi alzai dal letto avvicinandomi infreddolito e a piedi nudi sulla soglia della terrazza ancora immersa nell’oscurità. Le folgori sferzavano le tenebre minacciose sul breve braccio di mare affacciato a Occidente, illuminando a tratti la costa e le basse colline di Kerkyra, coperte in alcuni punti da una sottile bava di bruma.

    Anche il tempo sembrava voler ammonire la natura delle mie decisioni.

    Un rumore di passi leggeri mi raggiunse alle spalle e allora mi voltai in direzione della porta, osservandola aprirsi a scatti.

    Una chioma scura e scarmigliata s’infilò tra stipite e battente, rivelando il viso di un bambino di appena cinque anni che sgambettava impaurito verso il centro della stanza, stringendo tra le mani un piccolo cavallo intarsiato nel legno. Un sorriso alleggerì la gravità dei miei pensieri. Kiestrenu condivideva le stesse paure di sua madre.

    Il piccolo principe superò con la sua corsa incerta il fianco del mio alto letto e scivolò sui tappeti di pelle di montone che coprivano la fredda roccia del pavimento per avvinghiarsi alla mia coscia, ancora massiccia nonostante il passare degli anni.

    «Via fulmini!», ordinò con una vocina esile. «Via luci cattive! Via!».

    Lo sollevai di peso e lo strinsi al petto, ammirando nei suoi occhi verdi e lucidi la medesima pietà della mia Andromache.

    «È solo una tempesta», gli mormorai gentile sul collo diafano, «non c’è niente da temere. Su, su, piccolo principe. Cosa direbbero i tuoi fratelli se ti vedessero adesso, eh? Devi essere forte. E sempre coraggioso».

    Kiestrenu mi fissò in viso, sfiorandomi la guancia irsuta col muso del suo ninnolo di legno. «Dov’è adesso ama? Voglio andare da lei».

    Gli accarezzai il capo in un gesto di triste rassegnazione e lo sguardo mi scivolò in un angolo della camera, sulla cassa di pietra che ospitava l’urna dorata della mia sposa. «Non si può. Ama è partita per un lungo viaggio, per poter raggiungere i fratelli e il vecchio padre in una pianura lontana, che non è di questa terra. Ma prima o poi la andremo a trovare, te lo prometto».

    «Tu no, abba. Tu domani non devi andare… L’ho visto nel sogno».

    Lo fissai pietoso e maledissi nella mia mente Apaliunas, la divinità che aveva trasmesso al mio unico figlio lo stesso dolorosissimo supplizio con il quale aveva marchiato la mia nascita e ognuno dei miei giorni a venire: l’abominevole dono della preveggenza.

    «Non preoccuparti, Kies adorato».

    Fu l’unica cosa che ebbi in animo di dirgli.

    «No, abba. Tu non devi…».

    «Guarderai le vele rosse delle mie navi correre veloci sulle acque rese brillanti dai raggi del sole», provai a rassicurarlo ancora, «e appena sarò sparito all’orizzonte volgerai gli occhi al cielo e inizierai a contare tutte le rondini che vedrai. Ti prometto che non sarai arrivato ancora a dieci quando mi ritroverai a salutarti con la mano davanti alle porte di Bouthroton. E al mio ritorno ti porterò un bellissimo regalo».

    Mio figlio scosse la testa corrucciato, stringendosi con maggiore forza alle mie braccia. Lo baciai sulla fronte liscia e gli concessi di dormire nel mio letto, tenendogli compagnia fino a quando la stanchezza non calò sui suoi occhi di piccolo principe vincendo infine il timore del distacco, il senso solitario e profondo di una lontananza che aveva già assaporato in passato.

    Poi indossai una tunica verde bordata d’argento, mi gettai sulle spalle un caldo mantello di lana sistemandomi al collo la fibbia d’allaccio e varcai la tenda del loggiato, restando immobile a scrutare assorto l’orizzonte torbido e dai contorni incerti.

    Sapevo bene che non ci sarebbero state rondini nel cielo per almeno altre cinquanta lune.

    Partii dopo tre giorni, quando l’ira del cielo sembrò essersi placata.

    Prima di lasciare la reggia, affidai Kiestrenu alle cure di Tameshis, la sua nutrice, e alla protezione di Agamatu, il mio fedele compagno di battaglie durante l’infinita guerra davanti alle mura di Wilusa.

    A pochi metri dal portale del palazzo, il piccolo principe continuava a singhiozzare e appena mi abbassai per abbracciarlo mi si gettò al collo, bagnandomi con le sue innocenti lacrime di fanciullo.

    «Cosa ti ho fatto, abba?», mi sussurrò disperato all’orecchio. «Perché porti loro tre con te e io invece resto qui da solo?!».

    Con l’animo spezzato dal dolore finsi un sorriso e gli scarruffai le morbide ciocche corvine. «Loro non devono restare», tentai di spiegare, «non possono… Un giorno capirai e mi ringrazierai, Kies adorato. Per adesso, sappi solo che abba tiene a te più della sua stessa vita. Ti penserò in ogni momento del mio breve viaggio, dal primo bagliore dell’alba fino all’estremo raggio morente nel tramonto. Fai il bravo, mi raccomando, e non far disperare Tameshis e Agamatu».

    Lo strinsi in un ultimo saluto, poi mi voltai e feci segno ai servi di aprire i massicci battenti della porta. Seguito dai tre figli dell’odioso Neoptolemos e dai venti uomini della guardia reale, percorsi a cavallo la lunga strada che si snodava in discesa oltre i campi coltivati intorno alla fortezza, fino a lambire l’esile striscia di case e magazzini a ridosso della zona del porto. Così come avevo predisposto, scorsi le quindici navi della flotta già attraccate al molo di levante, stivate con acqua e viveri, e i soldati in armi e pronti per salpare.

    Diedi ordine al mio navarca di indicare la rotta ai nocchieri delle altre imbarcazioni e salii sull’Alkýoni̱, l’ammiraglia, facendo sistemare Molosso, Pielo e Pergamo nello spazio rialzato di prua. Osservai le nuvole d’argento sfilacciarsi in alto sopra le nostre teste nella luce pallida del primo mattino e notai che il vento rinforzava parecchio verso Occidente. Non era stagione per avventurarsi in mare ma avevo deciso di partire comunque, confidando nella clemenza del dio Enlil e nella rapidità della traversata. Sperai di avvistare i fianchi pietrosi d’Ithakai prima che il carro dorato di Apaliunas trascinasse via con sé gli ultimi brandelli del giorno.

    E così accadde.

    Ben presto intravedemmo il profilo basso e allungato di Lefkada e oltre la parete calcarea del suo braccio roccioso più lontano dalla costa, screziato di riverberi lattiginosi fra il cobalto scurito dei flutti, distinsi il fronte montuoso dell’isola governata dall’astuto Odyessua.

    Ordinai di imbrogliare le vele e di procedere a forza di remi poiché la corrente e il vento erano ostinati in quello stretto specchio di mare e l’intera flotta non sarebbe mai riuscita a passare unita continuando a tenere la linea obliqua di navigazione che avevo predisposto alla partenza.

    Cabotammo il lato interno del litorale e mentre infilavamo le prue nel porto grande mi accorsi che un folto drappello di guerrieri a cavallo scendeva dall’alto della cittadella, sparendo a tratti fra le fitte chiome dei boschi di abeti e di pino nero digradanti verso le cale frastagliate.

    Superammo alcune onerarie alla fonda, raggiungemmo uno dei due approdi e attraccammo fra le barche dei pescatori e gli scafi tirati in secca dagli equipaggi dei mercanti. Lasciai su ogni nave dieci soldati e feci issare sugli alberi i vessilli con lo stemma del re d’Epiro, quindi imbracciai la sacca in pelle di toro con l’urna funeraria di Andromache e mi avviai oltre la spiaggia, seguito dai tre principi epiroti e dal resto dei miei compagni.

    Avevamo appena raggiunto la strada quando uno scalpiccio di zoccoli al galoppo risuonò alto di fronte a noi, trascinandosi dietro una nube di polvere e il tintinnare di diversi cavalieri rivestiti di bronzo.

    Il capo del drappello smontò con un salto dalla sua fiera cavalcatura e sguainò la lama che gli pendeva dal fianco, imitato all’istante dal resto dei guerrieri. «Fermi!», disse stentoreo, muovendo un passo in avanti. «Chiunque voi siate, gettate immediatamente le vostre spade in terra. A nessuno è consentito calpestare il suolo di Ithakai in armi».

    Lo fissai in silenzio e per qualche attimo la mia mente viaggiò lontano, associando le corazze di quei soldati a quelle di altri loro compatrioti che quasi vent’anni addietro avevano sfidato il mare e l’ignoto per portare morte e distruzione lungo le rive sabbiose degli Arzawa.

    Era lui, non avevo dubbi, eppure non riuscivo ancora a credere a ciò che i miei occhi mi mostravano.

    Possibile che non fosse cambiato in nulla dopo tutto quel tempo?

    Lui, il padre degli inganni, il favorito della divina Athianau, doveva aver stretto un patto con qualche Signore del cielo.

    Indossava la stessa armatura che aveva impaurito le schiere dei nostri alleati nella piana a ridosso delle Porte Skaiai e l’inflessione gagliarda della sua voce era rimasta immutata, quasi ignara dello scorrere degli anni. Gli occhi verdi, guizzanti d’ingegno, mostravano la medesima feroce determinazione dei giorni dello sbarco alla foce del Karamenderos e il suo corpo non aveva perso una stilla dell’antico vigore, così come le braccia massicce che tanto danno avevano causato ai Wilusiani.

    «Come hai fatto a dimenticare il mio volto, prode Odyessua?», esordii meravigliato. «Davvero non riconosci l’uomo che ha condannato la sua anima e che ha venduto la sua patria, consegnandola allo scempio dei tuoi alleati Ahhiyawa? L’uomo che cercasti sui pendii del monte Idaku e che incontrasti la prima volta nel sacro cortile del tempio di Apaliunas timbreo? Sono Hhelenoi, figlio di Prijamadu e fratello di Ecotoro, ora reggente delle terre d’Epiro e sovrano di Bouthroton».

    A quelle parole, il guerriero rinfoderò la spada, liberandosi dell’elmo piumato, e mi venne incontro con aria meno ostile. «Tu mi confondi con mio padre, straniero. Il mio nome è Telemachos, principe di quest’isola, e sono il comandante delle truppe del regno. La notizia dell’assassinio del potente Neoptolemos nel santuario di Pythô è giunta fin qui almeno cinque anni fa ma da allora non abbiamo mai ricevuto la visita ufficiale del nuovo monarca e col tempo abbiamo pensato si trattasse di una menzogna. L’Epiro è da sempre un alleato valoroso delle nostre città e se sei davvero il reggente di quelle terre e ti preme incontrare il re Odyessua, ti scorterò io stesso da lui. La legge però vige per tutti senza distinzione, anche per gli amici del popolo d’Ithakai. Ti prego quindi di raccogliere le vostre armi e di consegnarle ai miei soldati. Dopo potremo salire insieme al palazzo reale».

    Annuii e, stringendogli l’avambraccio, gli presentai i tre figli dell’uomo che aveva menzionato. Quindi affidai per primo la spada ai cavalieri del drappello e ordinai di fare altrettanto ai miei soldati.

    «La strada fino alla reggia è lunga e tutta in salita», spiegò Telemachos, «quando vogliono, i tre fanciulli possono montare su un paio dei nostri cavalli».

    Stavo per rispondere ma Molosso osò rubarmi la parola, sfidando il principe di Ithakai con lo sguardo.

    «I nipoti del leggendario Achireu sono preparati a ben altre fatiche».

    Era il maggiore dei figli di Neoptolemos e non aveva ancora compiuto dieci anni.

    Il palazzo sorgeva sull’estremità settentrionale d’Ithakai, eretto su una delle due terrazze naturali che livellavano i fianchi del promontorio più vicino all’isola di Kephalos, e dall’ultimo dei suoi tre piani si godeva di una vista impressionante che abbracciava ogni possedimento del re e che arrivava ad allungarsi all’infinito sull’orizzonte marino.

    Già a metà strada avevo rimandato indietro gran parte dei miei uomini dicendogli di attendermi sulle navi, nondimeno, durante l’erto cammino che portava alla reggia di Odyessua, tutti gli isolani che avevamo incrociato lungo la via ci avevano scrutato in un misto di meraviglia e timore.

    In effetti, ai loro occhi non eravamo altro che uno sconosciuto gruppo di oltre cinquanta uomini in armatura, scortato dal principe e dai suoi cavalieri ai piedi della rocca. Forse avevano pensato a un battaglione di mercenari assoldati dall’entroterra alla vigilia di una nuova campagna militare contro il flagello di quegli anni oscuri: gli Shikala e i Peleset, predatori del mare. O magari la semplice vista di stranieri in armi riapriva nelle loro menti le sofferenze e lo strazio dei lutti patiti dalle loro famiglie durante il conflitto più lungo e terrificante di cui avessero memoria.

    Padri mai rassegnatisi all’idea dei figli caduti in terre lontane e senza sepoltura. Figli trasformati in orfani di padre ancor prima di venire alla luce.

    Varcato l’enorme atrio porticato del palazzo, Telemachos richiamò le ancelle e i servi affinché si prendessero cura dei nuovi arrivati insieme agli elementi del suo drappello, quindi ordinò a un paio di graziose giovinette di accompagnare i tre principi epiroti in alcune delle sale destinate agli ospiti per offrirgli delle eleganti vesti ricamate e infine mi chiese di seguirlo nella sala del trono, all’ultimo piano dell’edificio.

    Attraversammo un lungo corridoio affrescato con scene marine e nei tratti di parete non decorati notai l’ombra lasciata dagli scudi e dalle lame che un tempo dovevano aver fatto bella mostra di sé lungo i lati dell’andito. C’erano anche parecchie macchie, aloni di un rosso scuro, simili a quelle impresse dal sangue rappreso quando viene lavato alla meglio ma senza unguenti, e d’improvviso un’immagine nefasta e atroce mi calò davanti agli occhi, facendo vacillare per qualche cubito il mio passo deciso: uomini a decine, avvolti in vesti ricche e orlate d’oro, che giacevano trafitti mortalmente, altri scannati come agnelli e appoggiati senza più respiro lungo i muri di quel camminamento coperto.

    Scacciai la visione con un lento battito di ciglia, pensando si trattasse di pura suggestione dettata dagli infausti presagi che avevo appreso nei giorni precedenti.

    Erano troppe le chiazze scure che avevo visto e nessun re avrebbe mai permesso una tale, abominevole ecatombe fra i bracieri sacri della sua residenza.

    Oltre il corridoio, risalimmo un’imponente scala affiancata su ambo i lati da una coppia di poderose colonne e, terminata l’ultima rampa, Telemachos m’introdusse infine nella sala del trono superando le camere di rappresentanza e gli alloggi privati della famiglia reale.

    Nell’austerità di quel locale spazioso, un uomo dalla folta chioma grigia in chitoniskos rosso e mantello bianco era in piedi di spalle e parlottava con quattro guerrieri protetti da spessi pettorali in cuoio lucido.

    La figura si voltò subito alle parole di suo figlio e stentai a riconoscere in quel viso le sembianze del famoso Odyessua, eversore di città.

    Più che la guerra, doveva essere stato il ritorno alla sua isola a sfibrarlo senza pietà. Mi fissò a lungo e mi accorsi che ben poca cosa rimaneva nei suoi tratti del primitivo vigore ostentato durante le continue sortite contro i difensori di Wilusa. Era appesantito nel corpo, con la schiena leggermente incurvata in avanti che ne imbolsiva il portamento e col volto nascosto da una folta barba canuta, simile a quella del vecchio re Prijamadu.

    Eppure la profondità del suo sguardo era rimasta inalterata: gli occhi smeraldo erano ancora penetranti e mobilissimi, fucine instancabili di pensieri, e la determinazione che trasmettevano continuava a trapassare le intenzioni e i sentimenti di chiunque avessero trovato di fronte.

    Con un paio di frasi e un gesto si licenziò dai suoi interlocutori, poi si mosse verso di noi e aprì le braccia per salutarmi come si fa con un familiare o con un amico fraterno.

    «Numi dell’Olimpo, tu qui! È passata un’eternità, valoroso principe».

    Abbassò il capo e mi regalò una stretta inaspettata. «Figlio», continuò a dire, dopo avermi liberato dal suo abbraccio, «oggi la dea ha voluto favorirci con una graditissima visita. Organizza subito una grande caccia al cinghiale in onore del nobile Hhelenoi e da’ disposizioni affinché stasera venga allestito un ricco banchetto per festeggiare la sua presenza sull’isola».

    Telemachos annuì deferente e si allontanò dalla sala, lasciandomi solo con suo padre e col mio visibile imbarazzo.

    «Devi scusarmi, grande Odyessua, ma la mia partenza da Bouthroton è stata frettolosa e improvvisa», riuscii a sussurrare in tono dolente, «e non ho portato con me doni da offrirti».

    Gli strappai un sorriso sincero e un moto di curiosità. «Non ci pensare. Sono felice di rivederti. Ma dimmi, cosa tieni in quella sacca?».

    Deglutii appena e strinsi d’istinto la tracolla della mia bisaccia.

    «Il più grande dei miei dolori, wanax, e il motivo stesso del mio viaggio. Le ceneri della mia adorata sposa, Andromache».

    Vidi la tristezza increspare i suoi lineamenti induriti dal tempo ed ebbi l’impressione che d’improvviso un oceano di ricordi stesse dilagando negli alvei nascosti della sua mente. «Quando è accaduto?»

    «Sette lune orsono», l’informai, «dopo una breve ma atroce malattia».

    Odyessua mi poggiò una mano sulla spalla. «Era la più virtuosa fra le donne del vostro regno, un esempio di dignità e di forza d’animo. Provo ancora vergogna per l’infinito dolore che le abbiamo causato e spero che almeno, negli ultimi anni, tu sia riuscito a regalarle la serenità che meritava».

    Annuii in silenzio.

    Il re mi fece strada in una sala vicina e insieme sedemmo a un alto tavolo di quercia secolare circondato da cinque sedili. Poi chiamò uno dei suoi servitori e fece portare del pane caldo infarcito di olive, del formaggio e dell’ottimo vino di Kupirijo.

    Avevo fame e apprezzai quel cibo genuino mentre Odyessua ritornava coi ricordi ai giorni della partenza dai lidi mortificati di Wilusa.

    Mi raccontò una lunga storia d’avventura e meraviglie, una vicenda che aveva il sapore delle mitiche epopee degli eroi cui ero stato abituato da bambino dalla voce gentile della mia nutrice.

    Aveva affrontato un viaggio per mare durato anni, sempre in balia delle tempeste, preda dell’ira implacabile del dio Enlil. Un naufragio dopo l’altro, il valoroso re di Ithakai aveva visto andare a picco tutte le navi della sua flotta, era sbarcato incredibilmente su terre sconosciute e misteriose, aveva combattuto mostri e giganti e incontrato ninfe meravigliose che avevano cercato di estirpargli il desiderio ardente del ritorno con l’illusione di una vita eterna, immersa nell’oblio perpetuo, ristoratore di affanni.

    «Degli uomini che salparono con me dalle coste della mia isola, dei miei fedeli compagni di battaglia sotto le mura di Wilusa, nessuno ha fatto ritorno a casa», mi rivelò con la voce incrinata dall’oppressione della memoria.

    Seppur a fatica, credei a quella storia perché riflessa nei suoi occhi gonfi e lucidi.

    «Gli dèi hanno maledetto i superbi duci Ahhiyawa», continuò dopo un profondo sospiro, «e hanno destinato le nostre popolazioni alla rovina, mio principe. Io sono salvo per merito della celeste Athena e, come me, sopravvivono solo il saggio e canuto Nestor di Pylos e il biondo Menelaos di Lakedaimon con la sposa Helene. Tutti gli altri sono ormai ombre degli Inferi e del mio amico Diomedes ho perso ogni notizia da tempo».

    Continuammo a bere e a parlare fin quando suo figlio Telemachos non venne a chiamarci, avvisando che tutto era pronto per l’inizio della battuta di caccia. Odyessua indossò un pettorale leggero e imbracciò un grande arco ricurvo, gettandosi sulle spalle una faretra colma di frecce.

    Poco dopo, seguiti da alcuni dei miei uomini e da un gruppo di nobili locali, ci inoltrammo nel fitto bosco che ammantava di verde parte del pendio esteso alle spalle del palazzo reale.

    Il banchetto fu lungo e ricco di portate.

    Ci sedemmo alle mense poco prima dell’imbrunire e a tarda sera eravamo ancora sulle nostre scranne ad ascoltare le gradevoli melodie dei musici e il canto ispirato di un aedo vegliardo di nome Phaemios.

    Il calore del vino riscaldava i corpi dal freddo notturno calato d’un tratto sui promontori immersi nell’oscurità e parve mitigare l’afflizione che serbavo silenziosamente nell’animo.

    Odyessua occupava il posto al centro della sala ed era affiancato dall’altera Pinelopia, la sua affascinante consorte. Mi bastò osservare le loro mani che si cercavano furtive durante la cena per intrecciarsi pochi istanti e l’incrociarsi ripetuto dei loro sguardi per comprendere come avesse fatto il re d’Ithakai a non abbandonare mai la speranza del ritorno nel suo infinito pellegrinaggio attraverso i flutti.

    Seppur non più giovane, la cura che dedicava al suo corpo armonioso, i riflessi ambrati dei suoi capelli lisci e l’eleganza del suo portamento rendevano Pinelopia una donna ancora capace di sedurre e di plasmare i desideri degli uomini.

    Pielo, il più piccolo dei figli di Neoptolemos, dormiva accoccolato nel suo posto incurante delle voci, della musica e delle liriche che gli rimbalzavano intorno mentre Pergamo e Molosso, sistemati accanto al prestante Telemachos, si scambiavano di tanto in tanto risolini e brevi frasi all’orecchio. Conoscendoli, pensai stessero prendendosi gioco di qualcuno degli invitati o stessero mal commentando la striminzita opulenza mostrata dagli esponenti della nobiltà isolana che il re aveva riunito alle sue mense.

    Da sempre semplice patria di pastori e di agricoltori, Ithakai non aveva mai sviluppato la fiorente arte del commercio.

    Al termine del banchetto, Odyessua salutò ognuno degli ospiti locali offrendogli doni e dispose che i tre principi epiroti fossero alloggiati nelle stanze reali e che il gruppo dei miei soldati fosse sistemato alla meglio sotto i portici del lungo cortile del piano terra con stuoie, giacigli di pagliericcio, coperte di lana, bracieri e fiaccole. Dopo poco, anche Pinelopia si allontanò dal locale concedendomi un sorriso e fu accompagnata dal figlio Telemachos nelle sue stanze.

    Rimasti soli, il re mi chiese di seguirlo e ci spostammo in un nuovo ambiente attiguo alla sala del trono e affacciato su una piccola terrazza che dava sull’ingresso del palazzo. Le pareti erano affrescate con ritratti di carri militari e di uomini rivestiti di armature da parata, immersi in un paesaggio fantastico e dal gusto vagamente orientale. Sul muro di fondo, leggermente defilata sulla destra a qualche cubito di distanza da un massiccio bancone di porfido, una panoplia luccicante al chiarore delle torce era installata su un piedistallo di basalto grigio.

    «Siamo in quello che mio padre chiamava l’adunanza», mi spiegò, sfilando uno dei lumi dagli anelli infissi alle pareti e avvicinandosi al trofeo d’armi, «il luogo dove il wanax Laertis teneva i suoi consessi di governo e i consigli di guerra. Ecco, adesso dovresti riconoscerla…».

    Avvicinò le fiamme al metallo scintillante in punti d’oro e d’argento e sgranai gli occhi al ricordo di ciò che finalmente riuscivo a distinguere.

    Erano le armi di Achireu.

    Restai ad ammirare rapito l’enorme scudo, installato accanto al fianco sinistro della spessa corazza sbalzata con placche d’oro, e con lo sguardo seguii il triplice bordo rialzato che l’ornava, lucido e splendente nei riflessi vermigli del fuoco.

    Ritornai di colpo al tempo della battaglia e per un istante ebbi la sensazione di riascoltare i gemiti soffocati dei giovani guerrieri nostri alleati che si accasciavano feriti ed esanimi a frotte a ogni incursione del terribile condottiero Ahhiyawa.

    Vite recise di netto nel fiore degli anni, mietute come spighe mature in un campo di grano inondato di rosso e di morte.

    Rividi il carro, i cavalli di Achireu eccitati e schiumanti di fatica, e il corpo senza vita di mio fratello Ecotoro che avviliva trascinato fra le pietre e la polvere intorno alle mura della città.

    Immobile e affascinante nel suo sfavillare notturno, quella panoplia rappresentava per gli Arzawa uno spaventoso simulacro di distruzione. Non esisteva lama che potesse infrangere il metallo con cui era stata forgiata. Era bronzo maledetto, contaminato di sangue e di sventura.

    Ripensai alla mia sposa, Andromache dalle lunghe ciocche corvine, e una frase spiccò dalle mie labbra ancora odorose di vino.

    «Generatrice di pianti…».

    Odyessua mi appoggiò un braccio sulla spalla e interruppe il flusso dei miei opprimenti ricordi conducendomi verso la soglia della terrazza, sul lato opposto del locale. «Quel tempo è ormai lontano», disse in un tono di voce a metà fra il rassegnato e il sofferente, «e tutti i vincitori hanno versato lacrime per le follie commesse in quell’ultima, interminabile notte di fuoco dentro la cittadella di Wilusa».

    Raggiungemmo la balaustra e restammo a fissare gli uliveti dissimulati dal buio, le flebili fiamme che segnalavano gli usci delle case sdraiate lungo la costa e i crinali e i fianchi di Kephalos, chiazzati di ombre più scure per la folta vegetazione.

    «Mi battei affinché fossi assegnato a me insieme ad Andromache ma non ci fu nulla da fare», mi rivelò il re, spezzando il silenzio increspato dal solo soffio del vento settentrionale. «Neoptolemos si oppose. Disse che la moglie di Ecotoro spettava a lui di diritto. Non ho mai visto tanta forza e stupidità albergare in un unico uomo. Rideva l’indegno figlio di Achireu, tracannando le sue coppe di vino schietto, e ne intuii subito i pensieri: voleva continuare a infierire sul ricordo di tuo fratello, possedendone la sposa fedele e assoggettandola a ogni suo desiderio. Il wanax Agamémnon non obiettò nulla ma dichiarò che, se volevo, avrei potuto condurti con me qui sull’isola. A quel punto preferii saperti accanto a lei, come sostegno e ultimo baluardo a difesa della sua virtù».

    Sospirò a fondo e la sua destra mi strinse il polso, forse per scacciare lo sconforto che gli rimontava dentro. «Non sai quanto mi sarebbe servito ricevere il tuo consiglio ispirato durante gli anni tragici del mio errabondo pellegrinaggio».

    Incrociai il suo sguardo di smeraldo e alzai il capo al cielo, scrutando le poche stelle che brillavano nella distesa scura e allungata sopra il dorso di Ithakai. «È stata una guerra senza onore», replicai a mezza voce, «e con un solo, vero eroe. Ma ho fatto il mio dovere fino al giorno in cui quello sciagurato di Alaksandu cadde trafitto sotto le spesse fronde del caprifico. Spenti per sempre gli occhi dei miei fratelli maggiori, pensai che il re Prijamadu sarebbe rinsavito, affidandomi il comando dell’esercito e il destino dell’incantevole Helene. Avevo già programmato cosa avrei fatto: l’avrei rispedita subito sulla nave di Menelaos, avrei chiesto una tregua per decidere la resa, prendendo tempo per far scappare di notte donne e bambini dalla città in modo da assicurare la sopravvivenza del popolo di Wilusa, e poi ti avrei cercato come facevo in battaglia per mettere fine ai lutti e alle stragi. Mio padre invece credé di poter resistere ponendo nelle mani di Diifuvua la vita del nostro regno».

    «Deifobos…».

    Quel nome, ripetuto da Odyessua alla maniera Ahhiyawa, riesumò nei miei pensieri l’impeto dello sdegno.

    «Già. Tra tutti i miei fratelli, di certo il più sanguinario e bellicoso. In un sogno terrificante scorsi la sua fine orrenda e quella del mio paese. E anche la mia sventurata gemella, Kashimmandra, fu atterrita dalla stessa visione e mi esortò a parlargli. All’alba del giorno successivo lo incontrai in uno dei cortili della reggia e gli vaticinai il triste destino che lo attendeva. Con l’espressione ancora offuscata dai bagordi della notte, sguainò la spada e provò addirittura ad affondarmela nel petto ma riuscì solo a ferirmi sul braccio. Presi un grosso orcio di bronzo e glielo fracassai con violenza sul cranio, lasciandolo svenuto all’ombra dei porticati. Da allora giurai a me stesso che avrei dimenticato qualsiasi cosa di Wilusa. Se gli dèi avevano deciso la sua ineluttabile fine, allora io solo mi sarei salvato. Il resto della storia la conosci bene, purtroppo. Adesso però dovrai esaudire una mia preghiera, re di Ithakai…».

    L’uomo dalla mente agile aggrottò le sopracciglia, accentuando le grinze sulla sua fronte abbronzata. «Parla, dunque. Cosa posso fare per te?».

    Gli dissi che sarei dovuto ripartire l’indomani, con il sole già alto, e che avrei fatto rotta verso Oriente per ritornare fra le macerie incendiate di Wilusa a seppellire le ceneri di Andromache accanto a quelle di mio fratello Ecotoro, ai piedi del grande tumulo eretto a imperitura memoria

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