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Mal'aria: Voci, volti, musica e parole dal Grande Brigantaggio
Mal'aria: Voci, volti, musica e parole dal Grande Brigantaggio
Mal'aria: Voci, volti, musica e parole dal Grande Brigantaggio
E-book511 pagine4 ore

Mal'aria: Voci, volti, musica e parole dal Grande Brigantaggio

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Info su questo ebook

Rivolta sociale, movimento politico, insurrezione legittimista, delinquenza comune, guerra civile, conflitto di classe, rivendicazione agraria, questione demaniale, scontro tra gruppi di potere, occasione di rivalsa, reazione vandeana, banditismo… cosa è stato veramente il brigantaggio postunitario? Questo libro tenta di rispondere in un modo nuovo e diverso utilizzando una pluralità di registri ermeneutici e incroci prospettici in una esplorazione multidimensionale del fenomeno. Canzone, teatro, poesia, saggistica invitano il lettore a vivere un’esperienza estetica, emotiva e critica alla ricerca delle molte verità sulla figura del brigante. 
 
 
LinguaItaliano
Data di uscita12 giu 2018
ISBN9788828335610
Mal'aria: Voci, volti, musica e parole dal Grande Brigantaggio

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    Anteprima del libro

    Mal'aria - mennato tedino

    La Storia è piena di storie nascoste

    che aspettano solo di esser trovate.

    Basta saper cercare.

    (G. F. Baveri)

    a vient’ e boria

    Mal’aria

    Voci, volti, musica e parole

    dal Grande Brigantaggio

    a vient’ e boria

    Mal’aria

    Voci, volti, musica e parole dal Grande Brigantaggio

    Terza edizione: 2019

    ©Mennato Pedicini

    ©Giuliano Pedicini

    ©Mennato Tedino

    Il logo di a vient’ e boria è di Giorgio Federico Baveri

    Foto di copertina, cover art e impaginazione: Giorgio Federico Baveri

    Per Mal’aria:

    Il testo della narrazione teatrale è di Mennato Pedicini

    Il testo e la musica delle canzoni sono di Mennato Tedino

    Gli arrangiamenti, l’orchestrazione e i suoni sono di Carlo De Maria

    Per contatti: avienteboria@musician.org

    Proprietà letteraria riservata. La riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo, non è consentita senza la preventiva autorizzazione degli autori.

    Sommario

    Sommario

    Prefazione

    Premessa

    Prima parte

    Di cosa parliamo quando parliamo di brigantaggio?

    Con gli occhi dei vincitori

    Il Sud tra stereotipi e pregiudizi

    La Relazione Massari

    17 marzo 1861

    Povertà, salari e costo della vita

    L’origine del debito pubblico italiano

    L’amministrazione finanziaria piemontese

    La rendita borbonica

    Corso forzoso della moneta

    Conclusioni

    Un’occasione mancata

    Meridione e seconda rivoluzione industriale

    Reali ferriere ed officine di Mongiana

    Real opificio di Pietrarsa

    Lo zolfo siciliano

    Saline

    Le manifatture dei maccheroni

    San Leucio, l’utopia di Ferdinando

    I cantieri navali di Castellammare

    Conclusione

    Seconda Parte

    Mal’aria

    Cunt’ e stracunt’

    Gente dannata

    L’oro dei Borbone!

    Ninco Nanco

    Garibaldi!

    Vendetta

    Ciccio u Feudo

    A vient’ e a boria

    L’amore al tempo dei briganti

    Serenata

    Francesca La Gamba

    Suonn

    Francesco e Michela

    La battaglia di Calatafimi

    La lettera di Cosimo Giordano

    Io, Cosmo Giordani

    Le barbatelle

    Pontelandolfo e Casalduni

    Destino

    Libertà

    Cattiva erba

    La Complessità

    Crocco Carmine, brigante

    Tutti contro tutti

    Festa, farina e forca

    Rosso, bianco, verde

    Filastrocca

    Tre sordi, cummà!

    Emigranti o briganti

    Una storia perfetta

    Una storia imperfetta

    Fenestrelle

    Il tuo tempo

    Gelosia al tempo dei briganti

    Lacrime e sale

    Un nome diverso

    Omnes et singulatim

    Tuort’ e ragione

    Bella come un fiore

    L’ acqua di Rosa

    I m’arrevoto

    N’ata canzone

    Specchio

    Indice dei nomi

    Prefazione

    Nelle stagioni delle smorte leggerezze e della diffusa, interessata induzione al disimpegno civile, acquista un senso forte – persino segnato dalla necessità – il lavoro di ricerca storica, di conoscenza critica, di fruizione «pubblica», cui si dedicano menti e soggettività ben decise a non lasciarsi immiserire nella omologazione desertificante.

    Nessuna parentela con la superbia del saccente o dell’intellettuale che si autocelebra in narcisistica, irraggiungibile lontananza: il nostro riferimento è a chi va dedicando le proprie energie alla ricostruzione rigorosa della memoria, nella consapevolezza della connessione dialettica che le problematiche del passato hanno con il presente storico (e, dunque, con il futuro da costruire!). Il richiamo al «principio speranza», avanzato da componenti non rassegnate alla subalternità deterministica, deve sostanziarsi, appunto, di una lettura della storia, ab-soluta, sciolta da vincoli ideologistici come da convenienze pre-stabilite.

    Sia chiaro: non vive, in questo nostro approccio, un generico appello metodologico o una melensa invocazione di «oggettività» super-partes; il mandato deve investire il «non detto», la verità negata, la storia non edulcorata, in funzione di quella criticità e di quella fondazione di sapere che si costituiscono come progetto (non metafisico) di una «nuova» Storia.

    Avrà un senso preciso ed inequivocabile, allora, la dichiarata ragione «partigiana» che presiede un impegno intellettuale esercitato non per inscriversi nei già nutriti schieramenti contrapposti dei «filopiemontesi» o dei «filoborbonici»,  ma per cercare di capire il mondo del brigante, il mondo, cioè, di quei vinti che non furono – nel loro tempo – gruppuscoli insignificanti ma che – nel tempo successivo – furono considerati quale variabile dipendente, degna, al più, di una iconografia funzionale alla banalizzazione di un problema storico di prima grandezza.

    Il collettivo di Foglianise a vient’ e boria, rinnovando una presenza di impegno culturale che viene da lontano, ci propone – ora – un’opera singolare che dimostra come sia realmente possibile coniugare passione civile e indagine severa, coerenza analitica e slancio creativo, tessitura storiografica e «libera» rappresentazione poetico-musicale. Il testo teatrale Mal’aria, invece che far calare il sipario sugli impressionanti personaggi e sulle vivide storie rappresentate, conduce, anzi obbliga! – con la mediazione di composizioni poetiche non riempitive – alla complessa riflessione sui grumi storiografici ineludibili, con i quali oggi occorre fare i conti.

    Sarebbe davvero omissione peccaminosa, una offesa auto inferta quella di fermarsi alla coinvolgente cantata a più voci che la splendida Mal’aria è: le voci e i volti, la musica e le parole appartengono – certo – a quei brutti ceffi e a quelle sanguinarie donne che investirono il loro destino in un progetto di inaudita (e negata) libertà. Ma quella variegata umanità, troppe volte descritta con colori forti sulle gazzette del potere e fotografata cadavere sui dagherrotipi da esporre e commentare nei ritrovi rassicuranti dei «buoni»… ecco, quella umanità brigante rappresentava – nella realtà concreta, nel suo corpo e nella sua mente – la fame, la miseria antica, la frustrazione rinnovata, l’assenza di orizzonte di vita cui ancorare famiglia, affetti, futuro.

    Insomma, la grande questione della terra da coltivare, del pane da mordere, della lana con cui coprirsi... E non viveva, in quella soggettività abbrutita per nascita, nei suoi accampamenti senza giaciglio, nella stessa esplosione di ferocia apocalittica, il dramma delle mancate (pur possibili!) risposte politiche attese dalla «nuova» Italia? Non era, forse, incisa nelle loro carni scure la storica, immodificabile realtà della ricchezza e del lusso parassitario delle corti (Napoli e Palermo, come poi Torino, Firenze, Roma...)? Ancor più, non rappresentava, quella scelta coincidente col destino materiale, l’unica possibilità di fronte alla mancata distribuzione delle terre, di fronte al miserabile comportamento dell’amato re, di fronte ai reparti armati massacratori che – per molti anni – furono la unica, effettiva presenza del nuovo stato nel Mezzogiorno?

    E come non capire la tragedia di una rivolta senza sbocchi praticabili, senza progetto politico, senza alleanze (se non strumentali e perfino abiette), senza coordinamento e strategia, senza bandiera e senza obiettivi cui tendere?

    Non porsi dinnanzi a tale contestualità, non considerare le pur potenti storie individuali del «brigante» dentro le problematiche strutturali e sovrastrutturali dell’Ottocento e – segnatamente – del processo di unificazione italiana, sarebbe un rimanere sulla superficie del fenomeno e non coglierne la essenza, essa sì portatrice di un messaggio travalicante l’ambito cronologico limitato e impattante sul nostro presente, ovviamente assunto ,quest’ultimo, nella sua complessità, per la quale – ancora una volta! – non risultano utili stereotipi e categorie interpretative inverificate.

    Ma il riconoscimento della complessità ed il rifiuto di dispositivi automaticistici – quando si intenda cercare di capire, seriamente, il brigantaggio – è, propriamente, quel che richiedono, con coerenza e con vigore intellettuale, gli autori del presente lavoro.

    Mennato Pedicini, Mennato Tedino e Giuliano Pedicini non cedono, dunque, alla facile tentazione di suscitare emozioni elementari, fermandosi alla felice ricostruzione poetico-musicale: essi, nei loro saggi impegnativi, fanno emergere le caratteristiche di fondo e le ragioni decisive entro cui il brigantaggio del periodo risorgimentale acquista il suo significato storico autentico.

    Ecco, allora, il perché della originale articolazione del lavoro collettivo, che ci fa respirare la «buona aria» della tensione morale e della bellezza della creazione artistica, quando quest’ultima – rifuggendo dalla imitazione di freddi canoni estetici – si cimenta nella rievocazione di un drammatico, irrisolto, ritornante progetto di liberazione umana. Chi scrive non può tacere di essere rimasto colpito dalla «naturalezza» con cui vengono qui coniugate le coordinate estetiche, le tensioni etiche, il dominio conoscitivo-scientifico: il tutto senza soluzioni di continuità e, soprattutto, in assenza di condizionamento ideologistico e, men che meno, di apparentamento fazioso.

    Dio sa se oggi c’è bisogno urgente di recuperare criticità e sapere, soprattutto in funzione di una identità collettiva e della stessa «ricomposizione» unitaria nazionale nell’orizzonte europeistico e internazionalistico. Per questi grandi obiettivi, neanche ipotizzabili senza eguaglianza e senza affermazione storica dei diritti universali, il dovere primario è, appunto, quello di capire la Storia divenuta, non leggendola su pagine eterodirette né con gli occhi di un revanscismo pateticamente nostalgico.

    Tedino e Pedicini, scrivendo capitoli rigorosi di storia economica e strutturale, di vicende istituzionali e politiche, di scelte razionalmente compiute nel tempo storico, rifuggono dalla esaltazione di troni ed altari, come hanno fatto – invece – pubblicazioni recenti (e di successo) attraversate da atteggiamenti sostanzialmente subalterni, oltre che generalmente opinabili sul piano delle fonti e delle verifiche documentali.

    I nostri si muovono sul terreno delle realtà di fatto e sul valore della conoscenza della «storia dei vinti» per poter, finalmente, nell’oggi, costruire un orizzonte di civiltà partecipata, culturalmente consapevole, umana nel suo divenire. A tal fine, appare assai pregnante e puntuale la disamina che Tedino svolge, utilizzando i documenti ufficiali, segnatamente quelli di emanazione parlamentare, facendo emergere da essi – sì, dal versante dei vincitori! – le reali istanze e le ragioni dei «vinti». Si produce, così, una sorta di «miracolo della ragione storica» parafrasando una efficace espressione di Piero Calamandrei, riferita alla Costituzionale Repubblicana. Dalla parola roboante dei vincitori, intenzionati a chiudere la spinosa questione, emerge più forte la verità del brigante vinto, una parola che scaturisce dal silenzio, violentemente imposto!

    Il brigantaggio, allora, la sua composizione sociale, la sua derivazione ed i suoi approdi, la sua caratterizzazione antropologica e gli innervamenti politici, i disegni elaborati e gestiti da poteri «altri»… ecco altrettanti problemi che rendono conto della necessità di procedere – ancor oggi – alla comprensione profonda delle questioni, coerentemente contrastando le strategie del riduzionismo e delle interpretazioni strumentali o – in una parola – di parte.

    Non si può nascondere che – con attitudine nefasta, perché lontana da reale progettualità conoscitiva – sul tema del brigantaggio, con sospette dinamiche stagionali, si accendono passioni gridate e si instaurano duelli salottieri, nemmanco rispettosi di quella tragedia che, invece, ancora pesa sulla vicenda del Paese, meritando ben altra attenzione che non vessilli innalzati senza rischio alcuno.

    Ecco l’ulteriore merito che va riconosciuto al contributo offertoci dagli autori di Mal’aria: una lezione di stile, funzionale alla emersione dei nodi di fondo che «provocarono» la lunga stagione del brigantaggio meridionale. Se, correttamente, i saggi, che integrano la lettura complessiva, dichiarano – ab initio – la loro inevitabile limitatezza rispetto alla più volte invocata complessità, pure l’obiettivo di spingere la riflessione collettiva in profondità ed in direzione ostinatamente autonoma, si può ritenere senz’altro conseguito.

    La condizione economica della massa sterminata dei «cafoni» meridionali, la struttura della proprietà, la esosità dei contratti agrari e la sottrazione dei demani, la composizione sociale nei territori; il «senso comune» in un orizzonte egemonico stabilmente fondato sulla monarchia e sulla religione tradizionale; la inesistenza di possibilità di sviluppo educativo… ecco solo qualche citazione che restituisce un significato riconoscibile, appunto, a quella complessità che gli autori vorrebbero fosse affrontata, a tutti i livelli, quando si parla di brigantaggio, di Unità d’Italia, di Risorgimento.

    Intanto, è davvero importante che problematiche di immane portata non vengano sacrificate alla moda del comodo svilimento, fermo restando l’auspicio (tante volte avanzato anche dal non dimenticato Franco Molfese...) di rendere pubblica tutta la documentazione relativa agli anni del brigantaggio, in cui una militarizzazione assoluta «governò» vastissime zone del meridione d’Italia.

    E poi, appunto per le caratteristiche critiche e variegate e stimolanti del lavoro, ci sembrerebbe potenzialmente ben produttiva una sua utilizzazione nell’ambito formativo e nei luoghi di coinvolgimento delle comunità locali.

    Insomma, oggi più che mai, porre il lavoro culturale quale priorità in un tessuto sociale aggredito da una crisi morale ed intellettuale non meno che economica, appare necessario e dovrebbe investire la consapevole responsabilità di tutti, anche ai livelli istituzionali.

    È tempo, dunque, di condurre – con buona lena e scuotendo la polvere dai calzari – il cammino verso un Ri-nascimento nel segno della civiltà umana, di una religione civile condivisa perché fondata sulla conoscenza e sulla etica della solidarietà. Allora, la parola – densa per significato, legata alla memoria criticamente ritrovata, segnata da responsabilità scaturiente dal processo storico – diventa prassi (gramscianamente connotabile) per la composizione sociale, per l’inveramento dei diritti, per la soluzione di questioni aperte (quella «meridionale», prima fra tutte).

    Allora, il contributo specifico ma non neutrale, il granello apparentemente minuto ed isolato, la interlocuzione liberata dal fatalismo subalterno… si costituiscono come dovere morale e come contributo intellettuale in vista della sintesi, mai definitiva, cui tendere.

    Allora, limpidamente, non sarà dato tradurre «a vient’ e boria» con «dove va il vento»…

    Il libro che abbiamo tra le mani si inserisce, a pieno titolo, in questo orizzonte impegnativo e necessario, attraverso cui si rinnova il mandato del pensiero non asservito, non asservibile. E se la dimensione estetica, come accade con Mal’aria, fa parte della impresa, allora sì, prende slancio la speranza in una più rapida evoluzione nella direzione del vento, con l’annuncio di buone stagioni, di buoni raccolti per l’umano universale, quell’umano drammaticamente espresso nel rantolo del brigante.

    Tonino Conte

    Premessa

    Il progetto a vient’ e boria nasce nella primavera del 2017 come spin-off del GTP (Gruppo Teatro Popolare) di Foglianise, un collettivo attivo sulla scena teatrale regionale campana fin dal 1973 e per tutti gli anni ’70 e ’80. Alcuni degli attuali componenti di a vient’ e boria curavano la parte musicale degli spettacoli del GTP con cui, già nel 1979, allestirono la rappresentazione dell’opera U Juorn e San Michele di Elvio Porta nella quale si raccontano le vicende relative alla strage di Pontelandolfo e Casalduni dell’agosto 1861.

    Dall’esperienza maturata all’interno del GTP, e proprio in quello spazio etico-estetico rappresentato da una tradizione popolare finalmente non più vista in maniera oleografica, è nata l’idea di intraprendere una ricerca che mettesse capo ad un lavoro di «teatro-musica» intorno ad un tema che oggi, a nostro modo di vedere, chiede la massima attenzione: il brigantaggio postunitario.

    Sulla scorta di materiale precedentemente abbozzato e rielaborato per lo spettacolo ControVersi-VersiContro, oggi a vient’ e boria si presenta con un racconto tematico intitolato Mal’aria. Voci, volti, musica e parole dal Grande Brigantaggio, nel quale, pur non rinunciando a reinterpretare i classici della tradizione popolare brigantesca, propone canzoni inedite scritte dal gruppo per lo spettacolo, opportunamente «commentate» attraverso la narrazione di fatti, storie di vita vissuta, lettura di documenti, lettere di briganti e atti parlamentari. Tutto ciò inseguendo una forma che tenta di collocarsi in un territorio narrativo fatto di immagine, suono e parola nel tentativo di raccontare il volto «drammatico» dell’«unità» d’Italia in una maniera totale e coinvolgente.

    L’intento che ci ha mosso è stato quello di riportare l’attenzione del pubblico sia sul fenomeno del brigantaggio sia sulla cultura contadina del Sud, convinti del fatto che da troppo tempo le vicende storiche, economiche, sociali e politiche delle nostre regioni, nel decisivo scorcio del 1860, subiscano non soltanto uno svilimento etico, estetico e culturale ma anche e soprattutto una inspiegabile e deplorevole marginalizzazione storiografica. Lo sa bene, del resto, chi ha provato (o ancora oggi prova) ad addentrarsi nella «selva» del brigantaggio postunitario; l’esperienza che quasi sicuramente è destinato a provare è quella della frustrazione.

    Innanzitutto, non si riesce a reperire sufficiente materiale bibliografico – né in libreria, né in biblioteca – ma soprattutto ciò che si trova è di valore modesto, imperfetto, parziale, politicamente orientato, spesso infettato da un evidente quanto semplicistico agiografismo. Purtroppo la ricerca accademica ha sempre snobbato il tema ed il risultato è stato un proliferare di piccole pubblicazioni da parte di autori improvvisati, storici dilettanti, vecchi professori di liceo in pensione che affidandosi a minuscole case editrici hanno visto il loro lavoro stampato (a fronte dell’obbligo per l’autore di acquistare quasi tutte le copie prodotte) ma non distribuito. Nonostante ciò, a questi storici occasionali va riconosciuto il grande merito di aver tenuto vivo un lumicino altrimenti destinato a spegnersi, mentre la storiografia ufficiale lasciava colpevolmente inesplorato un momento terribile della nostra vicenda nazionale abbandonando ogni ricerca in quella direzione.

    In questo senso, è tutto il mondo dell’istruzione e della formazione, dalla scuola primaria all’università, che dovrebbe fare mea culpa perché mentre sulla triste vicenda dell’unità nazionale si costruiva la versione ufficiale «corretta» (Risorgimento e Grande Brigantaggio sono, in fondo, due facce della stessa medaglia) alla scuola veniva dato il compito di diffonderla e infonderla nelle giovani generazioni, utilizzando la tecnica della mistificazione, da un lato, e del silenzio, dall’altro.

    Le difficoltà che oggi si presentano allo studioso che si avventura in questo territorio ancora inesplorato con l’intenzione di far luce sui fatti accaduti all’indomani dell’unità erano già state perfettamente individuate da Franco Molfese che nel suo fondamentale Storia del Brigantaggio dopo l’Unità parla esplicitamente di «cortina di silenzio» che la «carità di patria» avrebbe steso sul fenomeno della ribellione brigantesca postunitaria¹. In ogni caso, pochi testi, di dubbio valore storiografico, molto spesso celebrativi, a volte acritici, in alcuni casi addirittura volgari tentativi di bassa politica. I pochi – veramente pochi – testi interessanti e degni di nota risultano irreperibili e fuori catalogo.

    In tutto ciò va comunque chiarito che a vient’ e boria non ha certamente l’intenzione di proporre un lavoro esclusivamente storiografico o critico; il nostro obiettivo è piuttosto quello di operare su più versanti, a cominciare da quello artistico, per avanzare una proposta estetica che vuole recuperare non filologicamente, bensì emotivamente, quel dramma e riportarlo al cuore del presente per farlo rivivere in tutta la sua profondità esistenziale.

    Dunque non una ricerca del «canto popolare autentico» quanto, piuttosto, una «autentica messa in scena» del dolore e della sofferenza di una comunità. Autentica non solo perché «propria» – e, dunque, sempre profondamente personale – ma anche perché universale e senza tempo. In questo senso i brani musicali dello spettacolo Mal’aria non possono essere definiti «popolari» in senso stretto. Essi lo sono in un senso molto più ampio e simbolico, un senso che rimanda, appunto, ad un’universalità del sentire la pena e la fatica dell’esistere quando esistere vuol dire sopraffazione, sopruso, violenza. Gli stessi personaggi che ricorrono nei testi sono solo parzialmente identificabili con i personaggi storici; essi fungono qui da modelli universali, in un certo senso archetipici e paradigmatici, attori da commedia dell’arte che agiscono sul palcoscenico della Storia.

    Non solo. È nostra intenzione riflettere, meditare, ragionare sul passato, comprenderlo e capirlo per comprendere e capire il nostro presente; lo vogliamo fare svincolandoci il più possibile da ogni prospettiva distorcente – sia essa quella «consentita» dal Potere e «accettata» dalla classe intellettuale italiana nell’ultimo secolo e mezzo, sia essa quella artatamente costruita come verità «contro», ma ugualmente contaminata da interessi di parte. Senza nascondere le proprie intenzioni e in un senso nobile, questo lavoro vuole essere, perciò, anche «politico» e «partigiano»; aspira, cioè, ad intervenire ed agire nel cuore etico della comunità culturale con il coraggio e la responsabilità che comporta ogni scelta, soprattutto quando si tratta di decidere da quale lato della barricata stare.

    Comprendere il presente, dunque, afferrarne i significati ma solo per entrare in esso «eticamente» e collocarsi «politicamente». Un’operazione possibile se si scava genealogicamente nel proprio passato, in quella provenienza che, come individui storici, ci costituisce essenzialmente ed inevitabilmente. Questo tuffo nella storia, perciò, non è una fuga dalle responsabilità dell’oggi ma, al contrario, un recupero di quell’origine e di quell’inizio che innerva il sé e l’attuale. Un procedere a ritroso che è anche un’indagine sul potere e i suoi dispositivi, rivelati dall’unica cartina di tornasole che li fa emergere: la resistenza ad esso.

    Con tutto ciò ha a che fare anche il nome del gruppo; «a vient’ e boria» allude, certamente e innanzitutto, alla condizione di vita dei briganti, esposti in qualsiasi stagione agli elementi e ai pericoli, fuggiaschi, braccati, assediati e indifesi; allo stesso tempo, però, quel nome pretende di essere metastorico e descrivere la dimensione esistenziale di ognuno, la vicenda umana, il trovarsi in un qualche modo sempre fuggiaschi, braccati, esposti, assediati e indifesi di fronte agli eventi della vita.

    a vient’ e boria è anche, perciò, una voce che chiama alle proprie responsabilità gli uomini di questo inquieto presente, li sollecita a porsi in una prospettiva critica e riflessiva nei confronti della «Storia» e li spinge a considerare, piuttosto, le «storie» e i racconti in quella dimensione minima e locale che, lungi dal rappresentare una ritirata dalla politica, è, invece, proprio il farsi prassi delle idee, il diventare azione del pensiero e dunque il decidere intorno alla polis.

    Mal’aria si colloca così in quell’orizzonte che ha decretato la morte della «Storia» e la nascita delle «storie» sottraendosi non solo al manto pesante e asfissiante delle ideologie, ma anche e soprattutto alle pericolose sirene dell’ideologismo. Ed è proprio in questo senso che viene in primo piano quella responsabilità cui non possiamo sottrarci se vogliamo essere concretamente liberi e fattivamente autori dello spazio etico-politico in cui viviamo.

    In altre parole, ed in maniera chiara, la nostra prospettiva ci colloca da una parte che non è né quella dei Savoia, né quella dei Borbone. Questo spettacolo nasce per dare voce agli oppressi, ai diseredati, agli sfruttati, agli ultimi. Questo spettacolo vuole dare spazio a chi non ha mai avuto la possibilità di spiegare le proprie ragioni, anche quelle che hanno fatto esplodere la loro violenta e sanguinaria reazione alle oppressioni e alle angherie subite dai vecchi signori proprio come dai nuovi.

    Questo spettacolo sta dalla parte delle vittime di quel Potere che, ieri come oggi, usa l’inganno e la forza per perpetuarsi.

    Il libro che avete tra le mani si compone di due parti; nella prima sono presentati quattro saggi che approfondiscono alcuni aspetti della reazione meridionale all’Unità e dei problemi con essa prodottisi, mentre nella seconda è riportato il testo del copione dello spettacolo Mal’aria così come è stato messo in scena da noi di a vient’ e boria;.

    Nella scrittura del testo Mal’aria – pur dovendo concedere spazio alle inevitabili necessità della drammatizzazione e alle ovvie esigenze della rappresentazione scenica – si è cercato per quanto possibile di restare fedelmente ancorati ai fatti storici documentati; alla base del copione, infatti, vi è un lungo lavoro di ricerca e documentazione che ci ha impegnato per oltre un anno a partire dal quale sono stati poi elaborati sia gli interventi dei narratori, sia i testi delle canzoni. Il lettore capirà, però, che nella messa in opera di un lavoro complesso come il nostro – che tenta di aprire una prospettiva estetica, e simultaneamente etica, su questioni ancora oggi molto controverse – la costruzione dei personaggi e la definizione dei caratteri passa inevitabilmente attraverso una lente deformante che, oltrepassando i dati storicamente consolidati tenta di catturare il cuore delle persone ed arrivare ad una dimensione esistenziale dei protagonisti altrimenti inattingibile; deroga parzialmente al vero storico, dunque, permettendosi forzature ed esagerazioni che non appartengono al ricercatore ma sono il materiale primo del narratore e del drammaturgo.

    In altri termini, i comprensibili vuoti della ricerca storica sono stati riempiti con l’inventiva del narrare perché ciò che non riesce a dire «la Storia» lo svelano «le narrazioni». I temi del nostro racconto, dunque, nella sostanza sono tutti storicamente fondati ma le modalità di esso

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