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Robot 84
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E-book321 pagine4 ore

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Info su questo ebook

rivista (247 pagine) - Racconti di Samuel R. Delany - Kristine Kathryn Rusch - Graziano Versace - Davide De Boni - Fabio Aloisio - Alain Voudì - Articoli su The Expanse - Harlan Ellison - Kristine Kathryn Rusch - I curatori di Urania - Sandro Sandrelli

Forse per salvare la specie umana occorrerà annullare tutte le differenze, cancellare la storia, vietare di raccontare storie o insegnare nozioni che non siano già universali. Il mondo prossimo futuro raccontato da Samuel R. Delany nel suo primo nuovo racconto dopo tanti anni, L’eremita di Houston, è più semplice del nostro, ma a tratti terrificante. Come a loro modo terrificanti, ma per aspetti diversi, sono le storie di Kristine Rusch – autrice molto amata in Italia, vincitrice di un Hugo con questo I Figli del Millennio – di Graziano Versace – un futuro in parte beatlesiano che sarebbe piaciuto al nostro fondatore Vic – e di Fabio Aloisio, che racconta la storia di una pecora. Be’, una pecora particolare. Purtroppo, non tutto si può aggiustare – lo sa bene il protagonista di Io aggiusto di Davide De Boni – e allora forse l’unica soluzione è quella suggerita da Alain Voudì.
Nelle rubriche Valerio Evangelisti spiega perché Harlan Ellison ha contato davvero qualcosa e Giuseppe Lippi racconta i curatori di Urania.

Fondata da Vittorio Curtoni, Robot è una delle riviste di fantascienza italiane più rpestigiose, vincitrice di un premio Europa e numerosi premi Italia. Dal 2011 è curata da Silvio Sosio.
LinguaItaliano
Data di uscita4 set 2018
ISBN9788825406665
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    Anteprima del libro

    Robot 84 - Silvio Sosio

    Stop

    EDITORIALE

    Quando i programmatori dominavano la Terra

    Silvio Sosio

    Quando mi chiedono cosa faccio, ho sempre un po’ di imbarazzo perché non so bene cosa rispondere. Sulla mia carta di identità c’è scritto giornalista, perché in effetti sono iscritto all’ordine e sono direttore di Fantascienza.com, che forse è la cosa più visibile che faccio. Molti mi conoscono come editore – di Delos Books prima e di Delos Digital ora. Ma in effetti buona parte del mio introito mensile me lo porta ancora l’attività di web designer e web developer, o se vogliamo dirlo con un temine italiano, di programmatore. E devo ammetterlo: questa attività ha forgiato la mia forma mentis (o magari sono finito a fare questa attività proprio a causa di come ero fin da prima): quando affronto un problema tendo ad affrontarlo da programmatore.

    Come affronta i problemi un programmatore?

    Allora, essenzialmente il programmatore è pigro. E si annoia facilmente. Perciò quando ha di fronte un lavoro noioso, piuttosto che sbrigarlo impiega dieci volte il tempo che avrebbe impiegato e scrive un programma che lo faccia al suo posto. A volte gli va bene e può riutilizzare il programma quando lo stesso lavoro si ripresenta successivamente, a volte no.

    Faccio un esempio: con Delos Digital pubblichiamo tra i quaranta e i cinquanta ebook al mese. Tra le fasi del lavoro di cui mi occupo io ci sono la produzione degli ebook, la loro distribuzione, alcune forme di promozione. Sembra una mole di lavoro abbastanza importante; come l’ho affrontata? Scrivendo tutta una serie di programmi che me la semplificano. Ora sono in grado di produrre un ebook normale (senza complicazioni come note, tabelle o simili) in meno di un minuto. I materiali necessari vengono inseriti in un sistema di gestione direttamente dai responsabili delle altre fasi della filiera. Stessa cosa per la gestione dei contratti, dei rendiconti delle royalty, eccetera. Se devo fare la versione stampata di un libro ho script che mi permettono di impaginarlo in pochi minuti. Poi un’occhiata che sia tutto a posto e via alla correzione bozze.

    Probabilmente mi perdo qualcosa. Un contatto più diretto con i libri, per esempio. La possibilità di variare di più un titolo dall’altro, sempre che questo possa essere desiderabile. Altre cose che non immagino.

    Devo dire, non mi preoccupo particolarmente di questo. Tuttavia sto cominciando a guardarmi intorno e chiedermi fino a che punto delegare il nostro lavoro al software o agli algoritmi sia consigliabile.

    Ci sono fior di libri di fantascienza in cui si affronta il tema, in modo estremizzato; uno per tutti, il bellissimo Solo il mimo canta al limitare del bosco (Mockingbird, noto anche come Futuro in trance) di Walter Tevis, in cui gli esseri umani hanno delegato alle macchine ogni attività possibile e non riescono più a trovare una ragione per vivere.

    Il tema, come in questo caso, è stato affrontato dalla fantascienza in modo per lo più esistenziale, anche se ovviamente la sostituzione dei robot agli esseri umani, come ci stiamo rendendo conto sempre di più, ha un impatto soprattutto sociale; perché, be’, la persona che viene licenziata per essere sostituita da una macchina prima di chiedersi «adesso che senso ha la mia vita?» si troverà purtroppo a domandarsi «e adesso come sfamo i miei figli?».

    Di questi problemi ne abbiamo già parlato (abbiamo anche fatto un bellissimo panel a Stranimondi l’anno scorso); adesso volevo provare a buttar giù qualche idea di tipo diverso sulla cessione della responsabilità.

    Entro qualche anno circoleranno per le nostre strade auto a guida autonoma. Probabilmente tra una quindicina d’anni saranno la maggior parte. E funzioneranno bene: già ora guidano in modo più sicuro degli esseri umani, ma a un certo punto ci sarà quello scatto necessario per cui non saranno più le auto a guida autonoma a doversi adeguare al mondo, ma sarà il mondo che comincerà ad adeguarsi a esse. Segnaletica, percorsi, il nostro stesso modo di affrontare la strada da pedoni o da ciclisti si adegueranno alla nuova fauna che circolerà per le strade. Ci adegueremo a questo nuovo aspetto dell’esistenza come ci siamo abituati ad avere a che fare con auto invece che con cavalli. Ma ovviamente finiremo per perdere quelle cognizioni che non ci serviranno più, dal codice della strada alla mappa geografica mentale dei luoghi in cui viviamo.

    Ma il settore nel quale lo studio dell’impatto degli algoritmi è più interessante è certamente quello della comunicazione.

    La comunicazione si è trasformata in modo drammatico nell’ultimo decennio, ne siamo coscienti tutti. Da un sistema top-down in cui un numero ridotto di fonti comunicavano unidirezionalmente con la massa – giornali, tv – siamo passati a un sistema apparentemente peer-to-peer in cui tutti comunicano con tutti. L’esplosione del web ha consentito la moltiplicazione e la popolarizzazione delle fonti – chiunque può mettere online qualunque cosa – e i social hanno fatto il resto. Questo ha portato a un graduale crollo del principio di autorità, per cui le fonti un tempo reputate credibili hanno perso presa via via, lasciando praterie a fonti di nuovo tipo; una perdita di autorità spesso non solo percepita ma anche reale, con giornali costretti a inseguire click con metodi sbrigativi e poco curati per trattenere il più possibile un fatturato che scorre via tra le dita.

    Dicevo, apparentemente peer-to-peer. Perché proprio la natura digitale della comunicazione ha consentito a persone come me, abituate a risolvere i problemi attraverso programmi e algoritmi, di fare in modo molto più comodo e rapido quello che una volta si otteneva solo andando di città in città a parlare (e ascoltare), di studio televisivo in studio televisivo a farsi intervistare.

    Quindi sono stati sviluppati programmi che sondano i social per scoprire tendenze e capire quali sono le cose che le persone vogliono sentirsi dire, sono stati sviluppati software per diffondere notizie in modo da sfruttare queste tendenze per spingere le persone – gli elettori – nella direzione voluta. Notizie vere, notizie distorte, notizie del tutto inventate? Poco importa. Anche notizie palesemente false, se impiantate nel terreno giusto vengono accolte senza alcuno spirito critico perché vanno incontro a un’idea già presente. Da qui le risposte che spesso si ottengono da chi le condivide: «non è vera? ma potrebbe benissimo esserlo».

    La meravigliosa democrazia diretta, vagheggiata dagli ideologhi di un movimento che oggi va per la maggiore in Italia ma anche immaginata da racconti della fantascienza classica, con questi strumenti finisce per ridursi al pilotare abilmente una macchina il cui motore è un sofisticato algoritmo.

    Per carità: nulla di davvero nuovo. L’elettorato è sempre stato manipolato attraverso i media. Quello che oggi cambia, probabilmente, è la facilità, la pervasività e anche l’invisibilità con cui si riesce a farlo. E, ci sembra, anche la qualità di ciò che si ottiene, perché i meccanismi psicologici più efficaci sono quelli più profondi degli esseri umani: l’egoismo, l’odio, la rivalsa, la pretesa.

    Il mondo, soprattutto quello occidentale in cui la democrazia era più manipolabile, è stato preso di sorpresa dall’avvento di questa nuova era. Ora si sta in qualche misura cercando di capire come correre ai ripari. Si parla molto di «lotta alle fake news», si studiano leggi per costringere i social network a prendersene la responsabilità. Come reagiranno a questo i social network, che sono prodotti concepiti e gestiti da programmatori?

    Creando altri algoritmi. Così, invece di avere persone capaci di capire se quello che leggono è vero o falso, capaci di andare a verificare prima di diffondere la bufala di turno, avremo software che decideranno cosa è vero e cosa non lo è. Così come, oggi, abbiamo software che censurano le immagini di Michelangelo perché si vede un capezzolo e le catalogano quindi come foto porno. Come in Uccello da guardia di Robert Sheckley, dove si perde il controllo di droni poliziotto e per risolverlo si progettano altri droni per dare la caccia ai primi.

    Illustrazione di Matteo Di Gregorio

    NARRATIVA

    I Figli del Millennio

    Kristine Kathryn Rusch

    Traduzione di Marco Crosa

    Kristine Kathryn Rusch è nata a Oneonta (stato di New York) nel 1960, vive a Eugene, in Oregon, ed è sposata con Dean Wesley Smith, anch’egli scrittore. Come autrice si è cimentata in vari generi, dalla fs al mystery al romance, vincendo in ogni settore i premi più importanti (Hugo per la fs e Edgar per il mystery) e come curatrice ha diretto dal 1988 al 1996 la Pulphouse Publishing, piccola casa editrice specializzata fondata con il marito.e dal 1991 al 1997 The Magazine of Fantasy and Science Fiction. Anche per l’attività di curatrice ha vinto i premi maggiori, uno Hugo e un World Fantasy Award.

    Maggiori informazioni sono disponibili sul suo sito www.kriswrites.com, mentre per una disamina critica più approfondita, rimandiamo all’articolo di Salvatore Proietti in queste pagine. (FL)

    A due settimane dall’inizio del secondo semestre ricevette il messaggio. Era stato inviato al sistema di ricezione domestico e codificato per il suo vero nome, Brooke Delacroix, non Brooke Cross, il nome che usava da quando aveva compiuto diciotto anni. Dapprima non aveva voluto aprirlo, pensando che fosse solo un altro rompicapo legale da parte di sua madre, così lasciò che il monitor domestico della cucina continuasse a lampeggiare, mentre preparava la cena.

    Si concesse una cena abbondante e si versò un bicchiere di rosé prima di sedersi davanti al caminetto del soggiorno. Il caminetto era la ragione per cui aveva comprato quella casa. Si era innamorata dell’idea di potercisi sedere davanti nelle fredde serate d’inverno, sepolta sotto un cumulo di coperte, a leggere gli antichi tascabili che aveva trovato nella bottega antiquaria di Madison, con un vero fuoco che scoppiettava vicino. Leggeva per lavoro sul lettore di e-book, più che altro ricerche per le lezioni che teneva in università, ma amava leggere romanzi in forma cartacea, stando attenta a non strappare le fragili pagine e sentendo tra le mani il peso della carta rilegata.

    Aveva aggiunto scaffali nel soggiorno per accogliere i romanzi di carta, nonché qualche altro miglioramento, ma cercava di mantenere il carattere dell’abitazione: aveva centocinquant’anni, costruita quando quella parte del Wisconsin non ospitava altro che fattorie a conduzione famigliare. Ora i vasti terreni coltivabili erano scomparsi, suddivisi in lotti di soli cinque acri, ma la privacy era rimasta. Adorava più di ogni altra cosa starsene lì fuori, in campagna. Anche se l’università le dava lavoro, la casa era il suo mondo.

    Il romanzo che teneva in mano era un volume sottile, uno dei suoi preferiti: Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald; quella sera, però, il libro non riusciva a catturare il suo interesse. Alla fine ci rinunciò. Se non avesse ascoltato quel dannato messaggio, il pensiero di sua madre l’avrebbe tormentata per tutta la notte.

    Brooke lasciò sul tavolino il libro e il bicchiere di vino, arrotolò le coperte in fondo al divano e tornò in cucina. Avrebbe anche potuto chiedere alla Casa di riprodurre nel soggiorno una versione del messaggio in solo audio, ma voleva vedere sua madre in faccia e sapere cosa c’era di grave stavolta.

    Il monitor era sulla parete ovest, accanto al forno a microonde. I precedenti proprietari – un’affascinante coppia di anziani – avevano tenuto in quel punto un piccolo televisore. Nelle notti come quella, Brooke pensava che il monitor non fosse un miglioramento.

    Sostò in piedi davanti allo schermo, le braccia conserte, sospirò e disse: – Casa, riproduci messaggio.

    L’icona lampeggiante sparì dallo schermo. Una voce digitale che non conosceva disse: – Questo messaggio è codificato esclusivamente per Brooke Delacroix. Non verrà riprodotto senza la garanzia che nessun altro si trovi nella stanza.

    Lei drizzò la schiena. Se veniva da sua madre, allora la sua tattica erano cambiate. Aveva un suono ufficiale. Brooke si assicurò di essere visibile dalla videocamera incorporata.

    – Sono Brooke – disse – e sono sola.

    – È disposta a darne garanzia? – le chiese la voce sconosciuta.

    – Sì – rispose.

    – Resti in linea per il messaggio.

    Lo schermo diventò nero. Brooke si stropicciò le mani. Aveva la pelle d’oca. Chi avrebbe mai potuto inviarle un messaggio ufficiale?

    – Comunicazione codificata per Brooke Delacroix – disse una nuova voce digitale. – Numero di identificazione personale…

    Mentre la voce sciorinava le cifre, lei serrò forte i pugni. Forse era successo qualcosa a sua madre. Brooke era, in fin dei conti, la sua unica parente.

    – Sono Brooke Delacroix – dichiarò. – Quanti altri protocolli di sicurezza ci sono?

    – Cinque – disse Casa.

    Sentì le spalle rilassarsi nell’udire la voce familiare.

    – Aggirali. Non ho tempo.

    – D’accordo – disse Casa. – Attendere, prego.

    Attese. Ora desiderò di essersi portata in cucina il bicchiere di vino. Per la prima volta, sentì di averne bisogno.

    – Signora Delacroix? – disse una voce maschile, e allo stesso tempo un’immagine riempì il monitor. Un uomo di mezza età con capelli e occhi scuri fissava un punto appena dietro le sue spalle. Aveva l’aspetto di un intellettuale, uno studioso, qualcuno che passava troppo tempo alla luce artificiale. Sembrava anche vagamente familiare. – Mi perdoni la scortesia. So che ora si fa chiamare Cross, ma volevo accertarmi che fosse lei la donna che cerco. Sto cercando Brooke Delacroix, nata alle 12:05 antimeridiane del primo gennaio 2000 a Detroit, Michigan.

    Un altro protocollo di sicurezza. Che roba era questa?

    – Sono io – disse Brooke.

    Lo schermo lampeggiò lievemente, evidentemente mentre la sua risposta veniva inserita in qualche tipo di programma. L’uomo doveva aver registrato messaggi diversi per le diverse risposte. Brooke sapeva che non gli stava parlando dal vivo.

    – In realtà siamo colleghi, signora Cross. Mi chiamo Eldon Franke…

    Certo. Ecco perché le sembrava familiare. Il Guru del Potenziale Umano che era su tutti i notiziari. Uno scienziato serio, la cui ultima pubblicazione era diventata un best-seller della cultura popolare. Franke aveva rimasticato le vecchie discussioni su natura contro educazione nello sviluppo della personalità, aggiunto un pizzico di sociologia e qualche consiglio ben documentato per migliorare il destino che il binomio natura/educazione riservava alle persone, e in qualche modo il libro aveva fatto centro.

    Lei lo aveva letto e l’avevano impressionata i metodi interdisciplinari utilizzati… e il riconoscimento attribuito ai meriti dei colleghi.

    – …abbiamo una nuova sovvenzione, piuttosto grossa a dire il vero, cosa che ha sorpreso persino me. Con quella, e i proventi del mio ultimo libro, sono in grado di intraprendere il tipo di ricerca che ho sempre desiderato fare.

    Lei tenne le mani giunte e lo guardò. Aveva occhi intensi e brillanti. Brooke ricordava di averlo visto alle feste di facoltà, ma non gli aveva mai rivolto la parola. Lei non parlava spontaneamente con molta gente, specialmente durante gli eventi sociali. Aveva imparato sin dai primi tempi il valore di starsene per conto suo.

    – Farò arrivare soggetti da tutto il paese – stava dicendo Franke. – All’inizio avevo sperato da tutto il mondo, ma questo renderebbe la ricerca troppo vasta persino per me. Sia come sia, lavorerò su oltre trecento soggetti da tutti gli Stati Uniti. Non mi aspettavo di trovarne uno nel cortile di casa.

    Un soggetto. Sentì che il respiro le si bloccava in gola. Aveva pensato che le si rivolgesse da pari a pari.

    – So dagli articoli che lei non ama parlare del suo status di Figlia del Millennio, ma…

    – Spegni – disse lei a Casa. L’immagine di Franke si bloccò sullo schermo.

    – Mi dispiace – disse Casa. – Questo messaggio è programmato per essere riprodotto nella sua totalità.

    – Allora aggiralo e spegni quel maledetto affare.

    – Il programma del messaggio è troppo sofisticato per i miei sistemi – disse Casa.

    Brooke imprecò. Il figlio di puttana sapeva che avrebbe cercato di spegnerlo. – Quanto dura?

    – Ne hai ascoltato un terzo.

    Brooke sospirò. – D’accordo. Continua.

    L’immagine riprese a muoversi. – …spero che voglia ascoltarmi. Il mio lavoro, come lei saprà o forse no, riguarda il potenziale umano. Intendo basarmi su mie precedenti ricerche, ma mi manca il tipo giusto di gruppo da studiare. Molti scienziati di ogni tendenza hanno studiato le generazioni e ipotizzato che, per il fatto di essere nate nello stesso anno, le persone dovessero avere le stesse speranze, aspirazioni e sogni. Io non credo che sia così. L’essere umano è troppo vario…

    – Vieni al dunque – disse Brooke, sedendosi su una sedia in cucina.

    – …pertanto, nella mia ricerca del gruppo adatto, mi sono imbattuto in alcuni articoli di trent’anni fa sui Figli del Millennio e ho capito che questo sottoinsieme della sua generazione, i nati il primo gennaio dell’anno 2000, hanno in effetti punti di partenza simili.

    – No, non li abbiamo – disse Brooke.

    – Di conseguenza lei mi offre la possibilità di focalizzare la ricerca. Userò i dati grezzi per proseguire il lavoro generale, ma questa ricerca si concentrerà su ciò che fa sì che gli esseri umani abbiano successo o falliscano…

    – Va’ a farti fottere – disse Brooke, e uscì dalla cucina. Dietro di lei, la voce di Franke si interruppe.

    – Vuoi che trasferisca l’audio nel soggiorno? – chiese Casa.

    – No – rispose Brooke. – Lascialo blaterare. Io ho finito di ascoltare.

    Il fuoco scoppiettava nel camino, il vino si era scaldato fino alla temperatura ambiente emanando un bouquet differente e le coperte sembravano comode. Ci sprofondò dentro. La voce di Franke continuava a echeggiare monotona in cucina. Ordinò a Casa di suonare Bach per coprirla.

    Ma nemmeno il suo concerto brandeburghese preferito riuscì a cancellarle la voce dalla mente. Studiare i Figli del Millennio. Brooke chiuse gli occhi. Si chiese cosa ne avrebbe pensato sua madre.

    Tre giorni dopo Brooke era nel suo ufficio e cercava di mettere insieme la lezione per il suo nuovo corso introduttivo sulle due guerre mondiali. L’Università del Wisconsin credeva ancora che un insegnante dovesse stare in piedi davanti agli allievi, anche per i corsi più lunghi, invece di propinare lezioni preconfezionate che potevano essere comodamente scaricate da Internet. Quasi tutti i professori consideravano i corsi introduttivi uno spreco di fatica; lei invece li apprezzava. Tenere una lezione in una grande stanza gremita di gente le piaceva.

    Ma ora si addentrava oltre le osservazioni introduttive, verso aree che non le erano familiari. Non credeva nel recitare a pappagallo i libri di testo, perciò stava approfondendo la Prima Guerra Mondiale. Aveva dimenticato che le sue cause fossero state tanto complesse, le sue conseguenze di così ampia portata, specialmente in Europa. A volte si ritrovava immersa nella lettura, persa nel passato.

    Il suo ufficio era piccolo e angusto, c’era spazio a stento per la scrivania. Dato che era nuova, era stata assegnata a Bascom Hall, in cima a Bascom Hill, un edificio che era esistito per la maggior parte della storia dell’università. Le storiche mura della Hall non racchiudevano tecnologia moderna, per cui le autorità universitarie si erano assicurate che lei avesse una bella scrivania dotata di schermo incorporato. Il problema era che quando doveva svolgere ricerche approfondite, come in quel momento, era costretta a guardare in basso. Spesso scaricava informazioni sul palmare o lavorava a casa. Lavorare in ufficio, alla fioca luce fornita dagli arcaici neon e dalla finestra dalla zanzariera sporca, le faceva venire il mal di testa.

    Ma aveva quasi finito. L’indomani avrebbe accompagnato i suoi studenti dagli orrori della guerra di trincea ai primi passi del coinvolgimento statunitense nel conflitto. Il fulcro della lezione però si sarebbe concentrato sull’isolazionismo: una forza potente in entrambe le guerre mondiali.

    Qualcuno bussò alla porta, richiamandola nel Ventunesimo secolo. Si massaggiò con impazienza la radice del naso. Non era orario di ricevimento. Detestava quando gli studenti non leggevano gli avvisi.

    – Sì? – chiese.

    – Professoressa Cross?

    – Sì?

    – Posso rubarle un attimo?

    La voce era maschile e non suonava eccessivamente giovane, ma molti dei suoi studenti erano più grandi.

    – Un momento – disse, sbloccando la serratura dal desktop. – A quest’ora non ricevo.

    La maniglia girò ed entrò un uomo. Non era molto alto ed era magro: un fisico da podista. Fu solo quando si voltò verso di lei che Brooke si lasciò sfuggire un gemito.

    – Professor Franke.

    Lui alzò una mano. – Mi spiace disturbarla…

    – Dovrebbe. Non ho risposto al suo messaggio di proposito.

    – L’avevo immaginato. La prego, mi dia solo qualche minuto.

    Lei scosse la testa. – Non sono interessata a essere il soggetto di nessuna ricerca. Non ne ho il tempo.

    – È per il tempo? O per il fatto che la ricerca ha a che fare con i Figli del Millennio? – La guardò con scaltrezza.

    – Entrambe le cose.

    – Posso prometterle che sarà ben ricompensata. E se solo volesse ascoltarmi un attimo, potrebbe riconsiderare…

    – Professor Franke. Non mi interessa.

    – Ma lei è determinante per la ricerca.

    – Perché? – chiese Brooke. – Per via delle azioni legali di mia madre?

    – Sì – disse lui.

    Brooke sentì l’aria sfuggirle dal corpo. Dovette ricordare a se stessa di respirare. La sensazione era familiare. Lo era sempre stata. Ogni volta che qualcuno parlava dei Figli del Millennio, aveva quella sensazione allo stomaco.

    I Figli del Millennio. Nessuno si era aspettato quella mania, ma dal marzo del 1999 era diventata palese. Gli aspiranti genitori pianificarono il concepimento dei figli come per una gara ad avere il primo bambino nato nel 2000. Il Nuovo Millennio, come lo chiamarono impropriamente gli opinionisti dell’epoca. Ci fu una specie di concorso internazionale più o meno ufficioso, ma negli Stati Uniti la competizione fu piuttosto intensa. Ci furono altre gare in tutti i paesi sviluppati e in ogni città. E nella maggior parte dei posti, i genitori vittoriosi guadagnarono un mucchio di soldi, un mucchio di prodotti omaggio, e alcuni, quelli con i bambini più fotogenici o i più determinati, ebbero anche dei sussidi.

    – Oh, ma bene – disse Brooke caricando la voce di tutto il sarcasmo che le riuscì. – Mia madre è arrabbiata perché da bambina non sono stata

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