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Robot 83
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E-book322 pagine4 ore

Robot 83

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Info su questo ebook

rivista (245 pagine) - Racconti di Ursula K. Le Guin, Michael Swanwick, Dario Tonani, Lukha B. Kremo, Cristiano Fighera, Luigi Calisi. Articoli su Ursula K. Le Guin, Edgar Allan Poe, The Handmaid's Tale.


Che speranze ci sono per il pianeta Terra? Inquinamento, esaurimento delle risorse, sovrappopolazione lo hanno condannato?

Forse la salvezza sarà la  fuga nello spazio, ma a costo di grandi sacrifici. Così la pensa la grande Ursula K. Le Guin nel racconto finora inedito Il sonno di Newton.  Anche Luigi Calisi parla di fughe, molto simili a quelle che ben conosciamo tra l’Africa e l’Europa. Cambia solo un dettaglio. Un mondo alla rovescia, in un certo senso; completamente alla rovescia invece è l’universo descritto da Lukha B. Kremo nel racconto vincitore del Premio Robot Invertito, che si occupa tra le altre cose di rapporti difficili tra genitori e figli; un po’ come accade, ma in modo del tutto diverso, nel racconto di Cristiano Fighera. I figli sono sempre figli, ma alla fine dei conti ci si può fidare solo di sé stessi, soprattutto se si combatte una guerra temporale come in Legioni nel tempo di Michael Swanwick, o se si naviga in una nave dotata di ruote nelle sabbie rugginose del Mondo9 di Dario Tonani.


Fondata da Vittorio Curtoni, Robot è una delle riviste di fantascienza italiane più rpestigiose, vincitrice di un premio Europa e numerosi premi Italia. Dal 2011 è curata da Silvio Sosio.

LinguaItaliano
Data di uscita12 apr 2018
ISBN9788825405644
Robot 83

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    Anteprima del libro

    Robot 83 - Silvio Sosio

    Stop

    EDITORIALE

    L’ultima uscita

    Silvio Sosio

    Qualche sera fa, su Netflix, abbiamo visto il film The Titan. Insomma, visto forse è eccessivo: a un certo punto, annoiati, abbiamo deciso di usare l’avanti veloce per vedere se era tutto così o succedeva qualcosa. Ma questo non c’entra. Il tema del film era il seguente: in un futuro più prossimo di quanto ci piaccia pensare l’esaurimento delle risorse e l’inquinamento minacceranno di rendere la Terra inabitabile; la soluzione perciò sarà quella di modificare geneticamente gli esseri umani per renderli adatti a vivere su Titano. La procedura viene quindi sperimentata su una decina di volontari.

    Il film passa due ore a raccontarci dei problemi della famiglia di uno di questi soggetti, che cambia di giorno in giorno, e a uccidere uno per uno tutti gli altri finché non resta solo lui. Negli ultimi trenta secondi del film lo vediamo svolazzare nell’atmosfera metanosa di Titano.

    Negli ampi momenti di noia durante la visione mi sono soffermato a valutare l’idea che si debba abbandonare la Terra perché è inquinata e non è più in grado di sostenere sette o più miliardi di abitanti. Per trasferirsi su un pianeta decisamente più freddo, con un’atmosfera irrespirabile e del tutto senza vita. Lo stesso problema l’avevo avuto con un film di tutt’altro livello, Interstellar. Insomma, qualsiasi problema abbia la Terra, sarà o non sarà sempre meglio di un pianeta ghiacciato, di uno coperto da un oceano infinito o simili?

    C’è chi sogna la colonizzazione di Marte come valvola di sfogo per la sovrappopolazione terrestre, ma il fondo dell’oceano, per esempio, per quando ostile e scomodo, non è mille volte meno ostile e più facile da raggiungere di un pianeta freddo e spoglio a più di cinquanta milioni di chilometri di distanza?

    Lo so, sono opinioni un po’ scomode per un appassionato di fantascienza.

    E però, la tesi iniziale del film era ineludibile. La Terra sta andando incontro al disastro.

    Tempo fa ho letto un articolo che criticava le scelte etiche dei vegani, dimostrando come anch’esse causino enormi problemi. Agli esseri umani, che vedono il prezzo di prodotti ai quali si sono affidati per secoli decollare rendendoli per loro inaccessibili, all’ambiente, con la trasformazione di foreste in aree coltivate, agli stessi animali, il cui habitat viene distrutto dalla coltivazione. Fenomeni perfettamente simili accadono col ciclo produttivo delle carni. Dobbiamo nutrire una specie umana ipertrofica e persino dettagli assurdi diventano problematici: per esempio, sapevate che tra le maggiori cause di inquinamento dell’atmosfera ci sono le emissioni di gas intestinali dei bovini? Sì, le scoregge, esatto.

    Il problema vero insomma non sono gli avocado, le vacche, le palme da olio o la soia: il problema sono i sette miliardi di esseri umani, che saranno dieci nel 2050 e undici e mezzo nel 2100. Qualunque scelta alimentare si faccia la scala enorme sulla quale dovrà essere applicata la renderà insostenibile.

    L’alimentazione non è l’unico punto critico, naturalmente. Il consumo delle risorse e i danni all’ambiente sono sempre più gravi. Quali sono i piani dei governi del pianeta per risolvere il problema?

    Qualche anno fa, con gli accordi di Kyoto e di Parigi, gli ambientalisti protestavano considerandoli provvedimenti troppo blandi e insufficienti a invertire la tendenza. Oggi l’inversione c’è stata, ma non quella che ci aspettavamo. Il nuovo presidente americano, Donald Trump, sta rimuovendo una dopo l’altra tutte le misure a favore dell’ambiente approvate durante l’era Obama, per andare incontro agli interessi dei suoi elettori e dei suoi finanziatori. Industrie che hanno ancora bisogno del sostegno statale per decollare, come quella dell’auto elettrica, subiranno ritardi forse incolmabili. Anche se gli altri paesi si comportano in modo più responsabile (per ora, perché le stesse tendenze politiche crescono anche nel resto del mondo, e prima o poi arriveranno al potere movimenti lieti di lasciare ai propri figli il problema dell’ambiente per salvare qualche posto di lavoro ai propri elettori), è evidente che senza i maggiori inquinatori del mondo, Stati Uniti e Cina, nessuna misura può essere efficace.

    Idee?

    In un articolo uscito recentemente sul Guardian Kim Stanley Robinson, scrittore diventato famoso scrivendo una trilogia sulla terraformazione di Marte, dice che l’unica speranza per salvare il pianeta è dimezzare lo spazio occupato dagli esseri umani. Robinson riprende a sua volta le teorie di Edward Osborne Wilson descritte nel libro Half Earth. Secondo Wilson lasciare metà del pianeta (sia della terra emersa che degli oceani) allo stato selvaggio permetterebbe di salvare la biodiversità. La cosa, dice Robinson, è meno impossibile di quanto sembri; non si tratta di prendere tutti gli abitanti di un emisfero e trasferirli nell’altro, ma semplicemente di incoraggiare un fenomeno già presente da tempo, l’emigrazione verso le città.

    Naturalmente ci sono infiniti problemi. La popolazione delle città va nutrita, ha bisogno di acqua, energia. La rivoluzione proposta da Wilson e da Robinson imporrebbe comunque enormi cambiamenti, razionalizzazione del consumo d’acqua, rendere l’agricoltura carbon-neutral, ovvero fare in modo che consumi più anidride carbonica di quella che produce, e così via. È una di quelle soluzioni che potrebbero essere messe in pratica solo se il pianeta fosse governato da un unico dittatore (magari un’intelligenza artificiale) in grado di imporre il suo punto di vista, non certo in un pianeta che funziona sulla base degli interessi privati e delle leggi di mercato.

    Insomma, a meno di miracolose invenzioni, invasioni aliene, ascese di Skynet e simili, il tempo per salvare la Terra è sostanzialmente scaduto.

    Andiamo su Titano?

    Ecco, lo spirito del fantascientista si rivolge lì, certo. Se non si può salvare la Terra cerchiamo di salvare la specie umana trasferendoci altrove. Ma altrove dove?

    Come dicevo all’inizio, c’è il piccolo problemino che per quanto la Terra possa essere inquinata, malridotta e invivibile resta sempre un paradiso se confrontata con gli altri pianeti del sistema solare. Freddissimi o caldissimi, privi di atmosfera o mortalmente venefici, privi di schermi antiradiazioni, privi d’acqua, eccetera. Il nostro caro Marte, così tristemente diverso da quello immaginato dagli scrittori di fantascienza di un secolo fa, potrebbe forse essere trasformato in una nuova Terra, ma con un processo di terraformazione che richiederebbe secoli e quantità di soldi spaventose.

    Cercare pianeti già pronti in altri sistemi non cambia molto il problema: lo sforzo per trovare un modo di intraprendere una spedizione interstellare è altrettanto ciclopico e sul lungo periodo.

    Sono plausibili governi capaci di stanziare queste quantità di soldi in un’impresa che non vedrebbe risultati né entro la fine del loro mandato né entro la fine della vita dei loro elettori?

    Ma anche se i soldi e la volontà politica fossero reperibili, il dubbio che dobbiamo porci è: ma tutto questo tempo ce l’abbiamo? Possiamo aspettare anche solo un paio di secoli che Marti diventi abitabile? Non sembra così scontato. Oltre alle crisi delle risorse e dell’ambiente la percezione in questi anni è che il mondo stia andando verso una fase poco pacifica della propria storia. Vediamo sempre più frequentemente presidenti che modificano le leggi per diventare una sorta di sovrani assoluti (vedi Russia, Cina, Turchia), vediamo le spinte verso l’unità essere annullate e contrastate da spinte contrarie che portano alla divisione, alle guerre commerciali, all’isolazionismo. Magari tra vent’anni la ruota della storia sarà girata e saremo pronti a un grande sforzo congiunto mondiale, ce lo auguriamo, ma non sembra facilissimo. L’esaurimento renderà la situazione sempre più critica, la collaborazione meno facile. E senza cooperazione scientifica, senza un commercio mondiale che permetta lo sviluppo della tecnologia, senza risorse, non si va da nessuna parte.

    Illustrazione di Luca Vergerio

    NARRATIVA

    Il sonno di Newton

    Ursula K. Le Guin

    Traduzione di Marco Crosa

    Quando si dice che un autore non ha bisogno di presentazioni, si dà per scontato che sia talmente noto che poco o nulla si potrebbe aggiungere nelle scarne righe di un trafiletto. Nel caso di Ursula K. Le Guin, (Berkeley, 21 ottobre 1929 - Portland, 22 gennaio 2018) possiamo affermare che occorreranno ancora anni e tanti saggi, studi e approfondimenti perché la sua fondamentale importanza per la letteratura fantastica sia compresa appieno.

    E speriamo che in Italia giungano almeno i riflessi di questo approfondimento, considerato che la nostra editoria continua colpevolmente a lasciare inedita una buona parte della sua produzione; un buon inizio può essere l’articolo di Salvatore Proietti in questo numero.

    Autrice popolare (enormemente negli USA) che ha portato spessore letterario e una radicale sensibilità femminista nella fantascienza e nel fantasy con libri come La mano sinistra delle tenebre e la serie di Earthsea; ha introdotto per prima questioni come l’ambientalismo e l’anarchismo politico con Il mondo della foresta e I reietti dell’altro pianeta; ha affrontato i temi dell’identità (etnica, sessuale, culturale) con gli strumenti dell’antropologia, della psicologia e della sociologia, esplorando, grazie in questo caso agli strumenti della fs, le conseguenze del contatto tra differenti mondi e culture.

    Il tutto accompagnato da una visione politica netta e perentoria: non a caso la maggior parte dei suoi personaggi sono di colore (di vari colori), una scelta tesa a sottolineare che la maggioranza dell’umanità non è bianca.

    Il sonno di Newton, il racconto che abbiamo scelto per renderle omaggio, riesce in poche pagine a offrire un perfetto esempio di tutto quanto detto sopra. (FL)

    Quando il governo dell’Unione Atlantica, che aveva finanziato la Società SPES come progetto segreto, cadde a seguito del Colpo di Stato dell’Anno Bisestile, Maston e i suoi uomini erano pronti; le risorse, i documenti e i membri della Società furono trasportati durante la notte al di là del confine, negli Stati Uniti d’America. Dopo una breve riaggregazione, questi ultimi chiesero alla Repubblica di California un terreno dove insediarsi come culto millenarista e ricevettero il permesso di colonizzare gli acquitrini chimici spopolati della San Joaquin Valley. La città a cupola che costruirono lì era un prototipo del Satellite Speciale della Terra, sufficientemente abitabile perché qualche colono chiedesse perché mai si dovevano spendere tutti quei soldi e fatica, quando avrebbero potuto semplicemente insediarsi lì. Ma la rottura del trattato Calmex e le prime invasioni dal sud, unite a una nuova epidemia di peste fungina, dimostrarono ancora una volta che la Terra non era un’opzione praticabile. Le squadre di costruzione fecero la spola avanti e indietro quattro volte l’anno per quattro anni. Sette anni dopo il trasloco in California, gli ultimi dieci viaggi tra la piattaforma di lancio sulla Terra e la bolla dorata sospesa sul punto di librazione trasportarono i coloni su Spes e alla salvezza. Solo cinque settimane dopo, i sovrintendenti di Spes riferirono che le orde di Ramirez avevano travolto Bakersfield, distrutto la torre di lancio, saccheggiato il poco che restava e dato fuoco alla cupola.

    – Siamo scappati per un soffio – disse Noah a suo padre, Ike. Noah aveva undici anni e leggeva molto. Scopriva da solo ogni cliché letterario e poi lo utilizzava con solenne compiacimento.

    – Quello che non capisco – disse Esther, quindicenne – è perché tutti gli altri non hanno fatto come noi. – Si spinse gli occhiali sul naso, aggrottando la fronte verso il monitor di sorveglianza. La chirurgia correttiva aveva fatto ben poco per i gravi difetti visivi della ragazza, e, visti i suoi problemi al sistema immunitario e le reazioni allergiche, il trapianto oculare era fuori questione: non poteva nemmeno indossare le lenti a contatto. Portava gli occhiali come una disgraziata delle case popolari. Ma un paio d’anni nell’ambiente di Spes, assolutamente privo di inquinamento, avrebbero dovuto risolvere i suoi problemi, o così i dottori avevano garantito a Ike, al punto che sarebbe stata in grado di scegliere una coppia di 20-20 dalla banca degli organi congelati. – Allora sarai la mia bambina dagli occhi azzurri! – aveva scherzato suo padre dopo il fallimento del terzo intervento chirurgico, quando lei aveva tredici anni. La cosa importante era che il difetto fosse dovuto allo sviluppo e non codificato geneticamente. – Persino i tuoi geni sono azzurri – le aveva detto Ike. – Noah e io abbiamo il gene recessivo della scoliosi, ma tu, ragazza mia, hai un’elica perfetta. Noah dovrà trovarsi una compagna nei gruppi B o G, ma tu potrai scegliere da tutta la colonia: sei una Senza Restrizioni. Ce ne sono soltanto altri dodici tra tutti noi.

    – Dunque posso essere promiscua – aveva detto Esther, mantenendo una espressione da poker sotto le bende. – Lunga vita alla Numero Tredici.

    Adesso era in piedi accanto a suo fratello; Ike li aveva chiamati al centro di sorveglianza per mostrare loro cos’era successo alla Cupola Bakersfield. Alcune donne e bambini di Spes erano inclini al sentimentalismo, o alla nostalgia di casa, come la chiamavano loro: lui voleva che i suoi figli vedessero cos’era diventata la Terra e perché se n’erano andati. L’IA, programmata per selezionare informazioni di interesse per la Colonia, terminò il suo rapporto su Bakersfield con la proiezione delle conquiste di Ramirez, poi passò a uno studio meteorologico peruviano sul Bacino delle Amazzoni. Dune e rosse pianure spoglie riempirono lo schermo, mentre la voce fuori campo, una traduzione simultanea in inglese prodotta dall’IA, proseguiva monotona. – Guarda che roba – disse Esther fissando le immagini e aggiustandosi gli occhiali sul naso. – È tutto quanto morto. Come mai non sono venuti tutti quassù?

    – I soldi – disse sua madre.

    – Perché la maggior parte della gente non è disposta ad ascoltare la ragione – disse Ike. – I soldi, i mezzi, sono un fattore secondario. Per cent’anni chiunque fosse disposto a osservare il mondo razionalmente era in grado di capire cosa stava succedendo: esaurimento delle risorse, esplosione demografica, il collasso dei governi. Ma per agire sulla base di una comprensione razionale bisogna fidarsi della ragione. La maggior parte della gente preferirebbe fidarsi della fortuna o di Dio o di uno dei rimedi più facili. La ragione è difficile. È difficile fare piani accurati, aspettare anni, compiere scelte impopolari, raccogliere fondi su fondi e tenerli segreti affinché non vengano rubati o prosciugati da avidità o facile indulgenza. Quante persone sono in grado di mantenere una rotta diritta in un mondo che si sta disintegrando? La ragione è la bussola che ci ha permesso di sopravvivere.

    – Non ci ha provato nessun altro?

    – Non per quanto ne sappiamo.

    – Ci sono stati i Foy – interloquì Noah. – Ho letto di loro. Hanno chiuso migliaia di persone in una specie di congelatori di organi, delle persone intere e vive, e hanno costruito un sacco di razzi a basso costo per spararli nello spazio, e si immaginava che in un migliaio di anni sarebbero arrivati a un’altra stella e si sarebbero svegliati. E non sapevano neanche se quella stella avesse dei pianeti.

    – E il loro capo, il reverendo Keven Foy, sarebbe stato lì ad accoglierli nella loro Terra Promessa – disse Ike. – Una pia illusione e poi tiri le cuoia… poveri bastoncini di pesce! Era così che li chiamavano. Avevo più o meno la tua età, li avevo visti nei notiziari, che si arrampicavano in quei Trabiccoli. Metà di loro era già fungoide o RMV-positiva. Portavano neonati, cantavano. Quella non era gente che confidava nella ragione. Era gente che l’abbandonava in preda alla disperazione.

    L’oloripresa mostrava una immensa tempesta di polvere che si spostava incerta e lenta sui deserti dell’Amazzonia. Aveva un colore rosso-grigiastro-marrone scuro, terreo.

    – Siamo fortunati – disse Esther. – Suppongo.

    – No – rispose suo padre. – La fortuna non c’entra niente. E non siamo neanche un popolo eletto. Abbiamo scelto. – Ike era una persona affabile, ma in quel momento nella sua voce c’era un tremito che indusse sua moglie ed entrambi i suoi figli a guardarlo per un lungo momento. Gli occhi della donna erano limpidi, di un colore castano chiaro.

    – E abbiamo fatto dei sacrifici – aggiunse lei.

    Ike annuì.

    Pensò che probabilmente si riferiva a sua madre. Sarah Rose aveva le abilità richieste per uno dei quattro posti messi a disposizione alle donne particolarmente qualificate che avevano superato l’età fertile. Ma quando Ike le aveva comunicato di averla fatta entrare nel programma, lei era sbottata: – Vivere dentro quell’orribile piccola cosa, quel cuscinetto a sfera che ruota nel nulla? Senza aria, senza spazio? – Lui aveva cercato di spiegarle i paesaggi artificiali, ma lei aveva liquidato tutto con un gesto. – Isaac, persino nella Cupola di Chicago, larga due chilometri, soffrivo di claustrofobia! Non se ne parla. Prendi Susan, prendi i ragazzi, lasciami qui a respirare smog, d’accordo? Vacci tu. Mandami delle cartoline da Marte. – Era morta di RMV-3 meno di tre anni dopo. Quando la sorella di Ike aveva chiamato per dire che Sarah stava morendo, Ike era già stato decontaminato; lasciare la Cupola Bakersfield avrebbe voluto dire sottoporsi di nuovo alla decontaminazione, oltre che esporsi al più recente e peggiore ceppo del virus in rapida mutazione che aveva stroncato finora quasi due miliardi di vite umane, più della sindrome da radiazioni lente e quasi a pari merito con le carestie. Ike non era andato. Poco dopo gli era giunto il messaggio di sua sorella: Mamma morta mercoledì sera, funerale venerdì alle 10. Lui spedì fax, comunicò via rete, chiamò al videofono ma non riuscì mai a prendere la linea, o sua sorella non volle accettare i suoi messaggi. Ormai era soltanto un dolore sordo. Avevano scelto. Avevano fatto sacrifici.

    I figli ora gli stavano davanti, i meravigliosi figli per i quali il sacrificio era stato compiuto, la speranza, il futuro. Sulla Terra, adesso, erano i figli a essere sacrificati. Al passato.

    – Abbiamo scelto – disse – abbiamo fatto sacrifici e siamo stati risparmiati. – La parola lo sorprese mentre la pronunciava.

    – Ehi – disse Noah – andiamo, Es, sono le tre, ci perderemo lo spettacolo. – E se ne andarono, il ragazzino filiforme e la ragazzina paffuta, fuori dalla porta e attraverso la Zona Comune.

    I Rose vivevano a Vermont. Uno qualsiasi dei paesaggi artificiali sarebbe andato bene per Ike, ma Susan disse che Florida e Boulder erano innaturali e che Urbania le avrebbe fatto dare di matto. Così la loro unità abitativa sorgeva di fronte alla Zona Comune di Vermont. L’Unità di Aggregazione verso cui erano diretti i ragazzi aveva una facciata bianca dalla guglia castigata e la proiezione dell’orizzonte era tutta colline boscose, azzurre e protettive. La luce nel Quadrante Vermont era il giusto numero di gradi fuori dalla verticale, diceva Susan: Tarda mattinata o primo pomeriggio, quando c’è sempre tempo per fare le cose. Quello era barare un po’ con la realtà, ma non in modo pericoloso, pensava Ike, e non diceva nulla. Avendo bisogno di sole tre o quattro ore di sonno, era sempre stato una persona dalle abitudini notturne e gli piaceva poter contare sul fatto che ora le notti avevano sempre la stessa lunghezza, anziché essere troppo corte in estate.

    – Ti dirò una cosa – disse a Susan seguendo i propri pensieri sui figli e sul lungo sguardo che lei gli aveva rifilato.

    – E sarebbe? – chiese lei guardando l’oloripresa che ora mostrava la tempesta di polvere dalla stratosfera, una sgradevole chiazza che andava alla deriva estendendo lunghi tentacoli.

    – Non mi piacciono i monitor. Non mi piace guardare giù.

    Gli costò qualcosa ammetterlo, dirlo ad alta voce; ma Susan si limitò a sorridere e rispose: – Lo so.

    A lui però serviva qualcosa di più. Forse lei non aveva capito davvero cosa intendesse. – Ogni tanto vorrei che potessimo spegnerli – disse, poi rise. – Non proprio. Però... è un vincolo, un legame, un cordone ombelicale. Mi piacerebbe poterlo tagliare. Che potessimo iniziare da zero. Da un foglio bianco e puro. I ragazzi, cioè.

    Lei annuì. – Sarebbe la cosa migliore – disse.

    – I loro figli lo faranno, comunque… Si sta svolgendo proprio ora una interessante discussione al P.A.Com. – Ike era un fisico-ingegnere, scelto personalmente da Maston come capo specialista in IA Schoenfeldt di Spes; al momento, il suo incarico prioritario tra gli otto lavori che svolgeva era capo del gruppo di Progettazione Ambientale per la seconda nave Spes attualmente in costruzione presso le Officine.

    – Riguardo cosa?

    – Al Levaitis ha proposto di non realizzare alcun paesaggio artificiale. Ne ha fatto proprio un gran discorso. Dice che è una questione di onestà. Usiamo ciascuna area in modo onesto, lasciamo che trovi da sola la propria estetica, invece di mascherarla in qualsiasi modo. Se Spes è il nostro mondo, accettiamolo così com’è. La prossima generazione… cosa significheranno per loro queste finzioni di scene terrestri? Molti di noi ritengono che non abbia torto.

    – Certo che ne ha – disse Susan.

    – Tu riusciresti a conviverci? Nessuna illusione di ampiezza, nessun orizzonte… niente chiesa del villaggio… Forse addirittura niente astroterriccio, solo metallo e ceramica nudi… lo accetteresti?

    – E tu?

    – Credo di sì. Potrebbe… semplificare… E come ha detto Al, sarebbe onesto. Ci distoglierebbe dall’aggrapparci al passato, lasciandoci liberi di puntare al presente e al futuro. Lo sai, è stato un viaggio così lungo che è difficile ricordare che ce l’abbiamo fatta – che siamo qui. E che stiamo già costruendo la prossima colonia. Quando ci sarà un grappolo di colonie in ogni optimum – o se decideranno di costruire la Grande Nave e tagliare i ponti col sistema solare – che rilevanza avrà per quelle persone qualsiasi cosa riguardi la Terra? Saranno autentici abitanti dello spazio. Ed è proprio quella l’idea – quella libertà. Non mi dispiacerebbe averne un assaggio proprio ora.

    – Mi sembra giusto – disse sua moglie. – Immagino di avere un po’ paura degli eccessi di semplificazione.

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