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Robot 90
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E-book316 pagine4 ore

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Fantascienza - rivista (251 pagine) - Cat Rambo - Walter Jon Williams - Giulia Abbate - Giampietro Stocco - Lorenzo Davia - Massimiliano Tosti - Jack Vance - Space opera americana - Utopia - Snowpiercer - L'ipotesi simulazione

Il destino a volte è strano, o forse le nostre scelte sono guidate dall’umore più di quanto crediamo. Fatto sta che in questo numero di Robot, preparato in uno dei periodi più cupi della nostra storia recente, il tema dominante è quello della morte e dell’elaborazione del lutto. È centrale in Lete, un capolavoro di un grande autore non apprezzato abbastanza, Walter Jon Williams, che racconta come si affronta la morte di un congiunto in un’epoca in cui la morte praticamente non esiste più.
Una morte vicina può essere devastante anche in un mondo già devastato di suo, come quello descritto da Giulia Abbate, e può essere la fine di un ciclo della nostra vita, come nel racconto di Giampietro Stocco.
A volte è una distruzione sistematica, come quella portata dai mostri e dagli alieni di Davia e Tosti, a volte è naturale, e a noi tocca occuparci di ciò che rimane. Che può riservare anche incredibili sorprese, come nella casa della nonna descritta da Cat Rambo.
A noi non resta, per consolarci, che offrirvi   qualche pagina dell’avventurosa biografia di Jack Vance: uno che, di sicuro, sapeva godersi la vita.

Fondata da Vittorio Curtoni, Robot è una delle riviste di fantascienza italiane più rpestigiose, vincitrice di un premio Europa e numerosi premi Italia. Dal 2011 è curata da Silvio Sosio.
LinguaItaliano
Data di uscita4 ago 2020
ISBN9788825412857
Robot 90

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    Anteprima del libro

    Robot 90 - Silvio Sosio

    Stop

    EDITORIALE

    Il colore della fantascienza

    Silvio Sosio

    Negli ultimi editoriali di Robot abbiamo affrontato temi piuttosto pesanti e anche abbastanza pessimisti, seppure cercando di farlo con un po’ di ironia. Forse è il caso, in questo editoriale estivo del dopo pandemia (o forse dell’intervallo tra la prima e la seconda ondata… ecco, ricado subito nel pessimismo, ignoratemi please), di alleggerire la situazione occupandoci di uno di quei grandi problemi che angustiano gli appassionati di fantascienza da decenni, e che è del tutto frivolo da ogni possibile punto di vista: il colore della fantascienza.

    Da dove nasce l’idea di dare un colore ai generi letterari? Usare dei codici cromatici per catalogare le cose è un’abitudine comune (almeno prima che si sviluppasse la sensibilità nei confronti della discromatopsia). Abbiamo fatto qualche rapida ricerca sui colori usati per distinguere i generi letterari all’estero, ottenendo parecchie tabelline tutte diverse una dall’altra. Nemmeno, per dire, il rosa abbinato al romance o il nero all’horror.

    In Italia la distinzione cromatica tra i generi è stata introdotta negli anni venti da Mondadori, che aveva dato alle sue collane di narrativa i nomi di colori. Una di queste, I libri gialli dedicati alla narrativa poliziesca avrebbe mantenuto il colore nel titolo, diventando poi Il Giallo Mondadori che esce ancora oggi. Un altro genere che prende il nome da una collana di quell’epoca è il romance, spesso chiamato in Italia romanzo rosa, dal nome della collana, I libri rosa, edita da Mondadori prima della Seconda Guerra Mondiale. Delle altre collane non c’è stato un seguito ma vale la pena ricordarle. I romanzi di Simenon erano raccolti nei Libri neri; la collana dedicata all’avventura erano I libri verdi. C’erano poi I Libri azzurri, una collana di riedizioni di romanzi soprattutto italiani (potremmo definirla un’antesignana degli Oscar); c’era anche qualche titolo fantastico (almeno uno è elencato nel Catalogo Vegetti) ma non si può certamente definire una collana di narrativa fantastica. Romanzi horror trovavano posto nella collana I romanzi della palma, mentre molti romanzi fantastici o addirittura di fantascienza andavano nella collana di narrativa straniera, La Medusa, dove uscì anche Cronache marziane. Il colore di queste copertine era il verde.

    Non c’era ancora comunque una collana abbastanza chiaramente dedicata al nostro genere come lo erano i Libri gialli. La prima collana di fantascienza italiana come è noto è stata Scienza Fantastica, uscita nell’aprile del 1952. Non c’è un colore dominante, se non il giallo che fa da sfondo a tre copertine non consecutive; così come non c’è un colore dominante, almeno all’inizio, nelle due collane Urania che escono alla fine dello stesso anno. Entrambe hanno un tassello colorato, che cambia di numero in numero: verde, giallo, rosso, più raramente blu. Nei Romanzi di Urania invece è sempre nero, nei primi numeri, il quadrato a sinistra che contiene il numero della collana; il tassello diventa giallo dal numero 11 e tale resta fino al numero 172.

    Attenzione, perché qui, dal numero 173 del marzo 1958 Urania decide che il rosso sarà il colore dominante. Non solo il riquadro col nome della collana ma anche la costina, e appare un bordo sulla sinistra. Se consideriamo che il giallo precedente non poteva essere il colore della fantascienza, essendo già, come dire, occupato da un altro genere, questa crediamo si possa indicare come la prima vera indicazione di un colore distintivo.

    Il rosso è anche il colore dell’altra popolare collana da edicola, Cosmo edito da Ponzoni, che ha una grafica simile a quella di Urania con un riquadro rosso in alto a sinistra. Lo conserverà per tutta la sua storia, 201 numeri dal 1957 al 1967.

    Forse anche per distinguersi dal concorrente, il quadro rosso di Urania non dura moltissimo. Quattro anni dopo, nel maggio 1962, la grafica cambia completamente e il riquadro rosso diventa un rombo che cambia colore a ogni numero. Già due anni dopo però i rombi devono dividere la copertina con il famoso cerchio rosso, proveniente in effetti dal Giallo Mondadori che lo esibiva fin dai tempi dei Libri gialli, negli anni Trenta.

    Dal 1967 il rombo viene abolito e compare la riga rossa con la scritta Urania in Helvetica, grafica che accompagnerà la rivista per tutta la gestione Fruttero e Lucentini fino al 1994. I colori della fantascienza a questo punto, almeno sulla sponda mondadoriana, sono chiaramente il bianco e il rosso.

    Dopo la parentesi delle copertine pocket da libreria, per buona parte degli anni duemila Urania vivrà con una vistosa banda arancione, per tornare al classico cerchio rosso dal numero 1587 del 2012.

    Fin qui abbiamo individuato un buon candidato al ruolo: il rosso. Dal 1973 però sempre in casa Mondadori si comincia a differenziare gli Oscar – la collana di ristampe economiche – di genere fantascienza con un bollino azzurro sulla costina e una testatina azzurra in copertina. L’uso dell’azzurro lo si ritrova anche alla nascita della collana Oscar Fantascienza nel 1989.

    Alcuni considerano l’azzurro il colore della fantascienza perché lo si identifica col cielo, e il colore venne scelto in un sondaggio proposto da Ernesto Vegetti negli anni Novanta, in seguito al quale decise di etichettare le opere di fantascienza sul suo catalogo con un bollino azzurro. Non ci sono molte ricorrenze dell’uso di questo colore nell’editoria, va notato però che quando la casa editrice di Roma Fanucci decide di scendere in campo con una collana di libri di fantascienza, sulla scia della Cosmo dell’Editrice Nord, usa l’azzurro come colore dominante per i primi quattro numeri.

    La grafica della collana poi cambia radicalmente (in meglio) e dal numero 5, per due anni, sarà caratterizzata da una testata rossa. Ancora il rosso, quindi, che però dal numero 27 del 1977 cambia in argento e tale resterà fino alla fine.

    Ecco quindi il terzo colore: l’argento, che era stato introdotto, naturalmente, dalla serie Cosmo. Collana di fantascienza, più popolarmente nota proprio come Cosmo Argento, in contrapposizione alla Cosmo Oro che pubblicava opere già edite o di maggior rilevanza.

    La collana manterrà il colore almeno sulla costina per tutti i suoi oltre 300 numeri e 35 anni di storia. Anche se i fan del rosso possono notare che dal numero 151 al numero 312 le copertine hanno un bollino o un ritaglio di colore rosso.

    L’argento in realtà non era alieno neanche nel mondo mondadoriano. Lo vediamo comparire su Urania per la prima volta nel 1976 con L’uomo che cadde sulla Terra di Walter Tevis, numero 694, e lo vediamo periodicamente tornare in occasione di titoli importanti o numeri speciali. Nel 1995 Mondadori vara addirittura una sottocollana, Urania Argento (o meglio Uraniargento, come da grafica). Viene usato anche l’oro (già visto nella Cosmo Oro) per i numeri speciali nell’era della banda arancione, e poi il blu negli odierni Urania Jumbo.

    La rivista Robot nel 1976 si propone con una grafica che richiama quella dell’Urania cerchio rosso dell’epoca; sotto la testata corre una banda rossa e nera su fondo bianco. La stessa banda rossa e nera la troviamo in Robot dopo l’abbandono di Curtoni, nel numeri dal 30 al 40, quando però il fondo passa all’argento. La nuova edizione di Robot, uscita dal 2003, ripropone la storica banda nera e rossa su fondo bianco.

    Nel 1996 nasce il sito Fantascienza.com, che adotta il rosso come colore dominante.

    Nel 2005 nasce Odissea Fantascienza, collana di Delos Books diretta inizialmente da Gianfranco Viviani; l’argento è il colore dominante (con esplicito riferimento alla Cosmo Argento creata da Viviani stesso negli anni Settanta). Dal numero 52 la grafica cambia diventando nera con titoli rossi. Nel 2020 viene lanciata la nuova collana Odissea Argento, che ripropone la costina argento simili alla grafica originale di Odissea Fantascienza. Le collane ebook di fantascienza di Delos Digital hanno quasi sempre una costina a strisce rosse.

    Illustrazione di Luca Vergerio

    NARRATIVA

    Carpe splendorem

    Cat Rambo

    Traduzione di Marco Crosa

    Cat Rambo (Bryan, Texas, 1963) proviene dal variegato mondo del fandom, ma negli ultimi quindici anni si è guadagnata un posto tra i professionisti della fantascienza, sia come curatrice di antologie e riviste (è stata per sei anni editor di Fantasy Magazine e per quattro presidente della Science Fiction and Fantasy Writers of America) sia come autrice, con due romanzi, cinque antologie e oltre un centinaio di racconti pubblicati.

    Ancora poco nota in Italia (di suo è uscito forse solo La passione della macchina da caffè, su Robot 68), la sua conoscenza può essere approfondita visitando la sua pagina ufficiale http://www.kittywumpus.net/blog/, ma una curiosità possiamo soddisfarla subito: Cat sta per Catherine e, no, Rambo non è uno pseudonimo. (FL)

    Carpe splendorem, diceva sempre mia nonna Gloria. Goditi il luccichio.

    Ed era quello che ricordavo meglio di lei, il luccichio: uno sfolgorio di cristallo di rocca, un effluvio di Patou Joy, rossetto come un vessillo rosso sulla sua bocca. E sotto a tutto, una vecchietta minuta e instancabile coi capelli d’argento e una carnagione pallida da vampiro.

    Non che fosse davvero un vampiro, ovviamente. Ma ai suoi tempi, nel giro di Vegas, Gloria Aim era uscita con tutti quelli che contavano. Celebrità, presidenti, giornalisti, tutti assistevano al suo spettacolo allo Sparkle Dome, la guardavano mentre si esibiva in cilindro nero e calze a rete, facendo apparire fiamme e colombe (mai i trucchi con le carte, che detestava), facendo parlare i fantasmi con le persone amate nel pubblico. E quando usciva dal palcoscenico se ne andava in un lampo scintillante, come una regina delle fate che scendesse dal trono.

    Era un’accumulatrice impenitente.

    Mi asciugai il sudore dalla fronte con l’orlo della maglietta e attaccai un’altra pila di riviste. La polvere si sollevò a riempirmi le narici e farmi starnutire, poi si depositò ricoprendo di sporcizia la peluria dei miei avambracci. In un angolo c’era qualcosa che marciva; avrei fatto quel lato dopo aver liberato un sentiero per raggiungerlo, e nel frattempo avrei respirato dalla bocca.

    Una volta quella era intesa come camera per gli ospiti, ma era stata occupata da una truppa di bambole con la testa di porcellana ammucchiate su cumuli di riviste e giornali dalla carta resa fragile dal tempo. Niente pipì di gatto: in quelle stanze sul retro, chiuse da almeno un paio di decenni, me l’ero risparmiata.

    Nonna aveva comprato la casa quando era al culmine della sua prima fortuna. Era appena entrata nell’ambiente dei prestigiatori, una donna di Brooklyn che si era allenata da sola alla destrezza di mano e aveva studiato sotto la più famosa prestigiatrice del suo tempo, Susan Day. La pila di riviste più vicina, in effetti, che si sbriciolava sotto le mie dita, ritraeva in copertina in cima la nonna e la sua mentore: un manifesto della loro breve tournée congiunta, subito dopo la Seconda guerra mondiale. La più anziana e fascinosa Day, i capelli biondi raccolti un elegante crocchia e occhi azzurri come turchesi; nonna splendida e luminosa non solo per i cristalli di rocca che le ornavano il petto, ma con lo sguardo scintillante e un sorriso così largo da stirarle la bocca.

    Per quanto sfogliassi verso il basso, la pila conteneva decine di copie dello stesso numero. Uno sciame di pesciolini d’argento zampettò via quando sollevai l’ultima. Dovevo sgombrare tutta la stanza prima di partire all’assalto con il mio arsenale di insetticida.

    Piovvero coriandoli ingialliti quando misi la pila nel mucchio da insaccare e buttare via. Ormai avevo imparato che quella carta così fragile significava che lo stimatore avrebbe scosso il capo con rammarico e mormorato: Troppo rovinate, signorina Aim.

    Come in ognuna delle sette stanze che avevo ripulito fino a quel momento, suddivisi il contenuto in vari mucchi. Da buttare era di gran lunga il più grande. Da far valutare conteneva cose interessanti a parte la quantità di bambole collezionate dalla nonna. Da tenere era in effetti suddiviso in due mucchietti, uno per mia madre e uno per me.

    Un oggetto dopo l’altro, da smistare e valutare. Vecchie riviste e incarti di caramelle svolazzanti. Così tanti vestiti, per lo più assurdamente formali, irrigiditi d’amido antico. Oggetti di scena ammucchiati sopra borse ancora intonse di paccottiglia assortita prese ai mercatini parrocchiali. Boccette di profumo mezze piene e portacipria pieni di polvere dolciastra.

    E poi c’erano le stranezze: un ricamo di capelli umani, raffigurante un castello su una rupe; una gigantesca sfera di cristallo larga quasi mezzo metro; un banjo meccanico che suonava da solo, completo di una libreria di canzoni d’anteguerra tra cui scegliere; un cesto pieno zeppo di ventagli di sandalo.

    La cosa che marciva risultò essere un mucchio di pellicce: quando lo smossi, rilasciò un tanfo di crauti rancidi che mi fece scappare in corridoio per un po’, appoggiata alla carta da parati ingiallita a respirare aria più pulita.

    La collezione di bambole valeva un bel po’, forse, mi avevano detto. Ma nulla sulla scala del colpo di fortuna finanziario che avevo sperato. La nonna era stata ricca, anche se spendeva con criterio, eccezion fatta per quello strano guazzabuglio di casa. Dov’erano finiti tutti i soldi?

    E perché aveva conservato tutto? Pensai che forse era un ritorno ai suoi anni d’infanzia, che erano stati incerti e pieni di traslochi. A sentire le sue storie il bisnonno era stato un truffatore, sempre in procinto di essere scacciato dalla città. Più di una volta erano dovuti partire nel cuore della notte, abbandonando tutto quello che non entrava in una valigia. Quella poteva essere una reazione al ricordo.

    Psicanalizzare la nonna defunta non aveva senso, comunque. Una volta insaccate e portate fuori le pellicce marce, la stanza era molto più tollerabile. Continuai la ricerca, passando al setaccio gli ultimi mucchi prima di esaminare il tappeto inaridito che stava sotto, così essiccato che temetti si sarebbe sbriciolato al tentativo di passarvi sopra l’aspirapolvere.

    Il cellulare mi vibrò sul fianco. Lo tirai fuori dalla tasca dei pantaloncini e sbirciai lo schermo. Mia madre.

    Feci un bel respiro prima di accettare la chiamata. – Sì? – dissi.

    – Vorrei che avessi scelto diversamente – cominciò lei, riprendendo lo stesso discorso che andava avanti da una settimana, fin da quando avevo detto: A dire il vero, mi sta bene la seconda opzione alla lettura del testamento. – È ridicolo. Forse potresti dir loro che hai cambiato idea, che preferiresti i soldi.

    – Non si sa mai, potrei anche trovare qualcosa di meraviglioso – dissi io, provando una nuova tattica. Se riuscivo a convincerla che poteva esserci un tesoro sepolto tra i mucchi e i cumuli che riempivano quell’enorme amalgama di tre case, mi avrebbe sostenuta.

    Lei sibilò d’impazienza. O almeno, per lei e la nonna era sempre stato il significato di quel verso strozzato. A mia madre piaceva far finta di essere l’antitesi della nonna, ma la verità era che si somigliavano più di quanto entrambe avrebbero voluto ammettere. Avevo persino individuato un manierismo o due che non consideravo mio, ma loro, che si era insinuato nel mio modo di parlare. – Hai trovato qualcosa? – volle sapere.

    – Non ancora – risposi. – Ma ho solo cominciato a grattare la superficie. Non hai idea di quanta roba sia riuscita a stipare qui dentro. È piuttosto sbalorditivo. – Diedi un colpetto col piede al mucchio che stavo smistando, e quello si rovesciò di lato con un effluvio di cedro e calzini vecchi che per poco non mi diede un conato.

    – Perché ti intestardisci così, Persephone?

    – Ho trent’anni. Posso fare le mie scelte. Me le ha offerte la nonna. – Esitai prima di aggiungere: – Non tocca a te decidere – sentendo le parole allargare la distanza tra noi, quando mia madre era già così lontana.

    Lei riagganciò senza una parola. Rimasi a guardare il messaggio chiamata terminata prima di asciugarmi di nuovo la faccia, sentendo sulle labbra un sapore di sale. In quel caldo infernale sudavo come una fontana. Era tutto lì.

    Quando mi diplomai e la nonna disse che non avrebbe pagato l’università, implorai mia madre perché intercedesse. – È per causa tua – dissi. – Non ti chiedo di dirmi cos’è successo. Sono cose tra voi due. Io non scelgo da che parte stare. Ma se tu andassi da lei…

    Mia madre scosse subito la testa, accantonando nervosamente ogni possibilità. Le sue mani, agili e dalle dita lunghe come quelle della nonna, come le mie, si torcevano davanti a lei come per firmare una negazione.

    Abbassai il braccio sul tavolo della cucina, e subito me ne pentii. Abitavamo in un appartamento sopra una tavola calda; odorava sempre di vecchi hamburger e ogni superficie si ricopriva di una patina oleosa e appiccicosa che si attaccava alla pelle come una pellicola di cellofan. Alla porta accanto, una delle tre laotiane che vivevano lì attaccò a strillare con le altre in uno dei loro interminabili litigi.

    – No, no – disse mia madre, le parole che rotolavano spinte dalla disperazione. Il solo accenno alla nonna era bastato a mandarla nel panico. – Non parliamone più. Ma pensa a cos’altro potresti fare. Hai scritto tutti quei saggi bellissimi per la rivista di letteratura; avranno di certo qualche borsa di studio per gli studenti promettenti. O magari potresti arruolarti nella Guardia Nazionale: ti pagherebbe l’università e sapresti già cosa fare appena finiti gli studi!

    – Mamma – scossi la testa, imitando il suo gesto al rallentatore. – Non credi che abbia già esaminato ogni altra opzione? Ormai non c’è più tempo per fare domanda di borsa di studio. Dovrei rimandare la scuola di un anno…

    – E allora rimandala! Puoi vivere qui, trovare un lavoro, mettere da parte dei soldi…

    – No! – Avevo visto troppa gente rimandare di un anno, poi di due, poi di tre. E poi per sempre. C’è sempre qualcosa che si mangia i risparmi che hai. Dovevo afferrare la possibilità finché potevo. Avevo visto il magro stipendio che mia madre guadagnava come segretaria svanire ogni mese come neve al sole negli anni dopo che la nonna smise di sovvenzionarci. C’era sempre qualcosa: un tetto da riparare, l’intervento di ulcera di mia madre, mille problemi con la macchina.

    Mi ero messa sotto e l’avevo affrontato facendo dei lavoretti part-time, ma non bastava mai. Non avanzavano mai soldi da mettere da parte per l’università. E a risparmiare non avevo mai pensato, contando sempre che me l’avrebbe pagata la nonna. Non mi aspettavo di vivere nel lusso – ero più che disposta a continuare a lavorare – ma senza i suoi fondi ero persa.

    In quel momento mi sarei messa a piangere, ma a cosa sarebbe servito, se non a fare irrigidire mia madre ancor di più?

    Così andai a trovare mia nonna.

    La sua casa era sempre la stessa: una specie di tenuta composta da tre abitazioni cresciute insieme. Niente cortile erboso, ma un complesso paesaggio di cactacee e altre piante desertiche: enormi agavi striate e saguari troppo cresciuti che un giardiniere aveva piantato per la nonna prima che io nascessi, molto prima che chiunque usasse termini come xeriscaping o tolleranza alla siccità.

    Due delle case erano partite con un solo piano, poi avevano acquisito passeggiate sui tetti, gazebo e una costruzione di capanni addossati uno sull’altro che non sarebbe mai sopravvissuta in una zona che avesse un vero clima. La terza e ultima aggiunta al mélange era una villa Tudor a tre piani sul lato nord. Io entrai dall’ingresso della prima casa, che era dove la nonna aveva gran parte delle stanze che usava ogni giorno.

    Sapevo che era un’accumulatrice. Da piccola avevo trascorso tantissimi pomeriggi d’estate a giocare nel vasto complesso, lasciata a briglie sciolte dalla nonna, che mi mandava via per passare il pomeriggio a praticare la prestidigitazione o a disegnare armadi truccati nel suo grande laboratorio, che riempiva un garage da tre auto ed era dove avevo costruito la mia prima casetta per gli uccelli, libreria e bauletto di legno.

    La porta principale, sormontata da una lunetta di vetro piombato color rosso e oro, risuonò sotto la mia mano. Un tempo sarei semplicemente entrata. Da qualche parte avevo una chiave, ma lei cambiava le serrature ogni anno, benché non avesse mai spiegato il perché. Al di là di quello, ogni serratura aveva la sua chiave individuale, perciò dovevi sapere dove andava la tua.

    Dentro, però, poche porte erano chiuse a chiave, a parte quella del sancta sanctorum della nonna, uno studio pieno di libri che attorniava una gigantesca scrivania di ebano e madreperla cosparsa di diagrammi e corrispondenza. Solo la nonna e i suoi segretari avevano quella chiave: forse era il motivo dell’annuale cambiamento di serrature, sebbene si potesse pensare che in tal caso sarebbe successo solo quando uno di loro se ne andava.

    Usai il batacchio, uno stampo decorato di due draghi cinesi. Nonna adorava il misticismo e caricava il suo spettacolo di quanti più simboli poteva. Molti dei suoi ammiratori assistevano più volte ai suoi spettacoli, sforzandosi di decifrare il potpourri di indizi arcani e cabalistici che lei era riuscita a incorporare nei suoi costumi e attrezzi di scena.

    La porta si aprì con una zaffata di incenso muschiato. Mi ero aspettato un segretario, invece era la nonna in persona. Si era rimpicciolita: se una volta mi arrivava alle orecchie, adesso era alta fino alle spalle, ma aveva ancora il portamento della prima sbandieratrice a una parata.

    – Entra – disse, come se mi avesse vista solo il giorno prima. Si girò e si mise a camminare, ovviamente aspettandosi che la seguissi.

    Lo feci ed entrai nell’atrio, che era una delle mie stanze preferite. L’enorme finestra a bovindo mostrava una veduta del giardino di cactacee all’esterno, spezzato e riflesso in mille modi diversi dalla cortina di cristalli appesi a lenze trasparenti. Il consunto velluto color cobalto dei mobili sfoggiava nel tessuto un luccichio setoso, pesciolini fluorescenti che guizzavano sulla superficie dell’oceano. Era lì che la nonna riceveva spesso i visitatori, senza permettere loro di addentrarsi nella casa.

    Però non lo ricordavo così angusto, stipato fino a rasentare la claustrofobia. I

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