Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Robot 94
Robot 94
Robot 94
E-book344 pagine4 ore

Robot 94

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Fantascienza - rivista (240 pagine) - Versione digitale di Robot 93 con racconti di Meg Elison - Sofia Samatar - Kristine K. Rusch - Samuele Nava - Diego Lama - Ilaria Pasqua - Fantascienza e religione - 1984 e il controllo della realtà - Le serie peggiori - "Robot 94" a cura di Silvio Sosio


Accettereste di prendere una pillola che a fronte di un rischio di morte del 10% vi permette di perdere per sempre tutto il peso in eccesso? È una domanda più difficile di quanto sembri, soprattutto se la deve affrontare chi ha serie difficoltà a convivere con il proprio corpo. Ci prova Meg Elison nel racconto finalista a Hugo e Nebula La Pillola. Ma c’è chi ha problemi ancora più difficili da risolvere. Come l’uomo che continua ad ammassare cadaveri nella palune nel racconto Il lampo di Diego Lama: è davvero un assassino? E perché tutti hanno i cinque minuti di paradiso garantiti dagli alieni eccetto la protagonista del racconto di Ilaria Pasqua? Tante domande: per avere una risposta si può interpellare un avvocato, magari uno esperto in tutto il diritto galattico come la protagonista di Cause impossibili di Kristine Rusch, o si può sempre chiedere a Google, pardon, Globy; ma attenti a cosa chiedete, avverte Samuele Nava. Provate per esempio a chiedergli cosa sono le selkie, avrete una definizione, ma solo leggendo il racconto di Sofia Samatar saprete cosa si prova a vivere quella condizione.


Fondata da Vittorio Curtoni, Robot è una delle riviste di fantascienza italiane più rpestigiose, vincitrice di un premio Europa e numerosi premi Italia. Dal 2011 è curata da Silvio Sosio.

LinguaItaliano
Data di uscita11 gen 2022
ISBN9788825418798
Robot 94

Leggi altro di Silvio Sosio

Autori correlati

Correlato a Robot 94

Ebook correlati

Fantascienza per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Robot 94

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Robot 94 - Silvio Sosio

    L’EDITORIALE

    Uccello da guardia

    Silvio Sosio

    Il 2 giugno 1959 veniva dato l’avvio, negli Stati Uniti, all’operazione Water The Country, annaffia il Paese. Erano passati tre anni da quando il presidente Eisenhower aveva approvato il progetto del direttore della CIA, Allen Dulles. Ventidue ingegneri della Boeing avevano lavorato per due anni nell’Area 51 per realizzare un nuovo modello di bombardiere B-52, denominato B-52B, nel quale i compartimenti delle bombe erano sostituiti da vasche da duemila litri.

    Gli aerei erano dotati di un complesso sistema di tracciamento radar situato sul muso dell’aereo, che consentiva di individuare grossi stormi di uccelli anche da trecento chilometri di distanza. Erano dipinti di nero per non essere visti nel cielo notturno. Non emettevano nessun tipo di segnale luminoso ed erano attrezzati con dispositivi per cancellare il rumore dei motori. Le taniche a bordo degli aerei erano riempite con un composto pensato per diffondere un virus letale solo per gli uccelli. Il 2 giugno 1959 i B-52B presero il volo per la prima volta, cominciando a riversare il composto sugli Stati Uniti, da tremila metri di altezza. Era solo l’inizio di un’operazione che sarebbe andata avanti fino al 1976, con lo scopo di uccidere tutti gli uccelli presenti sul territorio degli Stati Uniti. E sostituirli con sofisticati robot dotati di telecamere e microfoni, per tenere sotto sorveglianza tutto il paese.

    Leggere queste righe può sembrare pazzesco. Chi può davvero credere che gli uccelli non siano reali, ma siano macchine programmate da qualcuno? Pensateci. Perché si fermano sempre sui fili della luce, se non per ricaricare le batterie?

    Se visitate il sito birdsarentreal.com troverete prove ed elementi a sostegno di questa teoria. Troverete fotografie, schemi tecnici, persino video interviste con ex dirigenti della CIA in pensione, desiderosi di togliersi un peso dalla coscienza confessando il loro misfatto.

    Il movimento Birds Aren’t Real è stato lanciato nel 2017 da Peter McIndoe, oggi ventitreenne. L’articolo del New York Times che riporta la vicenda non lo menziona, ma crediamo che l’ispirazione a McIndoe possa averla data il racconto Uccello da guardia di Robert Sheckley. Dopo aver fatto la parte del cospirazionista, negli ultimi tempi McIndoe ha ammesso di aver inventato tutto dal nulla, per dimostrare che era possibile creare una cospirazione del tutto assurda e trovare migliaia di persone pronte a crederci. Oggi il suo sito contiene tutti i materiali sul complotto, ma anche un negozio che vende magliette.

    Cosa possiamo dire oggi di Birds Aren’t Real? Possiamo dire che McIndoe ha sprecato un sacco di tempo. Dopo il 2017 c’è stato il 2018, il 2019 con le elezioni americane, il 2020 con la pandemia, il 2021 con i vaccini. E oggi possiamo, dobbiamo dirglielo: Peter, hai sprecato un sacco di tempo. Fare siti ad hoc, girare filmati, trattarli per farli sembrare d’epoca, disegnare falsi documenti e schemi tecnici. Uno spreco. Caro Peter, oggi ci sono legioni di persone su internet pronti a credere che il presidente degli Stati Uniti sia stato arrestato dai militari un anno fa e sostituito con un robot telecomandato da Donald Trump. Ci sono folle sui social che sanno con certezza che i camion militari di Bergamo erano vuoti e che le ambulanze giravano apposta facendo il giro di pronto soccorsi vuoti per scatenare il panico nella popolazione. Ci sono schiere pronte a giurare che la cugina del loro conoscente ha avuto un neonato con la pelle nera dopo essersi vaccinata. Caro Peter, non c’era bisogno di sbattersi così tanto per rendere credibile la tua truffa, perché l’essere credibile non è un requisito necessario. Non lo è più, per un sacco di gente.

    Le teorie del complotto non sono una novità, sono fiorite più o meno attorno tutti gli eventi più sentiti del ventesimo secolo, dalla morte di Kennedy agli avvistamenti di UFO, e hanno avuto uno slancio dopo l’11 settembre e con l’avvento di internet. È coi social, dalla metà degli anni Duemila, che si passa al livello successivo. Se l’idea del complotto prevedeva un potere occulto che nascondesse la verità ai cittadini, negli ultimi anni lo stesso potere occulto non è più necessario. Il deep state, i poteri forti sono ancora un nemico ma solo uno dei tanti. Nel vasto oceano dei contro tutto vanno bene anche scienziati, medici, giornalisti, intellettuali; chiunque parli sapendo (più o meno) di cosa sta parlando.

    Il patrimonio mitologico di questo popolo è variegato e non è minimamente disturbato dal fatto che le teorie che si sovrappongono siano spesso in totale contraddizione tra loro. La stessa persona (anche, per esempio, pseudo filosofi visti non di rado in tv) un giorno può sostenere che il Covid non esiste, che non è più grave di un raffreddorino, e il giorno successivo che si cura assumendo antivermi per cavalli. Che i vaccini non hanno nessun effetto; salvo essere mortali il giorno dopo.

    La pandemia ha fatto esplodere il fenomeno oltre il livello di allarme. Allarme che deriva anche dal fatto che questi movimenti si mescolano, si compenetrano con altri; dalla scarsa fiducia nei vaccini si passa alla lotta sociale contro il Green Pass, alle minacce di morte a chi invita a vaccinare i bambini, agli atti di boicottaggio dei centri vaccinali attuati addirittura da plotoni di carabinieri; e chi è abituato a manipolare gli ingenui, come gli attivisti di estrema (o anche non così estrema) destra, coglie l’occasione per soffiare sul fuoco, e dai tweet si passa alla violenza vera.

    Ma non facciamo l’errore di pensare che tutte queste persone la pensano così perché non hanno fiducia nei vaccini. Qualcuno c’è senz’altro. Ma il grosso è semplicemente contro a prescindere. Sono le stesse persone disposte a credere che la Terra sia piatta o che l’uomo non sia mai andato sulla Luna, e lo pensano non sulla base di idee o di prove, ma per un semplice principio: quello che viene loro detto è una menzogna, quindi deve essere vero il contrario.

    Ho letto articoli molto interessanti che spiegano il complottismo parlando del bias di conferma, dei nessi di causalità apparenti, della tendenza a vedere un’intenzionalità in qualunque evento, anche naturale. Tutti elementi che esistono, e che è molto istruttivo imparare a riconoscere, ma che oggi sembrano superati. Non c’è la necessità di meccanismi che facilitino il convincimento, basta qualcuno che dica qualcosa che va contro la versione ufficiale e subito viene creduto e rilanciato. Non serve più la fiducia nella fonte, basta e avanza la sfiducia nella versione accreditata.

    E questo è un disastro. Non solo perché sempre più gente crede a cose assurde, rendendo impossibile uno sforzo comune, ma anche perché rende sempre più difficile opporsi alla cosiddetta versione ufficiale. Per fare un esempio, le recenti disposizioni sulla necessità di Green Pass potrebbero e dovrebbero, a mio avviso, essere discusse. Ma dire qualcosa a questo proposito vuol dire confondere la propria voce con altre mille – anche da parte di altri filosofi, questa volta senza virgolette, che in teoria dovrebbero sapere di cosa parlano – che alle critiche di principio uniscono proprie considerazioni scientifiche che dimostrano ingenuità, ignoranza, difficoltà a comprendere concetti anche piuttosto semplici. Svilendo anche le critiche serie.

    Viviamo in una distopia che nessuno libro distopico avrebbe mai potuto immaginare, e se l’avesse fatto sarebbe stato scartato come irrealistico. Sarà davvero interessante, per dirla con un eufemismo, vedere come evolverà questa situazione. R

    Illustrazione

    Illustrazione di Matteo Di Gregorio

    NARRATIVA

    La Pillola

    Meg Elison

    Traduzione di Annarita Guarnieri

    Illustrazione Nessuno ormai si stupisce se la fantascienza contemporanea pullula di tematiche legate alle identità razziali, sessuali o etniche. Ci voleva la brillante scrittrice e saggista Meg Elison per colmare l’ultimo (?) vuoto: parlare della diversità di quella minoranza costituita dalle persone grasse (senza giri di parole, come fa l’autrice stessa). Nonostante tenga una pagina personale con tanto di blog (megelison.com), le notizie su di lei disponibili in rete sono frammentarie. Le fonti specificano quando è nata (1982) ma non il luogo esatto; che da piccola ha vissuto in Europa e in una dozzina di Stati USA in quanto figlia di militari, e non aveva amici a causa dei continui spostamenti; che, naturalmente, è stata vittima di bullismo per il suo aspetto fisico; che ha vissuto in quartieri dove la violenza, inclusi gli omicidi, non erano una rarità; che ha subito maltrattamenti in famiglia; che a un certo punto ha interrotto gli studi per poi riprenderli più tardi riuscendo anche a laurearsi; che si definisce queer essendo uscita solo con donne fino a una certa età ma oggi ha un marito con cui vive nella baia di San Francisco. Ma tutto questo ha un interesse relativo. Molto più interessante sarebbe verificare quanto di profetico c’è nella sua trilogia di romanzi inedita da noi, nota come Road to Nowhere, iniziata con The Book of the Unnamed Midwife (premio Philip K. Dick nel 2014) e proseguita con The Book of Etta (2017) e The Book of Flora (2019), scritta in tempi non sospetti e ambientata in un mondo post-pandemia. (FL)

    Mia madre ha preso la Pillola prima che chiunque sapesse della sua esistenza. Partecipava sempre a tutti gli studi dell’università, dicendo che lo faceva perché si annoiava, ma io credo fosse perché le facevano domande su di lei e ascoltavano con attenzione le risposte, cosa che nessun altro faceva.

    Si era sottoposta a una quantità di studi clinici, quelli sul sonno e sui medicinali contro le allergie, e aveva anche cercato di iscriversi alla sperimentazione della prima spirale intrauterina stampata in 3-D, ma le avevano detto che era troppo vecchia per prendervi parte. Ricordo che era stata furente per giorni e che in seguito, quando tutti i partecipanti a quello studio avevano sviluppato un fibroma, era apparsa molto compiaciuta della cosa. Non aveva mai provato a suggerire che mi sottoponessi io al test al suo posto perché sapeva che non andavo a letto con nessuno. Era davvero imbarazzante che la mia stessa madre non mi ritenesse abbastanza carina da poter avere un appuntamento a sedici anni, ma cercavo di non dare peso alla cosa. Comunque, sono lieta di non aver sviluppato un fibroma e in ogni caso non ho mai voluto essere una cavia da laboratorio, soprattutto quando gli studi più popolari (quelli in cui mia madre si lanciava davvero a testa bassa) erano relativi alle diete.

    Lei si iscriveva a tutti. C’erano stati i monitor digitali per il controllo delle calorie che aveva portato ai polsi e alle caviglie per sei mesi di fila (la cosa mi aveva davvero fatto levare gli occhi al cielo, ma se non altro non ne aveva parlato in continuazione), i fili simili a liquirizia trasparente che erano fatti di un qualche tipo di super-cellulosa e che avrebbero dovuto accumularsi nel rivestimento del suo stomaco, fornendole l’equivalente non chirurgico di un bendaggio gastrico ma che avevano il solo effetto (su di lei e su chiunque altro non aveva invece ricevuto il placebo) di provocare un’incredibile costipazione (questa sperimentazione aveva generato un fiume inarrestabile di lamentele, tanto che per settimane non avevo potuto invitare a casa nessuno per timore che lei improvvisamente si mettesse a parlare ai miei amici della sua difficoltà a defecare). Pillole su pillole su pillole che le davano palpitazioni cardiache, le facevano cadere i capelli oppure (in un’occasione memorabile) inducevano allucinazioni psicotiche. Se c’era un modo per smettere di essere grassi lei lo provava. Tentava qualsiasi cosa.

    Fra una sperimentazione e l’altra faceva le solite diete. Mangiare come un cavernicolo, come un coniglio, fare sette piccoli pasti, digiunare un giorno alla settimana. Bottiglie di aceto di mele coperte di polvere erano riposte nell’angolo di fondo di ogni armadietto di cucina, dietro a baluardi di scatole di Fig Newmans e di Ritz.

    Cercava di metterci tutti a dieta e di convincerci a fare passeggiate serali di famiglia, buttava via tutto il cibo spazzatura e ci faceva promettere di amare di più noi stessi. Amare te stesso significa piangere ogni mattina sulla bilancia e poi tirare su con il naso mentre mangi mezzo pompelmo, giusto? Niente ha attecchito o fatto davvero la differenza. Noi tutti le abbiamo opposto resistenza, mangiando nel segreto della nostra stanza o fuori di casa. Mentre cercavo in auto le mie cuffie, ho trovato un pacchetto di tacos al pesce che papà aveva ficcato sotto il sedile del conducente, poi mia madre mi ha sorpresa a buttarlo nei rifiuti e mi ha urlato contro per un’ora. Non le ho mai detto che il sacchetto era di papà. Lei era sempre più dura con me riguardo alla questione del peso, come se fossi stata la sola ad avere quel problema. Eravamo una famiglia grassa, mia madre lo era tanto quanto me, al punto che sembravamo costruite usando le stesse specifiche. Anche papà era grasso, e mio fratello lo era più di tutti.

    Io sono ancora grassa. Tutti gli altri lo erano. Al passato.

    E perché? A causa di questa fottuta Pillola.

    La sperimentazione è cominciata come fanno sempre: volantini affissi per tutto il campus dove mia madre lavorava promettevano contanti per il giusto segmento della popolazione che avesse voluto provare una nuova, eccitante soluzione per perdere peso. Mia madre ci si è lanciata sopra come faceva sempre, scattando una fotografia del poster in modo da poter poi mandare una mail dalla comodità della sua poltrona sfondata, con il tavolino pieghevole tirato vicino a lei e il portatile installato in permanenza sul ripiano. Ricordo di averle chiesto una volta perché si era presa un portatile se poi non lo portava mai da nessuna parte… non lo staccava neppure dalla corrente, per cui avrebbe potuto benissimo usare un tower del vecchio tipo con un monitor a parte. Perché ricorrere a qualcosa di mobile, se poi non te lo porti mai dietro?

    Lei aveva scrollato le spalle. – Allora perché lo chiamano anche laptop, computer da grembo, quando io non ho un grembo?

    Mi aveva presa in contropiede. Neppure io potevo mai mettermi il computer in grembo, perché quando mi sedevo quel territorio era occupato dalla pancia e comunque era terribilmente scomodo tenere lo schermo tanto basso. Ho visto persone tenere così il computer in treno e apparivano tutte curve e ingobbite. Mia madre però voleva incurvarsi e ingobbirsi, voleva un grembo piatto e vuoto e un computer caldo in equilibrio sulle ginocchia, parecchi centimetri di spazio fra i suoi fianchi e lo schienale del sedile di un aereo, e poter comprare i vestiti che vedeva esposti in vetrina sui manichini. Voleva quello che vogliono tutti. Il rispetto.

    Lo volevo anch’io, credo, solo non pensavo valesse la pena di sbattersi quanto faceva lei per ottenerlo. E del resto nessuno di quei metodi funzionava davvero. Fino alla Pillola.

    Così la mamma si è iscritta come faceva sempre, annotando i colloqui e i tempi dei dosaggi sul calendario. Mio padre ha levato gli occhi al cielo e ha dichiarato di sperare che questa volta la cosa non finisse con lei che piangeva perché non era più in grado di cagare. I nostri sguardi si sono incontrati, alle sue spalle, e abbiamo sorriso entrambi.

    Lei si è limitata a rivolgergli un verso di riprovazione. – Sul serio, Carl, attento al linguaggio che usi. È da molto tempo che non sei più in Marina.

    Mio padre ha attivato il suo gamepad e ha passato un po’ di tempo a giocare a D&D con i suoi amici mentre la mamma era impegnata con quel nuovo gruppo di sperimentazione. Quanto a me, ho accennato un sorriso. Ero contenta che lui facesse qualcosa che lo divertiva perché ultimamente mi era parso parecchio depresso. Anch’io sarei stata impegnata: avevo i Visionari, il mio club cinematografico scolastico. Avevamo programmato di fare delle riprese ogni notte per due settimane, per cercare di mettere insieme un bizzarro film horror su un virus che trasformava i membri di una squadra di football in cannibali (sentite, non avevo scritto io il copione, ero solo il direttore della fotografia).

    Mia madre è uscita per andare a inghiottire pillole e a rispondere a domande sulle sue abitudini. L’avevo già vista passare per quella trafila in passato e avevo imparato a tenere a freno la lingua, ma sapevo con esattezza come sarebbe andata: si sarebbe seduta con fare contegnoso su una sedia, ben vestita, cercando di accavallare le gambe senza però mai riuscire a mantenerle in quella posizione perché le sue cosce si allargavano una sull’altra e scivolavano fino ad aprirsi, cercando lo spazio per afflosciarsi intorno ai braccioli della sedia e farla apparire più larga che mai, come un gavettone che si allargasse su un marciapiede caldo. E non avrebbe mai detto tutta la verità. Quella era la cosa di lei che forse odiavo maggiormente.

    – Oh, faccio esercizio fisico ogni giorno!

    Camminava al massimo per venti minuti al giorno, dall’auto all’ufficio e viceversa, il suo tapis roulant era coperto di abiti appesi a grucce e i manubri erano rivestiti da uno strato lanuginoso fatto di polvere e pelo di gatto.

    – Cerco di mangiare bene, ma ho cattive abitudini che derivano dallo stress.

    Che ci fosse il sole o piovesse, che fosse stata una giornata buona o cattiva, mia madre mangiava tre cucchiaiate di gelato con il caramello ogni sera alle dieci.

    – Sinceramente, penso che sia una cosa ereditaria. Entrambi i miei genitori erano corpulenti, come pure le mie sorelle e la maggior parte dei miei cugini.

    Questo era vero. L’intera famiglia è grassa. Nell’ultima foto di famiglia indossavamo un assortimento di magliette colorate e sembravamo un cesto di frutti rotondi e maturi. A me quella fotografia è piaciuta, ma credo di essere stata la sola. La composizione era buona e avevamo tutti l’aria felice, ma a quanto pare questo non era abbastanza. Mia madre aveva pagato quelle fotografie ma non le aveva mai incorniciate.

    La mamma è rientrata dalle prime sessioni loquace ed eccitata, e ha postato sulla sua timeline quanto fosse felice di sperimentare qualcosa di davvero innovativo e come avesse al riguardo una sensazione positiva. Non le era permesso di dire molto in merito perché le avevano fatto firmare un accordo di non divulgazione, e in seguito credo sia stata felice che nessuno potesse chiederle dettagli.

    Ho capito che questa volta le cose sarebbero state diverse la prima notte in cui ho sentito le urla. Ero rimasta alzata fin oltre mezzanotte per cercare di editare le riprese dei giocatori di football che barcollavano con passo pesante, folli per la fame e con le mani protese, sullo sfondo dei pali della meta e di un cielo tinto di arancione dal tramonto. Avevo gli occhi che bruciavano e avevo dovuto infilare due borse del ghiaccio sotto il portatile per raffreddare la CPU (quella macchina non era in realtà all’altezza di tutto quel lavoro di elaborazione e di rendering. L’urlo mi ha svegliata alle quattro e mi ha fatta sedere di scatto con il cuore che mi era salito fino agli orecchi, come se qualcuno mi avesse infilato un minuscolo tamburo nella testa. Ero così stanca e confusa che quasi non ho capito cosa stavo sentendo, ma quella era la sua voce: la mamma urlava come se stesse andando a fuoco, e lo ha fatto tanto a lungo, a voce così alta e senza interruzioni da indurmi a chiedermi come facesse a respirare. Era tutta aria che usciva e usciva e usciva, senza che traesse un solo respiro.

    Sono corsa nel corridoio e sono andata a sbattere dritta contro Andrew, che andava nella stessa direzione. Abbiamo sbattuto pancia contro pancia e siamo caduti sul posteriore come un paio di personaggi dei cartoni animati. Riesco a vedere con esattezza la scena nella mia testa e a immaginare come la riprenderei, gli effetti sonori che potremmo aggiungere, ma in quel momento non c’era il tempo di ridere o di discutere. Ci siamo rialzati e siamo andati nella stanza dei nostri genitori.

    Era chiusa a chiave.

    – Papà! – ho chiamato, picchiando con il pugno contro quella barriera di sei pannelli di tamburato. – Papà, cosa succede? La mamma sta bene?

    Ho ottenuto da parte sua una sfilza di suoni incomprensibili, impossibili da decifrare, mentre la mamma urlava come un fischio a vapore.

    – Chiamo il 911! – ha gridato Andrew, che aveva già il telefono in mano.

    Quando la porta si è aperta, il suono delle urla della mamma ci ha investiti con tutta la sua potenza, tanto che Andrew e io siamo indietreggiati un poco, barcollando. Il battente aveva soffocato le urla solo di un poco, ma quando un suono indica che tua madre sta morendo anche quel poco ha molta importanza.

    Nostro padre era là, con i capelli grigi arruffati che puntavano in tutte le direzioni, dando l’impressione di incolpare tutti contemporaneamente. Ha proteso una mano verso Andrew con una smorfia sul volto e gli occhi sgranati.

    – Non lo fare. Non chiamare nessuno. Vostra madre dice che questo fa parte della sperimentazione, che è peggio di quanto credesse ma che durerà solo quindici minuti.

    Andrew ha abbassato lo sguardo sul telefono. – Mi sono svegliato quasi dieci minuti fa, quando lei stava soltanto ringhiando.

    – Ringhiando? – ho

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1