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Trenta Desideri: Primo Libro della serie "Trenta Desideri"
Trenta Desideri: Primo Libro della serie "Trenta Desideri"
Trenta Desideri: Primo Libro della serie "Trenta Desideri"
E-book377 pagine4 ore

Trenta Desideri: Primo Libro della serie "Trenta Desideri"

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Info su questo ebook

Quello che le serve è un miracolo. Quello che ottiene è un genio con delle regole.

Lacey Linden è diventata brava a nascondere la verità sulla sua vita: una madre depressa, una casa che cade a pezzi e bollette troppo salate per poterle pagare. A scuola, è una ragazza con il sorriso pronto e buoni voti, ma di notte Lacey passa il tempo a sognare modi in cui poter salvare la sua famiglia. Durante una visita al mercatino delle pulci per ottenere contanti facili, Lacey si imbatte in un carillon che sembra quasi implorarla di portarlo a casa con sé. Lei cede, solo per scoprire che è abitato da un bellissimo “genio”, che le offre un mese di desideri, uno al giorno, ma c’è un problema: ogni desiderio deve essere umanamente possibile.

Grant appartiene ad un’associazione di esseri soprannaturali, dediti ad aiutare umani bisognosi. Dopo due anni passati a soddisfare desideri convenzionali, gli manca solo un incarico per ottenere la promozione a un nuovo lavoro con casi più impegnativi. Il suo mese con Lacey è esattamente ciò che si aspetta, eppure per niente come si era immaginato.

Lacey e Grant scopriranno presto che il compito più difficile di tutti potrebbe essere quello di dirsi addio.

LinguaItaliano
Data di uscita22 ago 2018
ISBN9781547538676
Trenta Desideri: Primo Libro della serie "Trenta Desideri"

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    Anteprima del libro

    Trenta Desideri - Elizabeth Langston

    Trenta Desideri

    Elizabeth Langston

    Traduzione di Laura Forlani 

    Trenta Desideri

    Autore Elizabeth Langston

    Copyright © 2018 Elizabeth Langston

    Tutti i diritti riservati

    Distribuito da Babelcube, Inc.

    www.babelcube.com

    Traduzione di Laura Forlani

    Progetto di copertina © 2018 Kim Killion

    Babelcube Books e Babelcube sono marchi registrati Babelcube Inc.

    Capitolo 1

    Innocente e ordinario

    Saltai l’incontro pre-partita, quel giorno. Nessuno se ne sarebbe accorto e a me l’ora libera avrebbe fatto comodo.

    A quanto pareva, molti dei miei compagni di scuola avevano avuto la stessa idea. C’era un ingorgo alla porta laterale, dove dozzine di studenti sciamavano fuori, sorridendo in silenzio, per poi prendere ciascuno la propria strada. La strada del ritorno passava attraverso il parcheggio degli studenti dell’ultimo anno, lungo un vicolo ombreggiato e verso la piazza centrale, ogni passo che trasformava la ‘me di scuola’ nella ‘me di casa’.

    Svoltai l’angolo per ritrovarmi nella mia via e puntai uno sguardo critico su casa nostra, un vecchio ammasso di mattoni che cuoceva sotto al sole in un giardino trascurato. La voce ‘falciare il prato’ doveva proprio guadagnarsi qualche posto verso l’alto nella mia lista di cose da fare. Salii i gradini, attraversai la veranda di legno e varcai la porta d’ingresso.

    L’atrio era in penombra e fresco, molto più fresco di quanto potessimo permetterci. Eppure, per un breve istante, chiusi gli occhi e concessi a me stessa di goderselo.

    Okay, basta così. Allungai la mano verso il termostato e urlai: Mamma?

    Non ci fu nessuna risposta. Esitai, chiedendomi se dovessi andare a stanarla, quando vidi che la porta che conduceva alla soffitta – e alla mia stanza –  era socchiusa.

    Strano. Salii di corsa gli stretti gradini.

    Quando entrai in camera mia, ero pronta a scommettere che lei ci fosse entrata. Forse si trattava di sesto senso, oppure dell’olezzo persistente del suo corpo sudicio. In ogni caso, ne ero certa.

    Ed ero certa anche del motivo.

    Mi fiondai verso la mia scrivania e spalancai il cassetto superiore. Vuoto. Fino a quella mattina aveva custodito una busta piena di banconote da venti dollari. Non c’era più nulla.

    Il mio cuore partì a mille. Mamma? Scesi le scale due gradini per volta e mi fermai sulla soglia della cucina. Dove sono i miei soldi?

    Era seduta in fondo al tavolo, le mani avvolte attorno a una tazza di caffè, i capelli incollati alle guance in scure ciocche unte. Andati.

    Li hai presi tu?

    Sì. Li ho dati a Henry.

    Wow. "Hai dato a Henry i miei trecento dollari?"

    Sì.

    Okay, respiro profondo. Un ragazzino di otto anni non ha bisogno di tutti quei soldi. Deve essere di nuovo confusa. Perché?

    Così può giocare a calcio.

    Ripetei la frase in silenzio, una parola per volta, aspettando di capire il concetto. Calcio? Henry sa che non possiamo permetterci di spendere un sacco di soldi per un gioco.

    Non è stato Henry a chiederlo. È stato l’allenatore. Si curvò ancora di più sul tavolo. La squadra rivuole Henry. L’anno scorso era uno dei migliori.

    Avresti potuto dire di no.

    Non volevo. Henry adora giocare.

    Deglutii con forza, ricacciando giù il panico che mi bruciava la gola. Dopo quasi un anno di incontrollabile stupidità da parte sua, ormai avrei dovuto esserci abituata. Invece no. Mamma, non ho pagato la bolletta della luce e nemmeno fatto la spesa questa settimana. Capisci?

    Sì.

    Crollai contro lo stipite della porta, in cerca di supporto. Aveva dato un’occhiata al nostro estratto conto di recente?

    Ovvio che no. Nei dieci mesi che erano passati dalla morte del mio patrigno, era diventata un’abitudine per lei quella di lasciare tutto nelle mie mani. Mamma, non credo che ti renda conto in che guai ci troviamo.

    Ce la caveremo. Strinse il nodo della cintura del suo accappatoio.

    Non ce la caveremo. Mi premetti i pugni sugli occhi, ricacciando indietro la sensazione di venire sopraffatta da tutto quanto. Chi posso contattare per riavere indietro i soldi?

    La quota non è rimborsabile. La voce le si era fatta più roca. Dobbiamo trovare un modo per permettergli di giocare, Lacey. È bravo.

    Non lo sarà, se morirà di fame. Strinsi con forza lo stipite, le mie unghie che grattavano via scaglie di pittura, e cercai con tutte le mie forze di fingere di non volerla prendere a schiaffi. Se non avessi racimolato duecento dollari per l’indomani, ci avrebbero tolto la corrente, un pensiero terribile con le temperature di settembre che si aggiravano intorno ai trenta gradi. Cosa vuoi che venda, stavolta?

    Si avvolse le braccia attorno alla vita e posò la testa sul tavolo. Cos’è rimasto?

    L’argenteria della nonna. La tua macchina da cucire.

    No, nessuna delle due cose. Le lacrime spuntarono dai suoi occhi chiusi. Che altro?

    I candelieri di zia Myra.

    Non mi è mai piaciuta la zia Myra. sussurrò.

    La osservai, rimanendo immobile. La depressione aleggiava attorno a lei come nebbia. Non preoccuparti. Ci penso io. E l’avrei fatto, in qualche modo, così come lei si aspettava. Presi le chiavi della macchina, rovistai nell’armadio in cerca dei candelieri e me ne andai di casa.

    Quando arrivai al parcheggio del mercatino delle pulci, il sole della Carolina aveva già fatto allontanare la maggior parte dei clienti. Sfrecciai oltre le bancarelle di vestiti e le pacchiane riproduzioni di mobili e andai dritta verso la mia destinazione. ‘I pezzi da collezione di Madame Noir" arrostiva nella sua ottima posizione all’intersezione delle due corsie principali.

    Salve, Madame.

    Lacey Linden, che bello vederti. Era seduta su un’enorme sedia da giardino, sotto un grosso ombrellone, troppo grassa per spostarsi spesso dal suo posto, cosa per niente importante perché era la gente ad andare da lei. Cos’hai per me, oggi, zuccherino?

    Per quanto odiassi il motivo per il quale mi trovavo lì, contrattare con Madame era sempre divertente. Le porsi i due candelieri d’ottone.

    Il suo sguardo li esaminò rapidamente. Mmph. Sollevò il primo, poi l’altro, soppesandoli tra le mani. Gli affari vanno a rilento.

    Stava cercando di intimorirmi. Non avrebbe funzionato. Mi sforzai di non sorridere. Non avrà nessun problema a vendere questi. Madame aveva parecchi ‘clienti speciali’, un misterioso gruppo di persone che non venivano mai al mercatino, eppure offrivano un sacco di soldi per i pezzi di antiquariato che lei trovava per loro. Buon per me. I suoi clienti speciali avevano comprato abbastanza roba proveniente da casa mia da tenere lontani i creditori per mesi.

    Madame prese un sorso dal suo bicchiere di tè freddo e grugnì. Non lo so.

    Non dissi nulla. Era meglio lasciarla in pace finché non prendeva una decisione.

    C’è un cesto di roba nella mia station wagon, zuccherino. Fammi un favore e vallo a prendere.

    Faceva parte del suo piano per togliermi di mezzo mentre lei valutava il prezzo. Bene. Più ci pensava, più soldi avrei ottenuto. Certo.

    Girai attorno alla bancarella per andare nel punto in cui Madame aveva parcheggiato la sua macchina. Sembrava una sorta di carro funebre: grossa, nera e ricoperta di fango, con il parafango arrugginito. Quando aprii la portiera del bagagliaio, venni travolta dall’odore di patatine fritte stantie e bucce di banana marce. Trattenendo il respiro, mi piegai in avanti, sollevai un enorme cesto di vimini e richiusi la portiera con un calcio. Pensa di scaricare adesso tutta questa roba? chiesi.

    No, zuccherino. Puoi farlo tu.

    Sistemai il cesto sul tavolo espositivo e studiai le sue ultime scoperte. In cima c’erano due specchi a mano in argento, il tipo di articoli d’antiquariato che Madame vendeva a vagonate. Il terzo oggetto sembrava una scatola da scarpe più o meno quadrata, fatta di legno intarsiato. Sistemai la scatola malamente rovinata sul tavolo, sbloccai il gancio che la teneva chiusa e sollevai il coperchio a cerniera. Metà della parte interna era occupata da un piccolo scompartimento, rivestito di velluto dorato. L’altra metà? La miniatura di una scena invernale.

    Wow.

    I brividi strisciarono lungo la mia spina dorsale. Una minuscola coppia vittoriana pattinava su un lago ghiacciato, incorniciato da alberi sempreverdi spolverati di neve alti due centimetri o poco più. C’erano dei cumuli di neve lungo una stradina ciottolosa che si incurvava tra i negozi e una chiesa. Cos’è questa cosa? chiesi.

    È un carillon. I suoi occhi si socchiusero mentre ipotizzava.

    Non avevo mai avuto un carillon prima – non l’avevo mai nemmeno voluto – ma non potevo far altro che bramarlo. Incapace di contenere la mia curiosità, girai la chiave sul retro e ascoltai qualche nota di ‘Astro del Ciel’.

    Era perfetto.

    Un ricordo dimenticato da tempo stuzzicò un angolo della mia mente. Io e mio padre eravamo andati in un qualche posto al nord per Natale. In Michigan o in Massachusetts, non riuscivo più a ricordarlo. Faceva incredibilmente freddo. Mi aveva infagottata per bene e mi aveva portata in riva a uno stagno ghiacciato, noi due soli.

    L’alto e affascinante Marine mi allaccia i pattini da bambina e mi aiuta a salire sul ghiaccio. Sei pronta, principessa?

    Sì, papà. rispondo, aggrappandomi a lui con le mani guantate. Non lasciarmi andare.

    Non ti lascerò cadere. Te lo prometto. Pattina all’indietro, tirandomi con sé, ed è così divertente che mi dimentico di avere paura. Pattiniamo in circolo, ancora e ancora, finché non ridiamo così forte da doverci fermare…

    Yoo hoo, Lacey! Le parole strascicate di Madame mi riportarono bruscamente al presente. Che ne pensi? Comprerai qualcosa, tanto per cambiare?

    Non se ne parla. Lo adoravo, ma non glielo avrei mai detto. È troppo malconcio. Il disinteresse, simulato o meno, ha un ruolo chiave in ogni negoziazione.

    Sei sicura? Posso lasciartelo per trenta bigliettoni.

    Erano trenta in più di quelli che avevo a disposizione. Non penso proprio. Chiusi il coperchio e voltai le spalle alla scatola. Quanto mi darai per i candelieri?

    Centocinquanta.

    Strinsi i denti per mantenere un’espressione neutra. Non era nemmeno vicino al loro valore. Duecento.

    Centosettanta.

    Forse quelli della luce avrebbero accettato centosettanta dollari come caparra e poi avrei dato loro il resto, una cosa a cui erano abituati con noi. Era solo difficile da capire quando avrebbero esaurito la pazienza.

    Il carillon fece tintinnare altre due note.

    Mi voltai e abbassai lo sguardo su di lui. Stava forse cercando di ricordarmi della sua presenza? Voleva che lo portassi a casa con me?

    Dovevo tornare in me. Un carillon non si metteva a comunicare con esseri umani a caso che si fermavano ad ammirarlo, per quanto potesse essere perfetto.

    Oh, ma chi stavo prendendo in giro? Nell’ultimo anno non avevo fatto altro che pensare alle nostre necessità. Era passato così tanto dall’ultima volta che mi ero concessa di volere qualcosa che mi ero dimenticata la sensazione che dava, e io volevo quel carillon. Da morire. Non potevo lasciarlo lì. Prima ancora di riflettere per bene sulle mie parole, sbottai: Centosettantacinque e prendo anche il carillon.

    Affare fatto.

    Nonostante fosse un venerdì sera, mia madre era andata a letto presto, sostenendo di essere esausta per la giornata in cui non aveva fatto nulla. Quando tornai a casa intorno alle nove, dopo il mio turno in libreria, stava russando lievemente. Chiusi la porta della sua stanza con un debole click.

    Lacey? mi chiamò mio fratello dalla sua stanza.

    Mi fermai e guardai dentro. Ehi, ometto. Ti serve qualcosa?

    Era seduto a gambe incrociate sul letto, indossando la maglia da football dei Carolina Panthers di suo padre al posto del pigiama. Ti dispiace che sono tornato nella squadra di calcio?

    Non ne sono entusiasta.

    L’espressione di Henry crollò. Mi dispiace.

    Dispiace anche a me. Odio dover dire così tanti no, ma non abbiamo soldi per gli extra. D’accordo?

    Annuì, il labbro inferiore che tremava. Mamma ha detto che avresti trovato una soluzione.

    Aveva più fiducia in me di quanta ne avessi io, ma non potevo dirlo a Henry. Mamma ha ragione. Lo farò. Feci qualche passo nella stanza e gli rivolsi una buona imitazione di un sorriso. Era impossibile rimanere arrabbiati con Henry. Sai cosa puoi fare per ripagarmi?

    I suoi occhi si spalancarono. Cosa?

    Quando mi guardava in quel modo, metà spaventato e metà speranzoso, il mio cuore si scioglieva. Sii il giocatore migliore della squadra.

    Mi fece l’occhiolino. Facile. Lo sono già.

    Uh-uh. E anche il più modesto. Gli posai un bacio sulla testa e me ne andai, spegnendo la sua lampada mentre mi allontanavo.

    In preda al nervosismo, me ne andai in cucina e mi misi a guardare fuori dalla finestra che dava sul retro, lo sguardo che finì per posarsi sul vicino garage singolo. Giaceva nell’ombra, un gigante solitario chiuso a chiave. Il mio patrigno lo aveva convertito in un laboratorio artistico, un luogo in cui trasformava pezzi di legno in opere d’arte.

    Quando quel pomeriggio ero ritornata dal mercatino, avevo piazzato il carillon nel laboratorio per disperazione. Aveva più senso che portarlo in casa, soprattutto perché non volevo spiegare a mia madre la ragione per la quale lo avevo preso, visto che non riuscivo a capirlo nemmeno io.

    Il carillon mi attendeva, il suo richiamo era più forte della mia riluttanza a passare anche solo un minuto nel laboratorio di Josh. Uscii di casa, inserii la vecchia chiave d’ottone nel lucchetto ed entrai. Dopo aver fatto scattare l’interruttore, bloccai la porta alle mie spalle con il chiavistello e attraversai la stanza, i miei zoccoli che risuonavano sul polveroso pavimento di cemento.

    Il mio nuovo tesoro giaceva sul grezzo tavolo da lavoro, i suoi difetti chiaramente visibili nel crudo cono di lue proveniente dall’unica lampadina presente. Nonostante la sporcizia e i graffi, il carillon sarebbe diventato una vera bellezza, una volta restaurato. Avrei potuto venderlo a un buon prezzo. Se fossi riuscita a sopportare l’idea di darlo via.

    Posizionandomi su uno sgabello, versai del sapone liquido su uno straccio e strofinai le parti più sporche.

    La scatola fremette. O almeno, così mi sembrò. Mi fermai e la osservai.

    Non si mosse nulla. Doveva essere stata la mia immaginazione.

    Sollevai il coperchio. La scatola vibrò con più forza. Scivolai giù dallo sgabello e feci un passo indietro. C’era qualcosa dentro la scatola?

    Mentre me ne stavo lì a valutare le opzioni, uno sbuffo di fumo salì con una spirale dal campanile della chiesetta.

    Fuoco? Cercai freneticamente l’estintore. Quando riuscii a trovarlo, il fumo era aumentato e vorticava denso e veloce formando un’alta colonna. Si spostò roteando verso il margine del tavolo da lavoro dove, improvvisamente così come era comparso, il fumo svanì.

    Al suo posto, c’era un ragazzo. Un ragazzo sexy. Terribilmente sexy, come uno di quei modelli che non sorridono mai che si vedono sulle riviste per adolescenti.

    L’adrenalina mi stava travolgendo. Avevo davvero appena visto…?

    No. impossibile. Doveva essere arrivato in qualche altro modo mentre la mia attenzione era concentrata sul fumo. Non che mi importasse come fosse entrato. Ero ancora da sola con lui.

    Brandii l’estintore come una mazza da baseball e gli chiesi con finto coraggio: Chi sei? Cosa vuoi?

    Lui puntò un imperturbabile sguardo verde su di me, le mani giunte dietro la schiena. Il mio nome è Grant e non voglio nulla. Chinò la testa. Sono qui per servirti.

    La sua affermazione, pronunciata lentamente con un delizioso accento britannico, mi distrasse momentaneamente dalla mia paura. "Servirmi?"

    Esatto. Sei perfettamente al sicuro. Sono a tua disposizione.

    Non certo il tipo di approccio che mi sarei aspettata da un intruso ordinario. Quel tizio sembrava più determinato ad essere arrogante che violento, ma forse era così che convinceva le sue vittime ad abbassare la guardia. Come sei entrato qui?

    Forse potremmo continuare la nostra conversazione dopo che avrai abbassato la tua arma.

    Non se ne parla. Dimmi come sei riuscito a passare da una porta chiusa.

    "Sei stata tu a portarmi dentro."

    Davvero? Non me lo ricordo per niente.

    Indicò il tavolo da lavoro. Oggi pomeriggio hai acquistato il carillon e l’hai portato a casa?

    Strano. Come faceva a saperlo? Sì.

    Vivo dentro la chiesa.

    Uh-uh. Grant era alto almeno 1,80 m. La chiesa aveva le dimensioni di un mirtillo. Sembra un po’ piccola per te.

    Le sue labbra si contrassero. Mi arrangio.

    Arrogante e pazzo. Sei sotto l’effetto di droghe o qualcosa del genere?

    È questa l’impressione che ti do?

    No, mi dai l’impressione di essere un idiota. Abbassai l’estintore. Era pesante e, dopotutto, lui aveva l’aspetto di uno che mi avrebbe potuta battere con o senza armi. Riproviamo. Cosa sei, esattamente?

    Il mio titolo ufficiale è ‘Essere Soprannaturale Benevolo’.

    Certo. Feci un passo non proprio discreto dietro il tavolo da lavoro, determinata a tenere qualcosa di solido tra di noi. Hai qualche documento?

    Naturalmente. Tra le sue dita apparve un tesserino, all’incirca delle dimensioni di una patente di guida. La posò sul tavolo e la spinse verso di me. Aspettai che si allontanasse prima di prenderla.

    Qualcuno doveva aver pagato un bel po’ di soldi per quel tesserino. C’erano la sua foto, il nome e il titolo, oltre all’indirizzo internet della sua organizzazione. Fai parte di un’associazione?

    Certo.

    In un angolo c’era un sigillo scintillante, tipo filigrana. Quando lo sfregai con il pollice, mi diede una piccola scossa elettrica. Lasciai cadere il tesserino sul piano del tavolo e la spinsi indietro. Okay, facciamo finta per un momento che tu faccia sul serio. Cosa fa un Essere Soprannaturale Benevolo?

    Tutto ciò che desideri. Si inchinò.

    Stai scherzando.

    Temo di no. La sua voce era tagliente. Padrona, velocizzerebbe molto le cose se tu volessi procedere comunicandomi il tuo desiderio di oggi.

    Padrona?

    Okay, stavo avendo delle allucinazioni. Sì, doveva essere così. La malnutrizione aveva infine vinto.

    Non fidandomi più delle mie gambe per reggermi in piedi, mi posai sullo sgabello e valutai la situazione. Fumo. Tizio alto. Chiesa piccola. Sei un genio?

    Se può servire a farti abbandonare il tuo scetticismo, ‘genio’ può andare.

    Perché non poteva darmi una semplice risposta? Non sembri un genio.

    I pantaloni palazzo e i gilet di lustrini non si adattano agli Stati Uniti.

    Disse il tizio che indossava una felpa nel bel mezzo di un’ondata di caldo della Carolina del Nord. In TV i geni vivono nelle lampade.

    Alcuni lo fanno. Io preferisco posti più vivibili. Mi guardò con calma studiata. Se hai finito con l’interrogatorio, vorrei tornare ad occuparci dei nostri affari.

    Oh, sì, qualcuno aveva proprio un brutto carattere. Quali affari?

    Il desiderio?

    Guardai torva il carillon. Sembrava così innocente e ordinario. Eppure aveva attirato la mia attenzione… e c’era pure incluso un genio. Il che significava che… No. Cosa mi era venuto in mente? Doveva essersi intrufolato in casa. Lanciai un’occhiata alla finestra ed era chiusa, con la serratura arrugginita. Ovviamente. Scossi la testa. Scusa, ma non riesco a crederci.

    Pensi che sia uno scherzo?

    No.

    Sei incline alla pazzia?

    Il mio sguardo tornò bruscamente su di lui. Era andato più vicino alla verità di quanto mi piacesse. Spero di no. dissi, a labbra serrate.

    Socchiuse gli occhi. Forse preferiresti che io ti fornissi una prova.

    Sì, puoi provarci.

    Molto bene. Nominami un oggetto che si trova in camera tua e io lo evocherò.

    Con la mente setacciai la mia stanza, valutando gli oggetti e scartandoli prima di concentrarmi su poche cose selezionate che si trovavano nel primo cassetto del mio comò. "Il mio gioiello preferito."

    Le sue labbra si curvarono appena. Sentii qualcosa tintinnare sul tavolo davanti a me. Abbassai lo sguardo ed eccolo lì: l’anello scolastico di mio padre.

    Ora sei convinta, Padrona?

    Wow. Afferrai l’anello e me lo cacciai in tasca. Era un trucco troppo difficile per poter trovare una spiegazione. "Non puoi chiamarmi Padrona." mormorai, cercando di ignorare i brividi che mi attraversavano il corpo.

    Certo. Come preferisci. Piegò di nuovo la testa. Il tuo primo desiderio?

    Per quanto incredibile fosse quella conversazione, sarebbe stato fantastico se si fosse rivelato tutto vero. Avrebbe significato tanto per la mia famiglia – per me – se avessimo potuto ottenere anche solo qualcuna delle cose di cui avevamo bisogno. Quanti desideri ho? Tre?

    Scosse la testa. Uno al giorno per il prossimo mese.

    Trenta?

    Esatto.

    Perché così tanti?

    Mi rivolse un mezzo sorriso. Recenti cambi nella nostra politica.

    Trenta desideri! Tutto ciò che devo fare è chiedere qualcosa e tu me lo darai?

    Entro le linee guida, sì.

    Cos’avrei dovuto desiderare per prima cosa? Ce n’erano così tante tra le quali scegliere. Vestiti per Henry. Cibo che provenisse da qualcosa che non fosse una lattina. Elettrodomestici che facevano il loro lavoro. E avrei potuto aggiungere un fantastiliardo di altre cose a una lista di desideri, se ci avessi potuto pensare un po’.

    Viste le circostanze, probabilmente era meglio iniziare con qualcosa di semplice e flessibile. Come dei soldi. Desidero trecento dollari.

    Il tuo desiderio non rientra nelle direttive.

    Fu come prendere uno scossone. E perché mai?

    Non posso infrangere la legge. Derubare una banca è fuori questione.

    Non puoi sbattere le palpebre e far apparire i soldi? Come aveva fatto con l’anello di mio padre.

    No.

    Quanto ero stata ingenua? Per un attimo mi ero concessa di credere ai miracoli, come se Grant l’Essere Soprannaturale Benevolo fosse la risposta a una preghiera che non ricordavo di aver espresso.

    Un groppo caldo mi chiuse la gola e mi fece bruciare gli occhi. Dovevo andarmene di lì prima di crollare davanti a quell’idiota. Scivolai giù dallo sgabello, afferrai una torcia e attraversai il laboratorio diretta alla porta.

    Padrona?

    Esitai, con la mano posata sul pomello della maniglia. Cosa? La parola mi uscì con un rantolo.

    Ti stai ritirando per la notte?

    Sì.

    E il desiderio di oggi?

    Quel tizio era implacabile. Dovevo dire qualcosa, altrimenti non avrebbe mollato la presa. Desidero che tu te ne vada.

    Ci fu uno sbuffo di fumo blu. Un lieve sibilo. E lui sparì.

    RAPPORTO #1

    DESIDERIO DI VENERDì: NULLO.

    Boss,

    oggi sono stato scoperto.

    Questo incarico è inaspettato. Non avevo già raggiunto la mia quota di egocentrici adolescenti americani?

    La mia nuova padrona ha dei seri problemi di comportamento. Ha bruciato il suo primo desiderio quando mi sono rifiutato di darle dei soldi.

    Sono deluso. Pensavo che sarebbe stato l’ultimo incarico prima della promozione. Non vedo come questo caso possa essere abbastanza impegnativo da farmi guadagnare i requisiti che mi mancano.

    Naturalmente mi sforzerò di fare del mio meglio.

    Umilmente,

    Grant

    Capitolo 2

    Un sussurro di riluttanza

    Era un sogno bellissimo, tutto dorato e luccicante, pieno di gilet di lustrini e di modelli britannici. Quel Lacey, svegliati. non ci stava per niente bene. Gemetti e rotolai sulla schiena.

    Per favore, Lacey? Dobbiamo andare.

    Aprii un occhio. Un occhio molto arrabbiato. Un ragazzino, visibile solo dal collo in su, mi scrutava da qualche centimetro di distanza. È sabato mattina, Henry. Stai perdendo sangue?

    No.

    Vuoi iniziare?

    No. ridacchiò.

    La seconda palpebra si sollevò con riluttanza. Che cosa vuoi?

    Il mio allenamento di calcio inizia tra dieci minuti.

    Gemetti più rumorosamente e mi rannicchiai ancora di più nel mio morbido letto accogliente. Non può portarti mamma?

    Il suo sorriso si spense. Le fa di nuovo male la pancia.

    Ovviamente. Odiavo il calcio. Odiavo che mio fratello giocasse a calcio. Odiavo che, a causa del calcio, la casa dei Linden-Jones sarebbe rimasta senza carne per il resto del mese di settembre. Eppure eccomi lì, sul punto di accompagnare mio fratello all’allenamento di calcio. Non c’era giustizia. Okay, ometto. Lasciami mettere un paio di pantaloncini. Ci vediamo alla macchina.

    Eravamo in ritardo. Solo di sei minuti, ma Henry si stava comportando come se avessimo perso un’udienza con la regina. Il coach mi farà fare un giro di corsa in più.

    Mi dispiace.

    Non sembri dispiaciuta. Scese dalla macchina e mi fece un cenno. Forza. Devi firmare per me.

    D’accordo. Henry aveva tralasciato quella parte dell’accordo, quella in cui sarei dovuta scendere dalla macchina conciata da schifo. Spensi il motore, sbattei la portiera dietro di me e lo seguii verso il punto in cui dei ragazzini si erano raggruppati attorno a un tizio molto più alto. Si zittirono quando ci avvicinammo.

    Henry chinò il capo. Mia sorella ha dormito troppo.

    Non ho… La mia voce si affievolì quando guardai

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