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Tutto per gioco
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E-book308 pagine3 ore

Tutto per gioco

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Info su questo ebook

La commedia romantica più divertente dell’anno

Per questo Natale tutti i bambini hanno espresso lo stesso desiderio: avere un giocattolo all’ultima moda. Charli, la nipotina di Neala Clarke, lo ha chiesto a sua zia. E deludere le aspettative di Charli non è un’opzione contemplata. Ma manca solo una settimana alla Vigilia e il regalo più desiderato di sempre sembra essere esaurito in ogni negozio della città. Neala però intende mantenere la promessa. Darcy Hart, dopo anni passati tra feste e donne, ha deciso di recuperare il rapporto con il suo adorabile nipotino di sei anni, Dustin. Ecco perché, quando gli ha chiesto un particolare giocattolo per Natale… ha subito risposto di sì. Fortunatamente ne è rimasto uno in un solo negozio della città. Sfortunatamente non è l’unica persona a volerlo. E la sua rivale – a quanto pare – è l’unica donna completamente immune al suo fascino. Per Neala e Darcy sta per iniziare una spietata guerra senza esclusione di colpi. Ma il Natale è alle porte e i miracoli possono sempre accadere…

Si tratta solo di un giocattolo, ma sarebbero disposti a tutto per averlo…

«Un libro spassoso che dimostra perfettamente quanto è sottile il confine tra odio e amore.»

«Le pagine scoppiettano e l’ironia è irresistibile.»

«È proprio vero che in amore e in guerra tutto è permesso! Adorabile!»

L.A. Casey
è nata a Dublino, dove risiede tuttora. Ha ventitré anni e vive con la madre e il suo cane di nome Storm. Con la serie LOVE ha scalato le classifiche di «New York Times» e «USA Today». La Newton Compton ha pubblicato Un nuovo destino, Un incredibile incontro, Un pensiero infinito, Fidati di me, Non smettere di amarmi mai e Un cattivo ragazzo come te, nonché, in e-book, le novelle Anime gemelle, Amori perduti, Come cuori lontani, Più forte dell'amore e Non lasciarmi mai. Tutto per gioco è il suo ultimo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mar 2019
ISBN9788822732361
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    Anteprima del libro

    Tutto per gioco - L.A. Casey

    Capitolo uno

    «Neala? Sei a casa?».

    No.

    «Neala?».

    Sparisci.

    «Neala Hayden Clarke, faresti meglio a non ignorarmi!».

    Avrei il coraggio?

    «Neala!».

    Argh!

    «Sto arrivando, ma’! Aspetta un cazzo di secondo!», urlai con voce rauca.

    Mi sfregai il petto, sbadigliando e strisciando fuori dal mio caldo rifugio, pervasa dai brividi, mentre l’aria fresca del mattino mi avvolgeva.

    Afferrai la vestaglia, misi le pantofole e, incrociando le braccia al petto, schizzai fuori dalla mia camera da letto verso la porta principale. Sbirciai attraverso lo spioncino, come al solito. Quando riconobbi il volto eccessivamente felice di mia madre, vestita da capo a piedi di un rosso sgargiante, non potei fare a meno di alzare gli occhi al cielo.

    A malincuore, spalancai la porta.

    «Ehi, ma’», sbadigliai.

    Mi sorrise mentre mi passava davanti, sembrava il bersaglio di un toro eccitato.

    «Ehi, tesoro. Ti ho svegliato?».

    Me lo stava davvero chiedendo?

    Ci mancava solo che sfondasse la porta per tirarmi fuori dal letto.

    «No, ma’. Sono sveglia da ore», risposi impassibile.

    Mia madre, con disapprovazione, iniziò a darmi leggere pacche sulla testa con la mano avvolta nel guanto rosso. Ridendo, mi scansai. Mi voltai e iniziai a percorrere lo stretto corridoio fino alla cucina, grande quanto una scatola. Lanciai un altro sguardo all’abbigliamento di mia madre, e sospirai.

    «Come diamine ti sei vestita, ma’?», le chiesi non appena mi ebbe raggiunta.

    «Siamo in pieno periodo natalizio!», rantolò.

    Questo, nella sua mente, bastava a giustificare la mostruosità dell’abito con il quale si era addobbata.

    Mi sfregai le mani, maledicendomi per non aver impostato il riscaldamento centralizzato su automatico prima di andare a letto. Se l’avessi fatto, l’appartamento, invece che freddo, sarebbe stato caldo e confortevole. Con le mani fredde e tremanti, riempii il bollitore dal rubinetto e girai l’interruttore alla base.

    «Ma’, sembra che Babbo Natale ti abbia vomitato addosso», dissi, e lanciai subito un urlo, dato che mi aveva colpito alle spalle, non proprio delicatamente.

    «Modera il linguaggio e smettila di prendermi in giro, piccola merdina! Sono tua madre; dovresti portarmi rispetto!».

    Certo, Vostra Altezza.

    «Sto solo scherzando, ma’», sorrisi in modo giocoso.

    Ma non stavo scherzando per niente, era ridicola.

    «Comunque, qual è l’emergenza? Perché sei venuta a sfondarmi la porta così presto stamattina?»

    «Volevo dirti che non posso pranzare con te; devo andare a comprare le ultime cose per Natale, per tuo padre e via dicendo».

    Alzai un sopracciglio con aria interrogativa. «Non potevi semplicemente telefonare, per avvisarmi?»

    «Sai che non mi piace la tecnologia», disse mia madre schioccando la lingua.

    Ero ben consapevole che non sapeva usare la tecnologia.

    «Mi sono dimenticata. Scusa».

    «Bene. Ora prepara una tazza anche per me».

    «Sì, signora», risposi con reverenza.

    Preparai il tè e mi diressi in salotto, dove ci sedemmo sul divano, di fronte al mio televisore al plasma. Sorrisi, mentre mia madre si toglieva le scarpe e piegava le gambe sotto al sedere. Ci eravamo sedute entrambe nella stessa posizione e le somiglianze tra noi non finivano lì. Aveva ventisette anni più di me ed era una donna molto attraente.

    O, per lo meno, lo era quando non si vestiva come se fosse appena uscita dal Grinch.

    Aveva cinquantadue anni, ma non ne dimostrava più di trentacinque. Veniva scambiata per mia sorella maggiore nove volte su dieci e avevamo un legame per cui non eravamo solo madre e figlia, ma anche migliori amiche.

    Entrambe avevamo occhi verdi e glaciali, lunghi capelli castani, pelle chiara come porcellana e lentiggini sul naso. Mio padre, scherzosamente, di tanto in tanto ci definiva gemelle.

    «Allora, dimmi, com’è andato l’appuntamento venerdì sera con come si chiama?».

    Avrei potuto vivere tranquillamente la mia vita senza che mi facesse quella domanda.

    Sospirai. «Il suo nome è Dan Jenkins, è andata… ok».

    Se ok significava orribilmente, allora si poteva dire che l’appuntamento era andato alla grande.

    Mia madre ridacchiò. «È andata male, eh?».

    Metterla così era eufemistico.

    Annuii con riluttanza. «È stato terribile. Per lui fare due chiacchiere significava chiedermi se stavo pensando di avere figli a breve, dato che le mie ovaie non sarebbero state affidabili dopo aver attraversato il lato oscuro e raggiunto il temuto tre con zero. Quell’uomo è un tipo strambo».

    Mia madre scoppiò a ridere e trovai questa reazione divertente e fastidiosa al tempo stesso.

    «Hai appena compiuto venticinque anni; hai ancora tempo per pensare di avere dei bambini».

    «Esatto. Questo è ciò che ho risposto, ma il tipo non voleva sentir ragioni. L’ho lasciato lì. Gli ho detto che dovevo andare in bagno, poi sono corsa via alla prima occasione. Che sfiga, sembrava così normale quando l’ho incontrato in libreria, ma si è rivelato uno squilibrato».

    Mia madre stava soffocando dalle risate.

    «Non è divertente. E se lo rincontro? Vive in città, ma la sua famiglia è qui in paese. Raggelerei, perché non avrei la minima idea di cosa dirgli. Non l’ho salutato e non gli ho spiegato perché me ne stavo andando. L’ho semplicemente piantato lì. Probabilmente avrà pensato che sono un’emerita stronza».

    Mia madre si asciugò sotto gli occhi e sorrise.

    «Puoi sempre dirgli che hai avuto un brutto attacco di diarrea».

    «Ma’!».

    Scossi la testa, mentre lei era piegata in due a causa del suo infelice suggerimento.

    «Mi dispiace», ridacchiò. «Non sono riuscita a trattenermi».

    Alzai gli occhi al cielo. «Va bene, va bene. Dov’è papà? Perché non è venuto con te a trovarmi?».

    Lei borbottò. «È fuori con gli amici per la partita. Si tratta di un anticipo».

    Questa notizia non mi sorprese minimamente. Da quando ne avevo memoria, mio padre era sempre stato un appassionato di calcio; viveva e respirava quello sport come se fosse essenziale per la sua esistenza. Nei weekend, e anche in alcuni giorni infrasettimanali, erano momenti che amava molto. Tutti in casa dovevamo rispettare lo spazio riservato al calcio, o Dio solo sa cosa sarebbe successo.

    Gli uomini e i loro sport.

    «Dev’essere una partita veramente importante, per capitare di mercoledì», commentai.

    Mia madre scrollò le spalle. «Ha accennato al fatto che si tratta dell’ultima che la squadra avrebbe giocato prima della pausa natalizia, o qualcosa del genere. Non lo stavo ascoltando».

    Non lo faceva mai, lei detestava il calcio.

    Sorrisi. «In tal caso, vuoi andare a fare colazione anziché pranzare insieme? Devo recarmi da Smyths nel pomeriggio e preferirei farlo quando c’è più tranquillità. Sicuramente la gente si intrufolerà all’ora di pranzo per comprare gli ultimi regali».

    Smyths era un enorme negozio di giocattoli.

    Mia madre aggrottò la fronte. «Cosa ti sei dimenticata di comprare?».

    Feci una smorfia. «Perché pensi che mi sia dimenticata di comprare…».

    «Neala».

    Il suo tono da ora-me-lo-dici mi fece sospirare.

    «Una bambola per Charli», borbottai, evitando il suo sguardo.

    Charli era mia nipote. Aveva cinque anni, era malefica e adorabile al tempo stesso, ma era anche graziosa abbastanza da farti dimenticare quanto fosse realmente diabolica.

    Qualche settimana prima mi aveva confessato che desiderava una bambola per Natale, e le avevo promesso che l’avrei accontentata. Questo accadeva prima che mi rendessi conto di quanto sarebbe stato difficile trovare proprio la bambola che voleva.

    Mia madre spalancò gli occhi. «Natale è tra sei giorni!».

    Non ricordarmelo.

    Sussultai. «Lo so, anche se devo dire in mia difesa che ho provato a comprare online la bambola che voleva, ma a causa del maltempo gli ordini sono bloccati fino a gennaio; così ho annullato il mio e mi hanno restituito i soldi. Ho provato anche su altri siti, ma ovunque è esaurita, oppure non è possibile effettuare alcuna consegna fino al nuovo anno».

    Mia madre si portò una mano sul viso e si pizzicò il dorso del naso. Ci avrei scommesso che avrebbe voluto bere qualcosa di più forte di una tazza di tè.

    Quando ero piccola, lei era quel tipo di madre che iniziava a fare i suoi acquisti di Natale ad agosto e non lasciava mai nulla all’ultimo minuto. La irritava il fatto che non avessi mai sviluppato quella caratteristica.

    «Con te le cose non sono mai facili», mormorò, sorseggiando il suo tè.

    Sbuffai, aveva ragione.

    «Stai dicendo che sono una persona difficile?», sorrisi diabolicamente.

    Mia madre fece una risatina. «Tesoro, sei stata difficile dal giorno in cui sei nata. È una caratteristica che hai in comune con Darcy».

    Sentendo il suo nome, il sorriso sul mio volto scomparve e strinsi la presa sulla tazza.

    «Non pronunciare il suo nome in questa casa», dissi nel modo più educato possibile.

    Mia madre sospirò in maniera drammatica. «Per l’amor di Dio, Neala, hai venticinque anni, non cinque. Sia tu che Darcy dovete smetterla con questa infantile… cosa che avete l’uno contro l’altra».

    La cosa si chiamava odio.

    Brontolai irritata. «Lo odio, e lui odia me. Punto. Fine della storia».

    Mia madre si curvò, sospirando. «Ma è un giovanotto così gentile, Neala. Non potresti…».

    «Mamma! Abbiamo già avuto questa conversazione un miliardo di volte. Non avrò mai alcun tipo di relazione con Darcy Hart, e questo è quanto».

    Dovetti poggiare la tazza sul tavolino di fronte a me, perché all’improvviso mi venne voglia di lanciarla contro il muro.

    Mi appoggiai allo schienale e incrociai le braccia al petto, in preda alla rabbia. Questo improvviso cambio di umore era esattamente l’effetto che mi faceva Darcy, o qualsiasi riferimento a lui.

    Mia madre mi guardò sollevando un sopracciglio e mi sorrise.

    Sbattei le palpebre. «Perché sorridi?».

    Scrollò le spalle. «Niente, Neala. Vado a riempirmi la tazza».

    Con gli occhi socchiusi, la guardai alzarsi e lasciare la stanza. Aveva in mente qualcosa, e questo mi preoccupava. Allungai la mano, mi portai la tazza alla bocca e bevvi un bel sorso del mio tè per calmare lo stomaco scombussolato.

    Darcy Hart.

    Mi rimproverai mentalmente.

    Odiavo pensare a Darcy, parlare di Darcy, vedere Darcy, sentir parlare di Darcy.

    Semplicemente odiavo Darcy.

    Dicono che odio sia una parola forte e un’emozione ancora più intensa. Sono d’accordo, perché l’ardore con cui odiavo Darcy mi aveva riempita completamente. Il sentimento non era unilaterale, quell’uomo mi detestava tanto quanto io detestavo lui, ecco cosa c’era tra noi. Era così da sempre. Ci odiavamo a vicenda, e questo è quanto.

    La faida era cominciata quindici anni fa, avevamo entrambi dieci anni. Eravamo a scuola quando tutto cambiò. Fino a quel momento eravamo stati amici. Migliori amici. E passavamo così tanto tempo insieme che si poteva dire che l’uno fosse l’appendice dell’altra.

    Poi arrivò una ragazza.

    Darcy aveva una cotta per una ragazzina della nostra classe, una ragazzina che io disprezzavo. Era una persona orribile, e se la prendeva con me di continuo per il solo fatto che esistevo.

    Laura Stoke.

    Rovinò tutto e cambiò la mia vita.

    Potrà sembrare drammatico, ma Darcy faceva parte della mia quotidianità: c’era sempre stato, finché un giorno non ci fu più.

    Una volta, durante la pausa pranzo, l’intera scuola si trovava fuori in cortile a giocare e a scatenarsi prima di dover tornare a quella brutta cosa che è lo studio. Poggiai la testa sul divano mentre ripensavo a quel giorno, quando tutto è cambiato.

    Quindici anni prima…

    «Neala?».

    Mi voltai quando Shannon Burke, una ragazza vicino alla quale ero solita sedermi durante l’ora di matematica, mi chiamò. Sorrisi notando che stringeva due corde tra le mani.

    Corde per saltare da sole!

    «Dove le hai prese?», le chiesi precipitandomi al suo fianco.

    Era quasi impossibile riuscire a procurarsi quelle corde, le ragazze dell’ultimo anno le richiedevano sempre per prime. Tutte le alunne più piccole dovevano accontentarsi solitamente di una corda che fosse abbastanza grande per poter giocare in gruppo.

    Corde così, mai!

    «È fantastico!», strillai per la gioia.

    Ci mettemmo a un metro di distanza l’una dall’altra e iniziammo a saltare. Cantavamo e ridevamo se l’altra confondeva le parole o mancava un salto, cadendo quando le corde si aggrovigliavano tra le gambe.

    Stavamo giocando solo da pochi minuti, quando Shannon improvvisamente smise di cantare, di sorridere e di saltare.

    Aggrottai la fronte, smisi di saltare anch’io e la osservai.

    «Cosa c’è che non va?», chiesi preoccupata.

    Guardava dietro le mie spalle ma, quando iniziai a parlare, subito spostò lo sguardo ai suoi piedi.

    «Shannon, sei…».

    «Avete finito con quelle corde?».

    Un freddo glaciale si sparse sulla mia pelle quando udii la voce di Laura Stoke risuonare nel mio orecchio.

    Strinsi saldamente la mia corda e mi voltai per affrontarla.

    Fui sorpresa di trovarla così vicina a me, perciò feci un passo indietro, finché mi fu possibile vederla per intero.

    Mi schiarii la voce.

    «Le abbiamo appena prese, Laura».

    Provai a tenere il veleno fuori dalla mia voce, ma trasparì comunque nelle mie parole. Odiavo Laura, la odiavo da sempre. Era terribile nei miei confronti e aveva fatto sempre di tutto per rendermi infelice senza motivo.

    Senza alcuna ragione.

    Laura incrociò le braccia al petto e mi fissò.

    «Ci state giocando da un sacco di tempo».

    La guardai stupita. «È una bugia».

    «Mi stai dando della bugiarda?», chiese socchiudendo gli occhi.

    Alzai la fronte. «Dato che stai mentendo, sì, ti sto dando della bugiarda».

    Il suo sopracciglio sinistro si contrasse. «Dammi le corde».

    La guardai dall’alto in basso, sconcertata dal fatto che mi avesse dato un ordine come se fossi la sua piccola schiava.

    «No, ci stiamo giocando noi. Te le daremo tra qualche minuto…».

    «No», Laura mi interruppe. «Le voglio ora».

    Avrebbe dovuto passare sul mio cadavere.

    «Non so chi ti credi di essere, ma non le avrai».

    Non mi resi conto di quello che accadde per qualche istante; so solo che un attimo prima ero in piedi e l’attimo dopo ero con il culo a terra.

    La guardai sorpresa e trasalii, mentre le pulsazioni si spargevano lungo il retro delle mie cosce e il mio sedere.

    Mi aveva spinto.

    Non era la prima volta che Laura si scontrava fisicamente con me, ma era la prima che lo faceva nel cortile, di fronte ad altre persone. Solitamente si limitava a urtarmi con la spalla e darmi degli spintoni quando la incontravo nei corridoi.

    Era il peggior tipo di bullo.

    Guardai alla mia destra e alla mia sinistra e notai che una piccola folla di studenti aveva cominciato a formarsi intorno a noi. Sollevai lo sguardo verso Laura, che aveva in mano una corda per saltare – la mia – e stava per strappare anche quella nelle mani di Shannon.

    Quando Laura tentò di afferrarla, Shannon non fece nulla per impedirglielo; lasciò praticamente cadere la corda come se fosse in fiamme. Si rifugiò poi tra la folla e mi lasciò da sola di fronte a Laura.

    Con rabbia mi alzai in piedi, afferrai le due corde nelle mani di Laura e tirai, trascinandola in avanti.

    «Ridammele!», sbottai.

    «No!», gridò, cercando di liberarle dalla mia presa.

    Quando capì che non avevo intenzione di arrendermi, sollevò la mano sventolandola nella mia direzione.

    Abbassai il capo appena in tempo. La sua mano fluttuò nell’aria con un fragoroso whoosh, proprio dove pochi istanti prima era la mia testa.

    Aveva cercato di colpirmi… ancora!

    «Che sta succedendo?», sentii la voce di Darcy sovrastare gli studenti che intonavano in continuazione: «Botte!».

    Senza pensarci e con un dolore che si spargeva lungo le spalle e le gambe, chiusi la mano destra in un pugno, lo tirai indietro e lo scaraventai direttamente verso la faccia di Laura.

    Lanciò un urlo e lasciò cadere le corde, portando entrambe le mani al viso; inciampò all’indietro, atterrando con un tonfo che si levò sopra al coro dei ragazzi.

    Ahi.

    «Neala! Ma che diavolo?».

    Posai lo sguardo su Laura per scoprire che Darcy era in piedi di fianco a lei, con la rabbia negli occhi mentre fissava… me?

    Cosa?

    «Perché mi guardi così?», domandai mentre un dolore all’improvviso si diffondeva su tutta la mia mano.

    Dannazione, picchiare qualcuno fa davvero male!

    Strinsi la mano sul petto e fissai Darcy che, con disgusto, scuoteva la testa nella mia direzione. Trasalii quando lo vidi piegarsi in basso, verso Laura che stava piangendo, posandole una mano sul viso.

    «Fammi vedere», gli sentii dire.

    La rabbia mi pervase.

    «Darcy!», urlai. «Cosa stai facendo?».

    Seriamente, che diavolo stava facendo?

    Non mi guardò, né mi diede una risposta; mi ignorò completamente e si concentrò su Laura. Non potevo crederci; si prendeva cura della ragazza che mi aveva fatto del male.

    Mi ferì ancora di più il fatto che si stesse chiaramente schierando dalla sua parte.

    «Darcy, lei…».

    «Cos’è successo qui?», una voce profonda squarciò improvvisamente i forti mormorii della folla di studenti.

    Un insegnante.

    Merda.

    «Uhm, be’, veda…».

    «Neala mi ha dato un pugno in faccia!», si lamentò Laura.

    Non so perché, ma trasalii nel momento in cui Laura fece la spia, come se fossi del tutto innocente nonostante sapessi benissimo di averla colpita.

    «È vero, Neala?».

    Quando vidi che l’insegnante era il signor Halford, di colpo iniziai ad aver paura.

    Era noto per essere molto duro con gli studenti, quando si arrabbiava.

    Rimasi in silenzio per un lungo istante e, prima che il signor Halford potesse ripetere la sua domanda, intervenne Darcy. «È vero, signore. Neala ha dato un pugno Laura».

    Era come se il terreno sotto di me si fosse aperto e mi avesse inghiottito.

    Sentii la mascella cadere a terra, gli occhi spalancarsi e lo stomaco agitarsi.

    Darcy non ebbe il coraggio di guardarmi dopo avermi mandata al patibolo; rimase concentrato su Laura.

    Stupida Laura.

    «Neala, vieni con me», sospirò il signor Halford, poi si rivolse a Darcy: «Porta Laura in infermeria per farle fare un controllo».

    Darcy si limitò ad annuire, aiutando Laura a rimettersi in piedi. Volevo piangere, ma mi rifiutai di farlo davanti a tanta gente. Avevo voglia di urlare che non era colpa mia, ma non mi uscirono le parole.

    Era come se fossi congelata.

    Seguii l’insegnante sulle mie gambe tremanti, mentre Darcy si dirigeva verso l’infermeria insieme a Laura. Questa separazione mi fece bene perché avevo bisogno di tempo per riflettere.

    Dovevo pensare attentamente a tutto quello che avrei detto a Darcy; volevo che fosse davvero dispiaciuto per ciò che mi aveva appena fatto.

    I trenta minuti successivi furono pieni di lacrime, suppliche e ci fu anche una sofferente chiamata da parte della segretaria a mia madre, visto che non la smettevo di piangere.

    Fui sospesa dalla scuola; era comprensibile che non riuscissi a calmarmi.

    Ero veramente nei guai e nessuno credeva che lo avessi fatto solo per legittima difesa.

    Non so dire se si era trattato realmente di difesa perché quando avevo colpito Laura provavo un sentimento di rabbia, ma lei dal canto suo mi aveva spinto a terra e mi aveva fatto male. Gli insegnanti, d’altra parte, non credevano che questo valesse una sospensione, mentre il mio pugno sì.

    Ero a pezzi.

    Ero triste, arrabbiata, e stavo morendo dalla preoccupazione per ciò che i miei genitori avrebbero fatto quando sarebbero venuti a prendermi a scuola; ma, soprattutto, ero abbattuta per Darcy.

    Provavo rabbia nei suoi confronti, non si era minimamente preoccupato per me. Voglio dire, ero io la sua migliore amica. Non Laura. Lui la trovava carina, in realtà era solo una stupida ragazzina. Non avrebbe dovuto preferire un’altra alla sua migliore amica…

    Non era giusto.

    Non mi aveva dato nemmeno la possibilità di spiegare, non si era disturbato di ascoltarmi, il che non era da lui. Tutto quello che aveva fatto non era da lui. Semplicemente, non capivo nulla di quanto fosse successo.

    «Neala?».

    Sollevai lo sguardo e sgranai gli occhi, allora vidi Darcy in piedi all’ingresso della segreteria.

    Parli del diavolo.

    Tirai su col naso e abbassai lo sguardo sul mio grembo.

    «Stai bene?», mi chiese.

    Annuii, anche se la mano mi faceva male da morire.

    «Laura invece no», rispose con noncuranza. «Ha l’occhio e la guancia contusi per quello che le hai fatto».

    Mi voltai verso di lui. «Ha iniziato lei! Non l’avrei mai fatto se non mi avesse spinta a terra!».

    Darcy rispose accigliato: «Ha detto che non volevi darle le corde per saltare».

    «Quindi questo la autorizza a buttarmi a terra?», tagliai corto, la mia tristezza si stava trasformando in cieca rabbia.

    «Cosa? No, ovviamente…».

    «Ma perché ti importa di lei?», sbottai. «Sono io la tua migliore amica e non ti sei neanche preoccupato di vedere se stessi bene. Sei corso da lei e hai

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