Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Briciole di pane: Diario della mia prima vita
Briciole di pane: Diario della mia prima vita
Briciole di pane: Diario della mia prima vita
E-book229 pagine2 ore

Briciole di pane: Diario della mia prima vita

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Seguendo le briciole dei ricordi provo a ricomporre in questo scartafaccio alcune istantanee della mia prima vita, inchiostrate da didascalie, prima che sfuggano  come fantasmi sbiaditi al ricatto della memoria.
LinguaItaliano
Data di uscita21 ago 2022
ISBN9791221388336
Briciole di pane: Diario della mia prima vita

Leggi altro di Franco Lissandrin

Autori correlati

Correlato a Briciole di pane

Ebook correlati

Biografie e memorie per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Briciole di pane

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Briciole di pane - Franco Lissandrin

    Introduzione

    Seguendo le briciole dei ricordi della mia prima vita, provo a ricomporre in questo scartafaccio alcune istantanee, inchiostrate da didascalie, prima che sbiadiscano come fantasmi al ricatto della memoria.

    1 - 1955

    Il profumo del pane

    Mi chiamo Franco. Quasi 7 anni. Età nella quale si contano anche i mesi.

    Settembre 1955.

    Agganciato alla mano della mamma, avevamo percorso parecchia strada dalla stazione delle corriere, con l’odore acre degli schizzi di vomito che mi ero esploso addosso nauseato dalle esalazioni di nafta del vetusto mezzo di trasporto.

    Era il mio primo viaggio fuori paese verso una meta da incubo.

    Papà, con la valigia di cartone marron, ci precedeva lungo il selciato sconnesso sotto i portici nei vicoli del quartiere Savonarola, nella città vecchia, districandosi in un labirinto di muri devitalizzati che assorbivano il rumore dei nostri passi scomposti. La luce ancora mattutina di quel fine settembre, frastagliata dai tetti e assorbita dalle finestre scure dei piani alti, perdeva vigore nel creare ombre disordinate.

    Quel peso che mio padre passava da una mano all’altra conteneva solo cose elencate e numerate in una lista. Niente giocattoli e consolazioni dolciarie.

    «…ti porto in collegio!» era il ritornello inquietante che mia madre poneva a chiusura di ogni rimprovero.

    Nessuna parola poteva alleviare lo sgomento di un bambino turbato dalle ripetute minacce che aveva percepito come prossime alla materializzazione.

    Non poteva essere solo intimidazione.

    E non potevo oppormi a coloro che chiamavo mamma e papà.

    I «No! Non voglio!» dei piccoli, a quei tempi, beneficiavano di scarsa considerazione e di nessun supporto pedagogico a causa di un metodo educativo ancestrale basato sulla velocità e sull’efficacia dell’impatto delle mani paterne o materne sulle guance dei pargoli petulanti.

    Rimuginavo le cause della mia deportazione, i misfatti compiuti e le colpe che i gemelli (un paio di individui partoriti due anni e mezzo prima del mio turno) in combutta avevano scaricato sulla mia fedina penale.

    Quindi due contro uno. E così le bugie entrarono a far parte del mio sistema immunitario, un’autodifesa naturale dai risultati deleteri, che non produssero alcuna attenuante per un castigo incombente e davvero smisurato.

    Quel giorno tutti gli interrogativi su ciò che stava accadendo rimasero inghiottiti dall’angoscia e il sorriso sepolto sotto una maschera di tristezza.

    Mio padre depose a terra la valigia; davanti ad un portone scuro. Alzò la testa per leggere la scritta sovrastante: ISTITUTO PER L’INFANZIA ABBANDONATA. In prima elementare avevo imparato l’abc, ora, a testa bassa, leggevo i miei sandaletti.

    Strinsi forte la mano di mia madre per trasmetterle la paura che mi aveva piombato i piedi.

    Dai miei genitori non venne pronunciata alcuna parola di conforto o di incoraggiamento mentre attraversavo quel confine che l’immaginazione non era mai riuscita a definire. Il cigolio del portone sbattuto con forza alle spalle gelò la cascata di lacrime che tenevo pronte per l’addio.

    Davanti a noi apparvero in controluce due sagome inquietanti.

    – Sono il direttore (Tegamino) – proferì la voce stridula e ruvida di un orchetto scheletrico e spelacchiato che mi scrutava dalla fessura tenebrosa delle sue valve oculari.

    Il panico mi afferrò la gola e spense all’istante l’apparato sensoriale. Ansimavo in cerca di fiato. Sguardo assente, corde vocali afone, percepivo ronzii, non più voci.

    Ora gli incubi prendevano la forma della disperazione e le ingenue fantasie allertate per la fuga non oltrepassavano i muri dell’androne.

    Scosso sulla spalla, riconobbi la mano pesante da contadino di mio padre che mi scostava per cedermi alla seconda sagoma: un ragazzo magro con i pantaloni lunghi mi fece cenno di seguirlo afferrando la mia valigia.

    (Riesumando questo episodio dalla discarica dei ricordi, non trovo il filo per cucire i brandelli del mio animo frantumato.)

    Preso al guinzaglio dal tutore, afflitto, mi lasciai consegnare senza reagire.

    Gli tenni dietro sulla rampa delle scale fino al piano superiore.

    «Chiamami Trapletti». Proferì secco. Mi sembrava un ordine.

    «Trapletti» ripetei con voce sommessa e tremula. Fu la prima parola a rompere i sigilli delle mie labbra. Un cognome buffo, quasi un soprannome. Lo registrai con un impercettibile ghigno di rabbia, un piccolo segnale di ripresa dal trauma. (Dichiarare il nome sarebbe stato troppo confidenziale. Lì, avere o essere chiamati con un cognome era motivo di orgoglio e di potere.)

    «Tu sei il centotrentasette» e terminò l’appunto senza degnarmi di uno sguardo, allungando il passo. Lo seguivo.

    Mi assegnò un’anta nella trafila di armadietti azzurrini, un letto in ferro color azzurrino, un posto fisso nel refettorio. Tutti con il numero 137.

    Un pensiero mi accartocciò la fronte. Qualche giorno prima, a casa sul ripiano della Singer, avevo notato un nastro bianco con quel numerino rosso ripetuto di fila. Quindi mia madre sapeva tutto. C’era premeditazione. Io ero già il numero uno-tre-sette, come le mutande e i calzini.

    Avrebbe potuto darmi delle spiegazioni, o rassicurarmi anche con bugie materne. Ora la realtà mi faceva più paura.

    Non rividi più i miei genitori. Svanirono senza un saluto.

    Nessuna raccomandazione.

    Non una carezza.

    Non una lacrima di ricordo da fissare nella mia mente.

    Per un addio sarebbero state necessarie parole che non avrei capito.

    Ciò che legava il dovere dei genitori verso i figli venne reciso come un cordone ombelicale. Forse ero troppo piccolo per conoscere quella verità nascosta.

    La guida taciturna mi impose di seguirlo con un cenno dell’indice ad uncino, come stesse premendo ripetutamente il grilletto di una pistola virtuale. Lo tallonai fino a uno stanzino occupato da una sedia con le gambe lunghe e un tavolino con un attrezzo sul piano che riconobbi come la macchinetta per la tosatura degli scalpi. Venni rasato alla pari del resto del gregge. Semplice operazione anti pidocchi. Una prassi.

    «Libero!» sentenziò poi scacciandomi via con un gesto della mano come una mosca fastidiosa. «Aria, smamma e fai come gli altri» aggiunse incornando l’aria con un breve scatto della testa a indicarmi la direzione del cortile.

    Avevo messo piede in un nuovo mondo popolato da bambini e ragazzi sconosciuti.

    Pantaloncini corti, capelli cortissimi, e un paio di curiosi per il nuovo arrivato. Sguardi sospettosi, come fossi un cane appena accalappiato e portato in gabbia a restringere il loro spazio vitale o ridurre la porzione di cibo. Non ostili, rassegnati. Dopo un’occhiata silenziosa si dileguarono bisbigliando e saltellando a confondersi nello sciame dei simili. Erano figli della stessa madre. Non quella. Della guerra. Orfani, dimenticati, abbandonati o non riconosciuti.

    Sembravamo tutti uguali. Piccini da lontano, più alti da vicino.

    Quelli piccoli piccoli, come me, giocavano emarginati per non farsi travolgere nel polverone dalle orde di segugi sguinzagliati sulle tracce dei palloni.

    Nessuno mi chiese come ti chiami? che numero sei?

    Ero un altro nessuno. Disperso tra dispersi. Ciascuno a difendere il proprio fardello di vita repressa.

    Mi sentivo un invisibile nell’indifferenza del branco.

    In disparte a guardare il niente, in attesa di qualcosa e sperando che nulla accadesse.

    L’uno-tre-sette era solo uno di loro.

    La prima notte

    Respiravo l’odore del buio con la testa sotto il cuscino. Pensavo che il sonno potesse ricongiungere il corpo all’anima rimasta fuori. E domani mi sarei svegliato a casa nel mio letto. E poi la tazza di latte appena munto e l’ovetto ancora caldo, e poi fuori a giocare, e le rondini a volteggiare sotto il portico della stalla, e poi correre scalzo per i campi.

    Masticavo il pianto mordendomi le labbra, in silenzio perché lì nessuno mi poteva consolare.

    Quando non c’è via di scampo bisogna mettersi con la pancia in su come i pesci e farsi trasportare dalla corrente. Questo mi aveva insegnato Dino in prima elementare, il maestro, anche di vita.

    Che altro fare? Vada come vada.

    Respirare, respirare, uno sbuffo dopo l’altro. Il sonno mi prese in consegna dopo un lungo sospiro in mezzo a tanti fiati.

    La disciplina

    Semplici le regole: ubbidire e filare dritti senza fiatare.

    Dalle 6 del mattino alle otto di sera i tempi venivano scanditi dalla campanella: erano ordini precisi e sequenziali, a iniziare dai compiti del mattino imposti come doveri fondamentali.

    Imparai a scopare con la segatura umida, a pulire i cessi con spazzolone e disinfettanti, a preparare infinite tavolate allineando piatti e bicchieri di alluminio tutti ammaccati. A rifare la branda. A marciare in fila per due. Ammutolito fino a spegnere la voce.

    Il resto delle giornate presero la forma di abitudine, quella che erode il tempo e consuma i giorni privandoli della propria vita.

    La sera, dopo l’ultimo scampanellio, il silenzio ad aumentare il volume della notte.

    Dalla disciplina al rigore

    Nessuna leggerezza ammessa. Scherzi neanche a parole. Se veniva rilevata anche una ingenua furbata erano guai per il malcapitato. Niente rimproveri, solo punizioni a totale discrezione dei sorveglianti, quelli con le Braghe Lunghe.

    La scala delle sanzioni inflitte spaziava dalla costrizione fisica ad iperattività prolungate o all’immobilità corporea a tempo determinato; un surrogato di fantasie perverse ispirate al 'Prontuario del Giovane Sadico'. Il tutto subìto nella totale indifferenza dei compagni, come se il lupo cattivo avesse scelto quell’altro al posto loro, impuniti, pervasi da un’intima soddisfazione per il pericolo scampato nonostante una mal celata rassegnazione.

    Imparai in fretta, rimediando solo qualche scapaccione di striscio.

    (I Braghe Lunghe erano ragazzi cresciuti in cattività, non più adottabili a causa dell’affacciarsi della peluria. Alcuni uscivano quotidianamente dall’istituto per imparare qualche mestiere, altri venivano selezionati e addestrati per fare rispettare l’ordine e la disciplina. Praticamente una vita di merda da scaricare addosso al prossimo. Capetti con innata propensione alla vessazione: presuntuosi con la mira di elevare lo standard di docilità degli affidati da conservare privi di identità caratteriale, qualità indispensabile nei fanciulli da esporre.

    I più deboli pagavano il conto. E qualcuno riscuoteva.)

    Un bambino triste fa tenerezza, e si piazza più facilmente. A volte succedeva che uno della mandria fosse additato dal Tegamino - il direttore -, e prelevato da uno dei Braghe Lunghe di turno. Dopo una ripassata in acqua e sapone, veniva scortato nell’androne per una rassegna da parte di una coppia di sconosciuti sorridenti e ben vestiti. Esaminavano l’esposto prima da lontano, a seguire lo squadravano davanti, dietro e di profilo, infine gli chiedevano il nome - il cognome sarebbe potuto diventare quello degli avventori - in cambio di una manciata di caramelle. Tornava poi a giocare con le tasche gonfie di felicità.

    A me questa sorte non non fu mai concessa perché privo del requisito fondamentale: non ero orfano.

    Anche la felicità creava sgomento.

    L’assuefazione

    La nuova esistenza si stava delineando, sotto un profilo intransigente, nel segno del sospetto e della paura. Dietro la paura si insinua l’odio, un sentimento di ostilità che prima non conoscevo. Ogni forma di libertà era di fatto negata. Quella fisica delimitata da muri in grado di disarmare la fantasia. Quella di parola a discrezione dei sorveglianti. Amicizie o solidarietà venivano sciolte sul nascere, considerate pericolose come aggregazioni sovversive. Per sopravvivere bisognava farsi più piccoli, muti, invisibili per eludere gli sguardi a punta dei Braghe Lunghe, il cui compito primario consisteva nel cancellare sorrisi e illusioni.

    Parentesi gastronomica

    Il vitto distribuito alla mensa, in genere non era contemplabile nella piramide alimentare.

    Nessuna tentazione per la gola. Nutrirsi era un semplice dovere imposto per eludere la soglia della commestibilità. Di gusti ignoti al palato, dalla tracciabilità olfattiva sgradita, e da tenere sotto controllo visivo per individuare corpi estranei non omologati come alimenti per umani.

    Menu ristretto e poche le variabili.

    Eccone qualche assaggio.

    - Il latte. Alimento base ottenuto chimicamente dalla mutazione di una polvere bianca collosa mescolata con acqua calda. Privo di indicazioni di filiera.

    - Il pane. Surrogato del chewing gum. Ideale per imprimere il calco dentario. Senza data di scadenza.

    - La sbobba (termine onomatopeico). Ammasso di stelline espanse in una brodaglia arricchita di varietà botaniche affogate con annessi fitofagi resi sterili da una prolungata cottura.

    - Polpette. Grumi di poltiglia dal colore inquietante, composti di vari ingredienti amalgamati, materie in parte già transitate sui nostri piatti sotto altri aspetti e doverosamente riciclati. Merce poco adatta

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1