Il tempo dell'anima
Di Eliana Fusai
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E la voce di chi narra è di colei che ha vissuto costantemente lambita da insopportabili miasmi, senza capirne la ragione: semplicemente perché non c’è colpa nella figlità mancata.
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Anteprima del libro
Il tempo dell'anima - Eliana Fusai
Edizioni.
Il sogno
La scalinata della cattedrale della città è stata divelta, nella sua parte centrale, molto probabilmente da un fulmine.
Per valutare meglio mi avvicino con prudenza alle transenne che proteggono l’orlo della voragine.
Mi sento inchiodata al suolo. Non sono in grado di volgere lo sguardo dove vorrei: la mia attenzione viene calamitata da una figura maschile che, procedendo con incedere lento e mesto, bicicletta alla mano, proviene dal lato opposto del grande buco.
Impietrita mi rendo conto che io e mio padre siamo divisi dal baratro, l’una di fronte all’altro.
Tutt’intorno niente e nessuno, sotto un cielo che pare voler cadere.
Mio padre rallenta, china il capo e indugia.
Mi dà a intendere con il corpo che vorrebbe fermarsi, ma capisco che non ce la fa ed è costretto a tirar dritto.
Non può andarsene così!
Angosciata alzo lo sguardo verso l’imponente cattedrale e, con occhi supplichevoli, invoco Dio affinché mi aiuti a bloccare quell’ uomo.
L’intervento divino mi pare, in quel momento, atto dovuto!
Presto mi rendo conto che le mie speranze vengono disattese.
Un timido e ossequioso cenno di saluto, quasi un inchino, per poi scomparire lungo la fiancata della cattedrale con passo alquanto affaticato.
Urlo fortissimamente spingendo le transenne sino a farle oscillare.
Invoco disperatamente mio padre, ma una forte resistenza mi si oppone paralizzando ogni parte del mio corpo.
Convulsamente aggrovigliata nelle lenzuola mi ritrovo, madida di sudore, in un letto diventato un baratro, con lo sguardo di mio padre ancora negli occhi.
Anche nel sogno, come nella vita, mio padre mi è sfuggito!
Mi sento disperata, così come disperate sono le lacrime che verso nel buio, nel silenzio della notte e delle quali voglio riappropriarmi recuperandole sulle labbra, prima che vadano perse.
Non avevo mai sognato mio padre prima e mai più l’ho sognato da quella notte.
Il riscatto dell'oblio
Oggi, dieci giugno duemila diciotto ricorre ventitreesimo anniversario della morte di mio padre e nella mente riaffiorano, del tutto confusamente, emozioni, sentimenti, ricordi.
Il proverbio il tempo è medico, tramandatoci da secoli di saggezza popolare, non per tutti vale.
Almeno non per me!
Il dolore piatto mi ha lasciato profonde cicatrici e non riconosce al tempo sufficiente potere lenitivo.
Così nel corso degli anni, ho dovuto attrezzarmi per riuscire a effettuare quella provvidenziale sospensione dei ricordi che mi consentisse salvifici periodi di tregua dal dolore.
Il mio oblio è un luogo magico, surreale, dove, son certa, non mi può accadere nulla di male: quando riesco a rifugiarmici mi sento in pace.
Così, la strategica dimenticanza mi consente di mettere, per alcuni periodi, cuore e mente al riparo della crudeltà del ricordo e mi si offre efficace e magica difesa mentre il tempo, piaccia o no, inesorabilmente scorre.
La curva dell’oblio è guardia alla mia parte consapevole, anche se, pur proteggendomi, non riesce a cancellare completamente i ricordi.
È quindi facile che, per via di circostanze fortuite e del tutto involontarie, io incappi in luoghi, persone, accadimenti che, in modo prepotente, facciano riaffiorare episodi spiacevoli apparentemente dimenticati o in latenza.
Ed è allora che le ferite si riaprono e il cuore ricomincia a sanguinare mentre la ragione accorre in suo soccorso per cercare di tamponare il dolore come può, come è capace.
Tale operazione è sempre, dico sempre, chirurgicamente devastante, ed è per questo che, a più di vent’anni dalla morte di mio padre, non ho ancora scoperto alcuna formula in grado di placare la mia angoscia.
Ogni qual volta una ferita che pensavo chiusa si riapre, il dolore riaffiora, si moltiplica, si amplifica.
Fuori dall’anima il tempo può fare molto, ma dentro l’anima non conta nulla.
Una sfera luminosa
Essere genitori è una condizione importante ma quasi mai si considera che, se da una parte vi sono un padre che vive la propria paternità e una madre che vive la propria maternità, dall’altra vi è un figlio che vive la propria figlità.
Termine, questo dal quale dubito dell’esistenza ma che dovrebbe, a mio avviso, entrare di diritto nel linguaggio corrente.
Figlità mi pare, infatti, il sostantivo più indicativo a definire la condizione di dipendenza fisiologica e psicologica che un figlio vive, suo malgrado, a partire dal momento in cui nasce.
Sia nel caso in cui, riguardo il concetto di creazione, si sposi la più classica teoria del venuto al mondo o la teoria più recente del gettato nel mondo, una considerazione viene d’obbligo: nessuno, mai, ha potuto scegliere di nascere.
Giocoforza, si evince che altri hanno deciso o non deciso per noi.
E questo da sempre!
Da qui al principio di ineluttabilità della non-scelta della propria fragilità, il passo è breve.
L’amara