L’Immaginazione non è uno stato mentale: è l’esistenza umana stessa: La presenza viva dei simboli dalla storia più antica fino ai giorni nostri, e l’importanza dell’immaginazione per scoprire e costruire il senso del mondo.
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Anteprima del libro
L’Immaginazione non è uno stato mentale - Francesco Boer
Francesco Boer
L’IMMAGINAZIONE NON È UNO STATO MENTALE:
È L’ESISTENZA UMANA STESSA
La presenza viva dei simboli dalla storia più antica fino ai giorni nostri, e l’importanza dell’immaginazione per scoprire e costruire il senso del mondo
Prefazione dell’editore
Scrittore seriale!
è l’epiteto con cui prendo in giro Francesco Boer, l’autore di questo libro; un gioco per rimarcare la sua prolificità nello scrivere e la sua cultura enciclopedica. Giammai lo si vedrà senza un libro in mano o rinunciare a qualche prelibatezza, segni di una profonda passione alla Conoscenza e allo sperimentare la Vita.
Questo libro è profondo e leggero al tempo stesso. Le pagine scorrono piacevolmente mentre Boer ci conduce nei sentieri tortuosi del simbolo. Compito non facile. Il simbolo ci parla ma, per farlo, pretende da noi un notevole sforzo di mondatura interiore. È uno specchio impietoso che non avrà scrupoli a rimandare al mittente la propria immagine del momento.
L’immaginazione non è uno stato mentale: è l’esistenza umana stessa
, così titola il libro. Cosa assolutamente vera, vediamo quello che siamo in grado di immaginare, prima, nella nostra mente. E il simbolo ci viene in aiuto, ci costringe ad essere parte attiva, fa luce sulle connessioni, allarga la nostra capacità di vedere, e perciò, di immaginare. Ecco che, d’improvviso, il nostro mondo diventa più grande, più vivido, più vitale.
Rocco Fontana
Invito
Il simbolo è una strada da percorrere, la via che collega il cuore dell’uomo al mondo che lo circonda. È il sigillo di un’unione, l’armonia fra l’immaginazione e la concretezza.
Grazie a questo legame il mondo che ci circonda può illuminarsi da dentro, aprendosi come un fiore che sboccia. È come un violino, che può suonare infinite melodie, ma che rimane muto finchè la mano del musicista non lo sfiora. Allo stesso modo il mondo esteriore contiene già in sè la gioia della bellezza e la splendida tragicità della vita, ma soltanto la mente sa farle risuonare. Senza lo strumento, d’altro canto, la melodia rimarrebbe un pensiero muto, confinato nella mente.
Come funziona il simbolo, come lo si legge, come lo si vive? Si potrebbe tratteggiare una teoria del simbolo, un impianto di leggi astratte e un infinito elenco di eccezioni. Preferisco però un approccio meno distacato. Impareremo come funziona il simbolo dall’osservazione diretta, interrogandolo e ascoltando quel che ha da dirci.
Vi invito dunque ad una passeggiata attraverso una Wunderkammer di simboli: una galleria di figure in cui l’uomo riflette il cosmo, di forme con cui il cosmo racconta il segreto dell’uomo. Parleremo di simboli, per comprendere la natura del simbolo. Li osserveremo con delicatezza, come se fossero fiori. Non li strapperemo, né useremo il bisturi per dissezionarli. Il simbolo è vivo, e per conoscerlo veramente bisogna lasciarlo in vita.
Impareremo strada facendo i trucchi e i trabocchetti dell’interpretazione, studiando la teoria tramite la pratica, nel confronto diretto col simbolo. Capiremo assieme le insidie che i simboli ci tendono, ma scopriremo anche l’enorme ricchezza che possono offrire alla nostra vita.
Raccoglieremo sogni, riti, suggestioni e leggende, ma avremo un occhio di riguardo anche per i simboli della nostra epoca. Il simbolo è una presenza viva che attraversa i secoli, e anche se il più delle volte non ci accorgiamo nemmeno della sua presenza, la sua voce è tutt’ora una forza centrale nella nostra cultura e nelle nostre vite.
Contro una definizione di simbolo
Prima di iniziare affrontiamo subito l’annosa domanda, che più di ogni altra getta confusione e discordia fra chi studia il mondo dei simboli: cosa vuol dire simbolo
?
Chi cerca la definizione della parola simbolo
si imbatte in un caos di formulazioni diverse fra loro, spesso anche discordanti. L’etimologia della parola simbolo
rimanda al termine greco "symbállein che significa
mettere insieme". Nell’antica Grecia era diffusa l’usanza di spezzare in due parti un oggetto, come ad esempio una moneta. Una delle due metà veniva conservata, mentre l’altra veniva consegnata ad un’altra persona. I bordi dei due pezzi, se riavvicinati, combaciavano perfettamente. Ciò offriva ai possessori la possibilità di riconoscersi reciprocamente senza possibilità di sbaglio. Da qui nacque l’uso figurato del termine, ad indicare appunto la rappresentazione concreta e visibile di una relazione.
Secondo la semiotica di Peirce, un simbolo è invece un tipo particolare di segno che denota il suo oggetto solamente sulla base di una convenzione sociale. Esempi concreti di tale modo di intendere il simbolo sono le parole: il termine uccello
non rappresenta di per sè l’animale volatile, se non tramite quel codice socialmente condiviso che è il linguaggio[1].
Di opinione del tutto opposta è lo psicologo Jung, che definì il simbolo come la miglior formulazione possibile per una cosa ancora sconosciuta.
"Così come io lo concepisco, il concetto di simbolo non ha nulla in comune con il concetto di segno.
Il significato simbolico e quello semeiotico sono cose diversissime. Nella sua opera sulle Leggi psicologiche del simbolismo, Ferrero tratta, a rigor di termini, non dei simboli, ma dei segni. Così, l’uso di offrire una zolla di terra all’acquirente di un fondo si potrebbe volgarmente chiamare «simbolico», mentre, in fondo, non è che semeiotico, poiché la zolla di terra non è che un segno che rappresenta il terreno acquistato. Egualmente, la ruota alata dell’impiegato delle ferrovie non è un simbolo della ferrovia, ma solo segno dell’appartenenza alla società ferroviaria. Un simbolo suppone sempre che l’espressione scelta designi o formuli il più perfettamente possibile certi fatti relativamente sconosciuti, ma la cui esistenza è stabilita o ritenuta necessaria. Se si scambia la ruota alata per un simbolo, ciò significherebbe che l’impiegato ha a che fare con un essere sconosciuto, il quale non può avere un’espressione migliore della ruota alata.
Vedere nell’espressione simbolica un’analogia o una designazione abbreviata di un fatto conosciuto è semeiotica. Avere la miglior formula possibile di una cosa relativamente poco conosciuta, che non si saprebbe altrimenti come designare, è simbolismo; al contrario, avere una trasformazione od una metafora voluta di un fatto conosciuto è allegoria. Così, l’interpretazione della Croce come simbolo d’amore divino è semeiotica, poiché l’espressione «amore divino» esprime il fatto in questione più esattamente che una Croce che può avere diversi significati. Simbolica, al contrario, è la concezione che, tralasciando ogni interpretazione possibile, considera la Croce come espressione di certi fatti ancora sconosciuti ed incomprensibili, mistici o trascendenti, cioè in primo luogo psicologici, che non sono rappresentabili se non con la Croce. Finché un simbolo è vivente, esso è la migliore espressione possibile di un fatto, ed è vivo soltanto finché possiede quel significato. Tuttavia, non appena si scopre l’espressione che formula la cosa ricercata, attesa e presentita, allora il simbolo è morto. Ciò nonostante, si può continuare a considerarlo come simbolo, a condizione di sottintendere che si parla di ciò che esso era quando non aveva ancora creato un’espressione migliore. Per San Paolo, come per l’antica speculazione mistica, la Croce era sicuramente un simbolo vivente; il modo in cui ne parlano, mostra che essa per loro era l’espressione suprema dell’ineffabile.
Per ogni interpretazione esoterica, il simbolo è morto, poiché essa riconduce sempre ad un’espressione che suppone più perfetta, riducendolo, così, ad un ruolo di segno convenzionale. L’espressione con cui si designa qualcosa di conosciuto è sempre un segno, mai un simbolo. Così, è impossibile che un simbolo vivente, cioè pregno di significato, prenda vita da rapporti noti.
Ogni prodotto psichico che, in un dato momento, è la migliore espressione di un fatto sconosciuto, può essere considerato come un simbolo, purché si sia disposti ad ammettere che essa esprime egualmente ciò che è solo presentito e non chiaramente conosciuto.[2]"
Il tradizionalista René Guénon fa invece sua quella che Jung definisce interpretazione esoterica
:
"Il simbolismo ci appare adatto in modo speciale alle esigenze della natura umana, che non è una natura puramente intellettuale, ma ha bisogno d’una base sensibile per elevarsi verso le sfere superiori. [...] In generale, la forma del linguaggio è analitica, «discorsiva» come la ragione umana di cui esso è lo strumento proprio e di cui segue o riproduce il cammino con la massima esattezza possibile; al contrario, il simbolismo propriamente detto è essenzialmente sintetico, e per ciò stesso «intuitivo» in qualche maniera, il che lo rende più idoneo del linguaggio a servire da base all’«intuizione intellettuale», che è al di sopra della ragione.[3]"
Insomma, sembrerebbe che sia impossibile mettersi d’accordo sul significato della parola simbolo
!
Lo stesso Peirce ebbe ad affermare che "La parola simbolo ha talmente tanti significati che aggiungerne uno nuovo vorrebbe dire far del male al linguaggio.[4]"
In fin dei conti, la definizione di un concetto non è per forza necessaria alla sua comprensione. Pensate alla vita: tutti sappiamo cos’è, eppure la definizione della parola vita
pone un problema filosofico ed epistemologico apparentemente irrisolvibile.
A volte cercare a tutti i costi una definizione rigorosa è persino controproducente: con essa si crea una gabbia che rischia di soffocare l’idea libera e volatile che cercavamo di afferrare da viva. In questi casi è preferibile quindi una comprensione intuitiva, che lasci respirare liberamente la parola.
Detto ciò è inutile che io vi fornisca una mia personale definizione di simbolo. Non farei che aggiungere una goccia a questo mare agitato da correnti contrastanti.
Trovo invece più utile riflettere su questa diversità, cercando di comprendere da cosa derivi questa discrepanza di vedute.
Vedute
, per l’appunto, è una parola chiave. Un antico racconto indiano, raccolto poi da Jalal al Din Rumi nel suo Mathnawi, racconta figurativamente un caso analogo.
Alcuni mercanti indiani portarono un elefante ad una fiera di un paese lontano, e lo chiusero in una stanza buia. La folla incuriosita si accalcava per vedere la bestia, ma siccome era buio dovettero accontentarsi di tastare l’animale con le mani. Uno toccò solamente la proboscide.
Una volta uscito, disse: «L’elefante è simile ad un tubo d’acqua».
Un altro tastò l’orecchio, e immaginò che la bestia avesse la forma di un grande ventaglio; un altro ancora toccò la gamba, e si convinse che la creatura avesse le sembianze di una possente colonna.
Non c’è solo un oggetto osservato, ma anche una pluralità di soggetti che lo guardano: la diversità nasce da qui.
Non è per forza detto, quindi, che per la parola simbolo
esista un’accezione giusta e altre sbagliate: prendiamole piuttosto come visioni parziali, che ci avvicinano ad una totalità che per il momento ci sfugge.
Note:
[1] Charles Sanders Peirce, Cos’è un segno?
[2] Carl Gustav Jung, Tipi psicologici
[3] Réne Guénon, Simboli della scienza sacra
[4] Charles Sanders Peirce, Cos’è un segno?