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Vita di Gneo Pompeo Magno: Un passaggio di un astro nel firmamento di Roma
Vita di Gneo Pompeo Magno: Un passaggio di un astro nel firmamento di Roma
Vita di Gneo Pompeo Magno: Un passaggio di un astro nel firmamento di Roma
E-book565 pagine8 ore

Vita di Gneo Pompeo Magno: Un passaggio di un astro nel firmamento di Roma

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Personaggio di personalità controversa, incline al narcisismo, e duce invitto fino alla sconfitta di Farsalo, Pompeo sviluppò un’eccezionale carriera al di fuori del tradizionale cursus honorum: la incominciò ponendosi al servizio di Silla con tre legioni personali reclutate nel Piceno, la continuò con splendide vittorie ottenute nei tre continenti e nel Mediterraneo, e la coronò con un terzo consolato, conseguito nell’apogeo della gloria. Al suo indiscusso valore sui campi di battaglia, non corrispondeva però un’altrettanta abilità di destreggiamento in àmbito politico. Per raggiungere il primato in Roma, cui aspirava, si legò con un patto triumvirale a Cesare, credendo di potersene facilmente liberare al momento opportuno. Ma le ambizioni del compagno di triumvirato superavano le sue e per assurdo nell’immensità dell’impero romano vi era posto soltanto per uno di loro due. Lo scontro decisivo avvenne a Farsalo il 9 agosto del 49 a. C. Pompeo, sconfitto, fuggì e fu ucciso a Pelusio dai sicari del faraone Tolomeo. Per oltre un trentennio aveva esercitato ininterrottamente un potere di essenza monarchica ma per l’opposizione a Cesare era stato considerato un reggitore democratico.  
LinguaItaliano
Data di uscita14 giu 2019
ISBN9788869632082
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    Anteprima del libro

    Vita di Gneo Pompeo Magno - Pasquale Frisone

    Pasquale Frisone

    VITA DI

    GNEO POMPEO MAGNO

    Il passaggio di un astro nel firmamento di Roma

    –––––––-

    DA PICENUM 29 SETTEMBRE 106 A. C.

    A PELUSIUM 28 SETTEMBRE 48 A. C.

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2019 Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    elisonpublishing@hotmail.com

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    ISBN 9788869632082

    Detti famosi

    Le armi sono strumento di sventura.

    Ricorrervi per lunghi periodi produce sciagura.

    Si dice:

    «Chi prova gusto a combattere e

    porta allo sfinimento i suoi soldati, sicuramente morirà»

    Sun Tzu, L’arte della guerra.

    Sinossi

    Gneo Pompeo, soprannominato da Silla: Magnus, controverso personaggio le cui luci e ombre sono state proiettate a noi dal biografo Plutarco, dominò i tre decenni della tarda repubblica romana, compresi tra la dittatura di Silla e la dittatura di Cesare. Benché egli sia stato uno dei più grandi conquistatori di tutti i tempi, fino ad arrivare a essere paragonato dai contemporanei ad Alessandro Grande il Macedone accostamento che mai rifiutò , la sua fama ci è giunta oscurata dalla grandezza di Cesare, l’uomo che più di ogni altro gli attraversò la vita, prima da alleato politico e da collega di triumvirato, poi da parente e infine da nemico mortale.

    La sua straordinaria carriera, avvenuta al di fuori del tradizionale cursus honorum, rappresentò un’eccezione in quell’epoca. Iniziò da capitano di ventura al comando di tre legioni irregolari messe al servizio di Silla, proseguì attraverso una sequela di vittorie militari ottenute nei tre continenti allora conosciuti e nel mar Mediterraneo, sui pirati, e nel punto più alto della gloria fu coronata dal conseguimento del terzo consolato assieme al suocero Pio Metello Scipione.

    Nell’avanzamento politico e militare gli fu di grande sostegno il coetaneo Cicerone, compagno d’armi nell’esercito di Pompeo Strabone e facondo oratore, che gli spianò la strada all’assegnazione del comando della guerra contro Mitridate, in sostituzione di Licinio Lucullo, e all’amministrazione degli approvvigionamenti (Cura Annona), in occasione di una carestia che colpì Roma nell’anno 57. Nella vita domestica mantenne salde le amicizie e si mostrò sempre affezionato verso le mogli e i tre figli, Gneo, Sesto e Pompea, avuti da Mucia Tertia.

    Vissuto in un’epoca in cui i potenti utilizzavano l’istituto del matrimonio come negoziazione di alleanze e amicizie politiche, si sposò cinque volte, ma fra tutte le consorti provò vero amore soltanto per Giulia, figlia di Cesare, presa in moglie a sigillo del patto triumvirale, dalla quale era corrisposto, nonostante lei gli fosse di trent’anni più giovane.

    La sua forza risiedeva nella profonda conoscenza arte militare, appresa fin da giovanissimo nel campo del padre Strabone ed esercitata fino alla fine dei suoi giorni. Generale prudente, impavido e preparato, ma di doti non eccelse, nelle azioni procedeva con una cautela che sfiorava l’impaccio, e sferrava il colpo decisivo soltanto quando si accorgeva di essere in preponderante vantaggio di forze sul nemico: circospezione che non gl’impedì di essere il primo duce romano a celebrare tre trionfi sui nemici vinti nei tre diversi continenti.

    Alla sua perizia militare non corrispondeva un’altrettanta avvedutezza politica. Poco abile a destreggiarsi nei meandri del Senato e mediocre oratore, non fu capace di sfruttare appieno la stima smisurata nutrita dalla plebe nei suoi confronti e tantomeno il bisogno dell’aristocrazia di aggrapparsi a lui per difendersi dall’attacco di Cesare. Di conseguenza non ebbe mai completamente dalla sua parte una delle due fazioni in cui era divisa Roma. Proprio per questo non divenne un capo partito nel senso pieno del termine e all’occorrenza fu costretto a chiedere sostegno a quegli uomini o a quel raggruppamento che al momento gli davano più garanzie. Dalla plebe, alla quale si era avvicinato, perché aveva contribuito con Crasso alla demolizione della costituzione sillana, si allontanò nel corso del terzo consolato per avvicinarsi alla nobiltà senatoria che, pur accogliendolo tra le sue fila per la necessità di combattere Cesare, non lo considerò mai un proprio membro. Difatti la sua famiglia, la gens Pompeia, era di provenienza aristocratica rurale e il padre Strabone nella guerra civile tra Mario e Silla aveva mantenuto una posizione equivoca non schierandosi apertamente con gli ottimati. Questa condizione di precarietà, esistente prima che incominciassero i contrasti con Cesare, lo portò a stringere un’alleanza politica triumvirale con lo stesso Cesare e Crasso, contro il Senato.

    Il triumvirato, a causa della sfrenata ambizione dei suoi membri, era destinato prima o poi a sciogliersi. L’uccisione di Crasso, avvenuta a Carre per mano dei Parti, e la successiva scomparsa di Giulia, morta di parto, ne accelerò il processo. Venuto meno il pegno di accordo tra Pompeo e Cesare, la spietata competizione tra genero e suocero, tenuta a freno dal comune amore verso Giulia, saltò fuori. A Pompeo non bastava essere il primo, voleva essere il solo. Cesare aspirava a un potere assolutistico, Paradossalmente nello sconfinato impero romano vi era posto soltanto per uno dei due. Ma mentre Pompeo si trascinava dietro le consuete incertezze, Cesare puntava all’obiettivo con fredda determinazione. La resa dei conti giunse il 9 agosto del 48 nell’assolata piana tessalica dell’antica Pharsalia. In meno di mezza giornata Pompeo perse la fama di condottiero invitto, acquisita con le vittorie sui campi di battaglia di Europa, Africa e Asia. Da allora in poi – scrive Cicerone – quel Grande uomo [Pompeo] smise di essere un generale e come il marinaio, reso famoso da Seneca, andò in giro per il mare in cerca di un rifugio. Ma non esistono porti sicuri per il navigante che non sa dove andare.

    La fuga si concluse a Pelusium, una città sul Nilo, alla falde del monte Casio. Secondo la tradizione, Pompeo per via di un oracolo sfavorevole aveva sempre tenuto in sospetto le persone di nome Cassio, ma da loro non aveva mai ricevuto alcun danno. Andò invece incontro alla morte ed ebbe sepoltura proprio nelle vicinanze di un monte chiamato Casio, il giorno precedente del suo cinquantottesimo genetliaco, nella ricorrenza del suo trionfo sui pirati. Si concludeva dunque con la morte, il suo sogno narcisistico di assumere in Roma il ruolo di primo cittadino, riconosciuto tale da tutti, al di sopra delle fazioni politiche cittadine e senza il ricorso alle armi. Per conquistare quella posizione di preminenza, raggiunta in futuro da Ottaviano Augusto, Pompeo aveva pensato di servirsi di Giulio Cesare e lo aveva innalzato, credendo di poterlo abbattere a suo piacimento e al momento opportuno. Cesare, invece, grazie all’importanza trasmessagli dall’avversario, divenne potente oltre l’immaginabile e da strumento altrui si trasformò in suo padrone e ne provocò la morte.

    Un pensiero dell’autore

    La vita di Pompeo ci fa apparire quanta debolezza e illusorietà presenti la natura umana e quanto mutabile sia la fortuna, la dea volubile che assegna e revoca i propri favori a occhi chiusi; per questo motivo l’ho scelta fra altre di eminenti personaggi storici vissuti nel periodo classico dell’antica Res publica romana. Per la stesura dell’opera mi sono avvalso di un’ultrasecolare documentazione storica, catalogata alla fine del volume, e per dare un’impronta di attendibilità alla stessa ho cercato quanto più possibile di attenermi alle testimonianze di quel vetusto passato. E quando le attestazioni pur non convergendo non sono state antitetiche, le ho contemperate. Altresì, per non deviare dalla strada maestra che mi ero imposto di percorrere, ho sempre badato a non farmi trascinare da supposizioni prive di fondamento storico e da sentimenti di simpatia o antipatia verso il personaggio, che potessero rendere più appetibile l’argomento, ma che in tal caso avrebbero falsato il contenuto saggistico. Per quanto mi è stato reso possibile dalla mia capacità scritturale, ho cercato di rendere la lettura scorrevole a quelle persone che per interesse storico, per curiosità o qualsiasi altro motivo vorranno leggere il libro. Almeno in questo spero di esservi riuscito.

    I

    Le origini e l’esordio sulla scena militare

    Se si vuole prestare fede alla narrazione leggendaria del filosofo di epoca Antonina, Marco Giuniano Giustino, Alessandro Magno mentre contemplava la ricchezza delle opere e dei beni di Dario fu colto da ammirazione di tanta magnificenza. Fu lì quindi che incominciò a indulgere in banchetti lussuosissimi e pieni di splendore e che s’innamorò di una bellissima prigioniera di nome Barsine dalla quale ebbe un figlio che chiamò Heracles¹. Alla morte del padre, Heracles per sfuggire a una congiura di palazzo ordita dai generali scappò dalla Frigia e riparò in Italia; nel Piceno sposò una nobildonna di nome Pompea e dal matrimonio nacque il primogenito della gens Pompeia. Per circa due secoli nessuno della progenie occupò cariche di vertice nello stato romano, finché nel 141 Quinto Pompeo Rufo, grazie alle spinte e al patronato degli Scipioni, divenne console insieme a Gneo Servilio Cepione².

    Per l’identificazione del cittadino di qualunque estrazione sociale, i Romani utilizzavano i tria nomina (tre nomi), un sistema tradizionale invalso presso i limitrofi settentrionali Etruschi. Il primo dei tre termini (praenomen) corrispondeva al nostro nome di battesimo, il secondo (nomen) indicava la gens di provenienza, il terzo (cognomen) derivava, in origine, da un soprannome riferito a un episodio realmente accaduto oppure a un tratto morale o fisico della persona e, essendo trasmesso da padre in figlio, serviva a distinguere la famiglia all’interno della gens di appartenenza. Stando al cognomen "Rufus" (Rosso), Quinto Pompeo Rufo doveva verosimilmente essere il discendente di un uomo dalla carnagione o dalla capigliatura fulva.

    Alla scadenza delle cariche consolari il Senato nell’anno successivo inviò Rufo in Spagna, con la carica di proconsole, per combattere contro la città di Numanzia. Nella penisola iberica il promagistrato con un comportamento a dir poco vergognoso dimostrò tutta la sua slealtà: convinse i nemici a stipulare un accordo amichevole e lo tenne nascosto. E quando Marco Popilio Lenate giunse a sostituirlo nel comando, negò di essere sceso a patti con i Numantini e istigò il governo romano a continuare la guerra³.

    Cinquantadue anni dopo, un altro membro della stirpe Pompea salì agli onori del soglio consolare: Gneo Pompeo Strabone Menogene⁴, un ricco latifondista originario del Piceno, che col supporto di una vasta clientela era riuscito a scalare uno dopo l’altro tutti i gradini del cursus honorum⁵, fino a raggiungere la massima carica dello Stato. Come si desume dal cognomen Strabonus, Pompeo Strabone era strabico e, da quanto apprendiamo da Gaio Plinio in Naturalis historia, in un secondo tempo gli fu aggiunto il soprannome di Menogene, il nome del suo cuoco, affetto anch’egli da una malformazione agli occhi⁶.

    Strabone in vita era stato un eccellente generale, bramoso di denaro e molto temuto per la sua intransigenza. Alla sua scomparsa, nel corso dello svolgimento dei funerali, l’odio accumulato dagli uomini che da lui avevano subito prepotenza, e che fino allora era stato tenuto a freno per paura della sua autorità, esplose violento e si manifestò con l’oltraggio del cadavere: le spoglie furono strappate dal carro funebre e scaraventate nel fango della strada⁷.

    Se però i Romani odiarono svisceratamente Strabone per il suo carattere prepotente e per la sua inappagabile avidità di denaro, con altrettanta intensità amarono il figlio omonimo, fino ad arrivare ad accostarlo ad Alessandro Magno, non tanto per le imprese compiute, che pure furono grandi e numerose, quanto per una vaga rassomiglianza fisica col Grande Macedone.

    Cicerone, che ebbe modo di conoscere approfonditamente Pompeo perché, oltre a essere stato suo coetaneo e compagno d’armi nell’esercito di Strabone, lo frequentò a lungo durante la vita, nella tredicesima Filippica lo descrive come un uomo in possesso di quattro virtù civiche di grande valore: ritegno, serietà, moderatezza e onestà, qualità difficilmente riscontrabili in un uomo voglioso di potere. A ragione dell'amicizia politica che legò i due illustri romani, il giudizio potrebbero sembrare di parte, qualora non trovasse conferma in Patercolo, che a sua volta definisce Gneo Pompeo, un giovane di eccezionale probità e rettitudine, cittadino di modestia esemplare e condottiero espertissimo, dotato di un fascino interiore presente in lui fino all’ultimo giorno di vita. Opinione, questa, da ritenersi abbastanza imparziale, in quanto scevra da conoscenze personali ed espressa dopo quasi un secolo dalla morte di Pompeo; di conseguenza, oltre a essere filtrata dal trascorrere del tempo, essa appare emendata da scorie di partigianeria e soprattutto da quelle accese passioni che nella guerra civile infiammarono gli animi di tanti uomini celebri.

    Cesare, in controtendenza, pur riconoscendo a Pompeo nei commentari la qualità di fedele servitore dello Stato, dotato di un’ottima preparazione militare, cerca d’insinuare il sospetto che il suo nemico fosse timoroso e superficiale⁸. Conosciamo, però, quanto il discendente di Venere fosse abile nel maneggiare non solo la spada ma anche la penna e come quest’ultima possa diventare strumento menzognero, se usata dai vincitori per incensare loro stessi e accollare ai vinti la colpa di aver provocato la guerra e tutti gli orrori che da essa ne scaturiscono.

    Per quel che riguarda l’aspetto fisico di Pompeo, una muta e credibile testimonianza proviene da una testa alta ventisei centimetri e senza busto, rinvenuta nella tomba dei Licini (una famiglia discendente da Pompeo per adozione) e conservata al museo Ny Calsberg Gliptotek di Copenaghen. Il reperto, raffigurante un uomo di età matura dall’espressione serena, dal viso disteso e con i capelli tirati leggermente all’indietro, corrisponde alla descrizione presentata da Plutarco in Vita di Pompeo ed è raffrontabile con il volto dell’effige impressa sugli stateri siciliani coniati dal monetiere Quinto Nasidio per conto di Sesto Pompeo e messi in circolazione durante lo svolgimento della terza guerra civile. Per la rimanente parte del corpo alcune statue dalla fisionomia idealizzata e non corrispondente alle dimensioni reali raffigurano Pompeo, in esposizioni permanenti di Milano e Roma, alla stregua di un eroe mitologico, pertanto sono poco credibili. In mancanza di un riscontro degno di fede, è preferibile immaginare che egli fosse di corporatura robusta ed equiparabile in determinate caratteristiche alla figura di Crasso, com’è tratteggiato da Plutarco nelle Vite parallele di Nicia e Crasso: «Entrambi [Pompeo e Crasso] avevano la stessa prestanza fisica, l’identica forza persuasiva nel linguaggio e pure la grazia seducente nel volto»⁹.

    Per quanto si conosce del padre, è da escludere che Pompeo avesse ereditato dal sinistro e crudele genitore le ammirevoli doti naturali e la gentilezza del viso; per quel che riguarda la madre, è noto che essa si chiamava Lucilia ed era nipote di quel Lucilio di Sessa Aurunca, poeta antesignano del genere letterario conosciuto col nome di satura (satira). I genomi della vena artistica ereditari di parte materna avrebbero dovuto trasmettere a Pompeo il dono di una spigliata oratoria, egli invece in pubblico non sapeva parlare senza imbarazzo e nella conversazione si mostrava spigoloso, rigido e impacciato, benché avesse una preparazione culturale elevata, dovuta all’educazione letteraria ricevuta nella pubertà dallo studioso Aristodemo da Nisa e dal retore Lucio Voltalicio Piluto, un liberto che ottenne notorietà per aver illustrato le carriere di Strabone e del figlio Gneo¹⁰.

    Riguardo alla vita condotta fino al raggiungimento della maggiore età, è presumibile che nel solco delle tradizioni romane il giovane Gneo nella pubertà, in occasione dei Liberalia che si celebravano il 17 marzo di ogni anno, abbia festeggiato l’emancipazione con il rito officium sollemne togae virilis e, dopo aver deposto sull’altare dei Lares (deità familiari) la toga praetexta e la bulla, si sia vestito con la toga virilis, l’abito per antonomasia indossato dai cittadini romani adulti di stato libero¹¹.

    Il fatto che, dopo essere stato registrato tra i maggiorenni nelle liste censorie, Pompeo scelse d’intraprendere la carriera militare e andò a condividere con il genitore la dura vita degli accampamenti, è ampiamente documentato dalle opere letterarie di Cicerone, Patercolo e Plutarco, tanto per citare alcune fonti di sicura credibilit๲, ed è testimoniato da una tavoletta di bronzo custodita nei Musei Capitolini di Roma. Su quest’ultima, in una striscia di cinquantanove nomi di uomini, al trentesimo posto figura impresso: Cn. Pompeius Cn. F. Clu. (Gneo, figlio di Gneo Pompeo della tribù Clustumina). La lista, in sostanza, elenca – sembra in ordine d’importanzai nomi, le paternità e le tribù di appartenenza dei consiglieri consultati dal console in carica Strabone, per l’assegnazione della cittadinanza romana a trenta cavalieri spagnoli di uno squadrone, che si erano distinti per valore nell’assedio di Ascoli. Del consilium facevano parte Marco Emilio Lepido (al decimo posto della lista), il rivoluzionario console dell’anno 78, e Lucio Sergio Catilina (al quarantaseiesimo posto della lista), il futuro cospiratore denunciato in senato da Cicerone¹³.

    Nell’anno 91, durante la celebrazione dei Ludi, i cittadini ascolani uccisero il propretore Quinto Servilio Cepione e il legato Fonteio, inviati dal Senato romano ad Ascoli per accertare se le voci che circolavano sulla vo lontà degli abitanti di ribellarsi a Roma corrispondessero a verità. Insieme ai due magistrati furono massacrati tutti gli altri cittadini romani presenti nella città. La sanguinosa vicenda diede l’avvio alla guerra sociale. Nell’89 Ascoli si trovava stretta d’assedio, e dopo un disperato tentativo di forzare l’accerchiamento gli abitanti si arresero ai nemici. Il console Strabone, comandante delle milizie romane, ordinò di battere con le verghe e di decapitare i capi popolo, poi vendette all’asta i loro servi e quanto era riuscito a predare; moltissimi abitanti invece li mandò in esilio nudi, dopo averli spogliati di ogni bene¹⁴.

    Il governo romano, secondo una vetusta prassi consolidata nel tempo, concedeva al generale di trattenere per sé una parte del bottino di guerra e di dividere una seconda parte agli ufficiali e ai soldati, in misura rapportata al grado, ma si aspettava che la rimanenza fosse versata nell’erario. Strabone invece, uomo avido, si appropriò di tutto il ricavato, deludendo le attese del Senato che puntava sul bottino di Ascoli per riempire le anemiche casse dello Stato, dissanguate dalla lunga durata della guerra¹⁵.

    Il deplorevole comportamento arrivò alle orecchie del popolo, e l’anno seguente, nonostante l’impegno profuso da Strabone per farsi rieleggere, i comizi centuriati con una votazione pressoché plebiscitaria affidarono il consolato a Lucio Cornelio Silla, artefice d’importanti vittorie nella guerra in atto, e come collega gli affiancarono il consuocero Quinto Pompeo Rufo¹⁶. Nell’88 il Senato affidò al console uscente Strabone il governatorato della Gallia Cisalpina e l’anno successivo, nella logica dell’alternanza delle cariche e dietro il suggerimento di Silla, deliberò di sostituire Strabone con Quinto Pompeo Rufo. Difatti, anche se Strabone non era stato mai un manifesto sostenitore di Gaio Mario, stava antipatico a Silla per le sue numerose amicizie nella fazione mariana.

    Dal nomen gentilizio Pompeius di Quinto Rufo, si arguisce che ambedue i Pompei appartenevano alla stessa stirpe. Strabone incurante della comune discendenza e indispettito dal fatto di dover cedere il potere militare, ordinò ad alcuni soldati fidati di uccidere Rufo. Mentre il proconsole subentrante teneva un discorso alle truppe, i sicari gli si avvicinarono lentamente, fingendo di volerlo ascoltare con attenzione, e dopo averlo attorniato lo pugnalarono a morte¹⁷. Strabone con una notevole dose d’ipocrisia si dichiarò dispiaciuto per l’assassinio e nello stesso tempo si riprese il comando dell’esercito, sfidando le ire di Silla, l’unico comandante che per potenza bellica era in grado di affrontarlo, ma che in quella circostanza, temendo per la propria vita, non era intervenuto e aveva continuato a dedicarsi ai preparativi della spedizione militare da guidare in Asia contro l’ambizioso re del Ponto Mitridate VI¹⁸.

    Sarebbe toccato ai consoli in carica Gneo Ottavio e Lucio Cornelio Cinna far valere la legge, entrambi però erano assorbiti da tutt’altri impegni. L’ottimate Ottavio, uomo dall’indole mite e imbelle, e quindi non portato all’uso delle armi, passava il tempo in chiacchiere con ciarlatani e indovini. Il democratico Cinna era indaffarato a chiedere soldi e a reclutare uomini presso le città bendisposte verso la sua fazione¹⁹, per abbattere con le armi la classe aristocratica e imporre i principi fondanti del suo partito²⁰.

    Quando Rufo fu ucciso, il giovane Pompeo, sebbene della sua presenza nell’accampamento non si riveli traccia al momento dell’assassinio, militava nella cavalleria dell’esercito paterno. In ogni caso, la scarsa affettività tra il pater familias e i figli, tipica di quell’epoca e acuita dalla durezza specifica della vita militare, inducono a credere che Strabone organizzò la soppressione di Rufo senza consigliarsi con il figlio, qualora Gneo si fosse trovato nel campo.

    Nell’anno 88, dopo tre anni d’ininterrotti combattimenti, il rogo della guerra sociale nella penisola italica si spense per autocombustione, a ragione dello sfinimento di entrambe le parti in causa piuttosto che per volontà di resa; solo nel territorio di Nola rimanevano accesi alcuni focolai. Affinché si giungesse a una deposizione completa delle armi, lo Stato romano emanò tre leggi fondamentali al raggiungimento della pace definitiva: nel 90 varò la lex Iulia de civitate latinis danda (legge Giulia sulla cittadinanza da dare ai Latini), promossa dal console Lucio Giulio Cesare nell’anno della sua morte, e nell’89, su proposta dei tribuni della plebe Marco Plauzio Silvano e Gaio Papirio Carbone Arvina, la integrò con la lex Plautia Papiria de civitate sociis danda (legge Plautia Papiria sulla cittadinanza da dare agli alleati). Infine nello stesso anno fu promulgata la lex Pompeia de Traspadanis (legge Pompeia dei Traspadani), proposta dal console Pompeo Strabone²¹.

    La guerra sociale aveva momentaneamente compattato la cittadinanza romana contro il nemico comune, allontanando momentaneamente lo spettro incombente della guerra civile. A pacificazione avvenuta i dissidi sociali mai risolti e fino allora limitati a scontri di piazza, ripresero e sconfinarono in battaglie, dove eserciti armati di tutto punto si affrontavano in campo aperto. Purtroppo la temuta minaccia si era trasformata in una cruenta realtà.

    Strabone, deluso dalla mancata rielezione a console, all’inizio della guerra civile mantenne una posizione equivoca, parteggiando ora per una parte ora per l’altra, vale a dire per il partito che al momento, più di quello avversario, gli dava speranza per una posizione di potere²². Seguendo un criterio di convenienza – Strabone era un latifondista – si sarebbe dovuto schierare con gli ottimati²³, ma per disaccordi con Silla e per avversione all’aristocrazia cittadina non aveva partecipato alla guerra. Poi, indotto dal disprezzo nei confronti di Mario e di Cinna, e chiamato in soccorso dagli ottimati, era entrato in azione nei pressi di Roma, però tardivamente, quando già quattro eserciti democratici avevano stretto l’Urbe d’assedio e la stavano prendendo per fame²⁴.

    Cinna temeva che l’intervento di milizie nemiche fresche e ben organizzate potesse cambiare le sorti del confronto militare, indirizzato ormai a favore della fazione popolare. Per gettare dunque l’esercito di Strabone nel panico elaborò il piano criminoso di uccidere il giovane Pompeo, ricorrendo al tradimento: un comportamento sleale usato in qualsiasi campo per ottenere frutti altrimenti insperati. Di portare a termine l’assassinio fu incaricato uno degli uomini più vicini a Gneo, il contubernale Lucio Terenzio, che avrebbe dovuto colpire nel sonno la vittima designata.

    Pompeo fu avvisato, per tempo, del complotto e riuscì a sventarlo. La sera in cui era stata stabilita la sua uccisione, dopo la cena si accomiatò dai commensali e finse di andare a dormire. L’attentatore, a notte inoltrata, entrò nella tenda e sferrò alcuni rapidi colpi di spada al letto, ma trafisse le coperte vuote e fu prontamente bloccato. Della concitazione generata dall’arresto approfittarono i soldati per inscenare una violenta ribellione contro Strabone, le cui continue prepotenze li avevano esasperati; strapparono le tende e impugnarono le armi. Il generale, impaurito, andò a chiudersi nel proprio alloggio e chissà quale sarebbe stata la sua fine se il figlio non fosse intervenuto a salvarlo.

    Per impedire alla ribellione di assumere toni drammatici, il giovane Pompeo scoppiò in lacrime e, poiché tutti erano intenzionati ad abbandonare Strabone e a ritornare nelle città di provenienza, li pregò di cessare l’ammutinamento e di rientrare nei ranghi. Siccome quelli volevano disertare a ogni costo e non si facevano dissuadere dalle sue parole, per fermarli inscenò una farsa degna di un consumato attore di teatro. Si distese a terra davanti alla porta dell’accampamento e disse che avrebbero dovuto calpestare il suo corpo per andarsene. La messinscena sortì l’effetto sperato: i soldati provarono vergogna, indietreggiarono e si rappacificarono con Strabone, tranne ottocento che defezionarono²⁶.

    L’atteggiamento teatrale di Pompeo non deve sorprendere più di tanto. In situazioni critiche i generali romani a volte ricorrevano a sceneggiate o a frasi a effetto per farsi seguire dagli indecisi o per convincere gli incerti. Una commedia simile a quella recitata da Pompeo era stata messa in atto da Cinna per indurre i militari stanziati in Campania a reintegrarlo nella carica di console. Accusato dal Senato di attuare una politica contraria agli interessi dello Stato ed esautorato del potere consolare, Cinna si era recato al campo, dove erano di stanza le truppe romane, e in lacrime aveva convinto i littori di scorta a deporre i fasci, dicendo che il voto dei cittadini non serviva a niente se era vanificato dalle decisioni del Senato. Poi, al colmo della scena madre, si stracciò le vesti e si gettò a terra, finché i soldati, impietositi, lo rimisero in piedi, gli restituirono i simboli del comando e, giurandogli fedeltà, dichiararono di essere disposti a seguirlo ovunque²⁷.

    Nell’87 l’assedio posto a Roma dall’esercito della fazione cinno-mariana terminò in quello stesso anno in cui era incominciato. Per evitare altri patimenti alla popolazione affamata e colpita dalla peste, i senatori consegnarono la città agli assedianti, in cambio di una vaga promessa di clemenza poi non mantenuta. Quinto Cecilio Metello Pio, uno dei generali sillani che difendevano la capitale, abbandonata la speranza di essere utile da solo alla causa del partito ottimate, lasciò Roma al suo destino e con l’esercito si trasferì nella montagnosa Liguria e dalla Liguria andò in Africa, in attesa del ritorno di Silla dall’Asia.

    Entrati in città Cinna e Mario instaurarono un regime di terrore; spogliarono dei beni gli aristocratici di prestigio, li deposero dalla carica e li esiliarono o li uccisero. Le condizioni di vita, imposte dai due despoti, divennero avvilenti: la popolazione in preda al terrore soggiaceva a feroci violenze. Ottavio, console di parte ottimate, fu ucciso. Gli schiavi Bardici, che erano stai liberati dai capi del partito popolare in cambio di aiuto contro gli ottimati, commettevano ogni sorta di nefandezza, attaccavano le abitazioni e le saccheggiavano, uccidevano soprattutto gli uomini che erano stati i loro padroni e ne violentavano le mogli e le figlie. Gli stessi liberatori, scossi da tanta ferocia, non essendo riusciti a contenerne le atrocità, li riunirono con l’inganno nel Campo Marzio e ordinarono ai soldati di abbatterli con un nutrito lancio di frecce.

    Nelle razzie compiute a tutto tondo dagli sgherri di Cinna, Pompeo subì lo svaligiamento della casa e, poiché riteneva la propria vita in pericolo, si ritirò in segreto negli aviti possedimenti del Piceno, lontani da Roma e popolati da numerosi clienti e veterani dell’esercito paterno²⁸.

    Prima della caduta di Roma, Strabone, in una sanguinosa battaglia terminata senza né vincitori né vinti, si era scontrato con le milizie democratiche di Sertorio e non molto tempo dopo era morto. Notizie contrastanti pervengono sulla sua fine; Orosio, Plutarco e Appiano, attribuiscono la causa del decesso a un fulmine, Patercolo a un’epidemia di peste. Per quanto il motivo della morte addotto da Patercolo sia minoritario, esso è il più attendibile. Infatti, durante l’assedio della capitale l’esercito di Strabone, aggredito e decurtato di undicimila uomini dall’imperversare della contagiosa malattia, subì quasi l’annientamento²⁹.

    Fin quando Strabone era stato in vita, nessuno aveva osato chiedergli conto del mancato versamento del bottino ascolano nelle casse dello Stato. La sua potenza incuteva timore persino all’aristocrazia cittadina che mal tollerava la sua estrazione rurale e lo considerava un intruso nelle cariche statali, ritenute un’esclusiva ereditarietà dei nobili romani di antico lignaggio. Sebbene l’indebita appropriazione fosse stata di pubblico dominio, gli inquirenti aspettarono che Strabone morisse per fare emergere l’illegale e lucrosa faccenda; solo dopo la sua scomparsa, l’accusa, tenuta tre anni in sospeso per ragioni di viltà, fu mossa in senso trasversale nei confronti del figlio Gneo. Pompeo nell’anno 86 fu trascinato in tribunale con l’imputazione di distrazione di beni pubblici a scopo personale e rischiava di rimanere schiacciato dalla pesante accusa mossagli. Alla gravità del reato contestatogli, si aggiungeva l’onere di dovere essere giudicato da un collegio presieduto da Publio Antistio, un magistrato considerato molto severo: da tribuno della plebe aveva posto il veto alla candidatura a console dell’aristocratico Gaio Giulio Cesare Strabone Vopisco perché, contrariamene alla legge vigente, il concorrente non aveva ricoperto nel cursus honorum la carica di pretore³⁰.

    In tribunale la difesa di Pompeo fu sostenuta dal brillante avvocato Quinto Ortensio Ortalo, secondo in facondia soltanto a Cicerone, da Gneo Papirio Carbone, destinato in futuro a condividere il consolato con Cinna, e dal censore Lucio Marcio Filippo, un personaggio di alto profilo istituzionale, che era stato console nell’anno 91³¹.

    Ad ascoltare Sallustio, nell’epoca in cui si svolse il processo, tutto era merce di un traffico illecito: il popolo vendeva le magistrature, i generali compravano gli eserciti e i magistrati vendevano la giustizia³². In quell’occasione la sentenza non fu venduta per denaro, ma barattata con un matrimonio. Nelle udienze propedeutiche al processo, Pompeo con notevole capacità oratoria rigettò punto su punto tutte le accuse. Riuscì a provare che i ricavi del bottino di Ascoli erano finiti nelle tasche del liberto Alessandro e dimostrò di essere entrato in possesso soltanto di reti da caccia e di libri lasciati in eredità dal padre, poi rubati dagli sgherri di Cinna quando forzarono la serratura della porta e gli ripulirono la casa. Il giudice durante il dibattimento rimase favorevolmente impressionato dalla prontezza di spirito e dalla maturità dimostrate dal giovane imputato, qualità difficilmente riscontrabili in una persona di quell’età, tanto che ne parlò favorevolmente gli amici e, giacché viveva sotto il suo tetto Antistia, una figlia nubile in età da marito, propose a Pompeo il proscioglimento in cambio del matrimonio con la ragazza³³. Pompeo accettò e sebbene i termini dell’accordo fossero stati partecipati da Antistio soltanto a persone intime, la notizia divenne presto di dominio pubblico e l’assoluzione fu salutata dal popolo con l’acclamazione tradizionale rivolta ai giovani sposi: "Per Talassio"³⁴.

    In una situazione di lotta finalizzata al predominio sulla città, nel corso repubblicano i matrimoni nell’alta società romana fungevano da suggello alle alleanze. Le famiglie, prevaricando ogni sentimento d’amore, fidanzavano i figli fin dalla tenerissima età per accrescere tramite intrecci coniugali il proprio peso politico in seno alla collettività. Pompeo allora aveva poco più di diciannove anni e il suo matrimonio fuori dai canoni tradizionali costituiva un’eccezione a quella che poteva essere considerata una regola, infatti, il padre, forse perché non aveva trovato una contropartita politica favorevole, non lo aveva mai promesso in sposo. Il giovane Gneo, anche se con il matrimonio non si legò ad alcun partito, conseguì il vantaggio di entrare nella cerchia dei potenti amici di Antistio, tuttavia dopo la cerimonia nuziale, a ragion veduta, si rese irreperibile³⁵.

    La situazione politica per chi aveva combattuto in difesa degli ottimati romani appariva sfavorevole. Anche se il carismatico capo della fazione popolare Gaio Mario era morto a gennaio, cioè appena dopo una dozzina di giorni dall’inizio del suo settimo consolato, nella carica era stato sostituito dal compagno di partito Lucio Valerio Flacco col grado di consul suffectus³⁶, e Cinna, console in carica per la seconda volta consecutiva, teneva saldamente in pugno le briglie dello Stato.

    Oltre che per le circostanze sfavorevoli, Pompeo si estraniò a buon diritto dagli ambienti quotidiani, per assaporare nella tranquillità la letizia del talamo coniugale. Del resto non è un mistero che dopo ogni matrimonio (si sposò cinque volte) si dedicava completamente alla moglie e tralasciava ogni genere di affare. Il disinteresse, anche verso faccende di una certa importanza, gli attirava la riprovazione degli avversari e qualche critica da parte degli amici che, nonostante ciò, lo stimavano moltissimo per l’affabilità di carattere e per la lealtà e la disponibilità che egli dimostrava ogniqualvolta gli si chiedeva un favore³⁷. Queste qualità positive acquisite nel tempo, unite al pregio innato di saper elargire regali senza superbia e di ricevere qualunque cosa con rispettabilità, facevano di lui un uomo apprezzabile, sul quale contare in caso di bisogno. A esse Plutarco aggiunge la connaturata gradevolezza emanata dal corpo, raffrontato dai cittadini romani, più per una somiglianza fisica immaginaria anziché reale, con quello di Alessandro Magno, l’epico generale macedone al quale Pompeo non rifiutò mai di essere paragonato³⁸.

    Di quanto la piacevolezza di Pompeo trovasse apprezzamento, in particolar modo presso il gentil sesso, e di quali pene le donne amate soffrissero quando erano abbandonate, è descritto dallo stesso Plutarco in un breve racconto, riguardante un episodio avvenuto fuori dall'ambito matrimoniale, che documenta come Pompeo sapesse ben destreggiarsi, oltre che sul campo di battaglia, anche in complicate situazioni amorose.

    Il rimpianto di amori trascorsi è un’emozione che difficilmente trova posto nell’animo di donne di liberi costumi, avvezze a passare per pura convenienza da un letto a un altro con la massima disinvoltura. Eppure la bellissima cortigiana Flora si portò dietro fino alla vecchiaia un buon ricordo dell’amante Pompeo e si rammaricò quando fu ceduta per amicizia a Gemino che si era invaghito della sua bellezza. Dal giorno in cui Flora diventò la favorita di Gemino, Pompeo non ebbe con lei più alcun tipo di rapporto, nonostante fosse ancora innamorato, mentre Flora seguitò a dolersi per il distacco³⁹.

    Pompeo stette lontano dalla vita pubblica per circa due anni e si riaffacciò sullo scenario militare nell’anno 84, eponimo dei consoli Cinna e Carbone, entrambi riconfermati dal popolo nella carica occupata nell’anno precedente. La diminuzione della passione coniugale, provocata dal trascorrere del tempo, lo aveva reso meno vincolato alla moglie e l’ambizione di primeggiare lo indusse a ricomparire in pubblico, per quanto una lettera dai toni intimidatori, giunta in Senato, lasciasse presagire all’Italia intera un futuro a fosche tinte.

    Silla, dall’Asia comunicava il desiderio di vendicarsi dei danni arrecati dal partito popolare alla sua fazione ed elencava i propri meriti acquisiti, esagerandoli, da quando aveva incominciato a prestare servizio a favore dello Stato. Si dichiarava contrariato perché, mentre procurava a Roma ricchezze e grandezza, era dichiarato nemico della patria, la sua casa rasa al suolo, i suoi amici uccisi e la moglie e i figli costretti a rifugiarsi da lui. Terminava la lettera scrivendo che presto sarebbe ritornato in patria con il suo fedele esercito per mettere ordine e vendicare le offese ricevute⁴⁰.

    Attendere l’arrivo di Silla in Italia, per Cinna e Carbone significava subire la strategia che il campione ottimate aveva in mente di mettere in campo al ritorno dall’Asia. Di conseguenza i due consoli presero in considerazione il passaggio in Dalmazia per anticipare i tempi d’ingaggio. L’idea era valida sotto tutti gli aspetti. I due magistrati, oltre a prevenire le mosse di Silla, nell’attesa avevano modo di studiare i luoghi dell’eventuale teatro di battaglia e scegliere le posizioni più vantaggiose dove dislocare le truppe; nello stesso tempo potevano addestrare al meglio le numerosissime reclute, in considerazione che l’esercito da affrontare era formato da veterani, resi temibili dall’esperienza pluriennale accumulata in anni di guerra contro le armate mitridatiche.

    Intenzionati a ottenere una schiacciante vittoria, Cinna e Carbone, al fine di essere provvisti di tutto il necessario al momento del bisogno, non trascurarono nulla. Armarono di tutto punto e concentrarono un potente esercito ad Ancona, e quando i preparativi furono portati a termine equipaggiarono un’adeguata flotta per trasportare i soldati sulla sponda opposta dell’Adriatico. Una parte del naviglio trasportò nella penisola balcanica un primo contingente senza patire incidenti. Una seconda flotta, che traslocava un’altra parte dell’esercito, incappò in una terribile tempesta che sconvolse i soldati imbarcati, infatti, quando le navi approdarono in Dalmazia tutti disertarono. I legionari rimasti sulla sponda italica, in attesa di essere anch’essi traghettati, non appena seppero della defezione dei commilitoni, si rifiutarono di salire a bordo delle navi e inscenarono una violenta protesta. Nel tumulto fu ucciso Cinna⁴¹.

    A detta di Plutarco, Pompeo in quei giorni si trovava nelle Marche, perché era andato a parlare con Cinna; durante la conversazione, a causa di un’offesa ricevuta, si era impaurito e aveva lasciato il campo di nascosto, rendendosi irreperibile. Il biografo di Cheronea non specifica i motivi del colloquio, tantomeno si sofferma sul contenuto dell’insulto, e sostiene che la lunga assenza di Pompeo gettò tra i soldati il sospetto di un’eliminazione predisposta dal console. Fu quel dubbio a scatenare la ribellione in cui Cinna rimase ucciso da quegli stessi uomini da lui convinti, con una brillante oratoria e con una sceneggiata degna di un navigato attore di teatro, ad abbracciare la sua causa⁴².

    Non si conosce il motivo che spinse Pompeo a recarsi da Cinna. Fra un ventaglio di supposizioni valide è ammissibile che Pompeo, in dubbio con quale fazione politica schierarsi, volesse contrattare l’offerta di un aiuto militare, in termini di uomini da reclutare tra la vasta clientela del Piceno, e che in cambio avesse ricevuto l’insulto di opportunista, per il fatto di aver combattuto insieme al padre, nell’assedio di Roma, a favore della parte ottimate. Al di là di ogni possibile congettura sull’argomento della conversazione avvenuta tra il console e Pompeo e su quanto da essa scaturì, è credibile che a provocare nell’accampamento romano lo scoppio della rivolta e l’uccisione di Cinna fosse stata l’insofferenza di uomini stanchi di essere sottoposti a una severa e insopportabile disciplina. La riluttanza di andare a combattere senza prospettiva di bottino e contro un esercito di concittadini ben addestrati, aggiunta all’intolleranza nei confronti di Cinna e alla paura di attraversare l’Adriatico in pieno inverno, probabilmente rese colma la misura del malcontento in dei soldati demotivati e in attesa soltanto di un pretesto qualsiasi per liberarsi del loro odiato comandante. La prolungata assenza di Pompeo potrebbe essere stata dunque una concausa dell’assassinio e non il motivo scatenante.

    Nell’83 Silla, tramite l’accordo raggiunto a Dardano con Mitridate, si rendeva libero dagl’impegni militari in Asia e tornava in Italia. In meno di cinque anni di guerra aveva ucciso decine e decine di migliaia di nemici e riconquistato a Roma la Grecia, la Macedonia, i paesi della costa ionica, l’Asia e altri territori sottratti dal re pontico ai Romani, e aveva lasciato allo stesso sovrano soltanto il regno ereditato dal padre. In primavera aveva imbarcato a Durazzo truppe e macchine da guerra su oltre mille navi, e senza incontrare opposizione era approdato a Brindisi tra una popolazione in tripudio. Qualche giorno dopo lo sbarco, con un esercito stimabile attorno alle quarantamila unità, si era messo in marcia verso il nord per andare ad affrontare quindici generali del partito avversario che potevano contare su un numero di armati almeno cinque volte maggiore⁴³.

    Come un fiume che scorrendo verso il mare s’ingrossa per il ricevimento di numerosi affluenti, l’esercito sillano durante il tragitto aumentava via via di numero, accresciuto dall’accorrere dei proscritti del regime cinno-mariano. A esso si univano generali simpatizzanti del partito ottimate che mettevano a disposizione i loro eserciti per raggiungere l’obiettivo comune di rovesciare il governo imposto dal partito democratico con la forza delle armi. Dall’Africa era ritornato Quinto Cecilio Metello Pio, lontano da Roma fin da quando la città era caduta in mano all’esercito popolare; dalla Spagna rientrava in patria Marco Licinio Crasso, un altro nobile costretto dal regime mariano alla latitanza. A loro si associava con i suoi soldati, Marco Terenzio Varrone Lucullo, fratello di Lucio Licinio Lucullo, l’ufficiale prediletto da Silla. Uomini di elevato censo scampati alle persecuzioni mariane confluivano anch’essi sotto le insegne di Silla per ribaltare il governo di Roma, sperando di essere contraccambiati da un nuovo regime politico con agevolazioni nella carriera.

    Dall’assassinio di Cinna in poi, Pompeo aveva ritenuto opportuno mantenere un basso profilo, rimanendo nell’ombra. Sebbene il capo del partito popolare fosse stato ucciso, i rapporti non certo idilliaci con gli altri autorevoli membri dello stesso schieramento lo consigliavano di tenersi alla larga dal palcoscenico militare. La lunga assenza non obbliga, però, a pensare che egli se ne fosse stato inattivo per circa un anno, tutt’altro; è possibile che dopo il diverbio con Cinna avesse girato il Piceno in lungo e in largo per visitare la numerosa clientela e tenere in allerta gli uomini validi, in previsione di un prossimo reclutamento coincidente con il ritorno di Silla in Italia. Non si spiega altrimenti come in breve tempo riuscirà in un vicino futuro a reclutare e a sottoporre al suo comando ben tre legioni, senza avere ricevuto alcun mandato dalle istituzioni⁴⁴.

    A detta di Plutarco fu la partecipazione entusiastica di tanti nobili al rivoluzionamento politico, che sollecitò Pompeo a uscire dall’anonimato in cui si era rifugiato e a farlo scendere in campo a fianco di Silla⁴⁵. Sicuramente la notizia che persone celebri confluivano nell’esercito sillano lo convinse a imbarcarsi nella rischiosa avventura, ma i preparativi per l’inizio di un’azione militare fervevano già da parecchio tempo. Dal padre il giovane Gneo aveva appreso che la carriera militare, era un mezzo indispensabile per procurarsi la gloria, dalla quale derivano bottino e potere; se voleva quindi soddisfare l’ambizione di recitare un ruolo di primo piano nella vita pubblica romana, doveva obbligatoriamente salire sul carro del partito che in quel momento si trovava in corsa per il raggiungimento del potere e aggrapparsi al conducente. Dopo il diverbio con Cinna e la conseguente rottura col partito popolare, il carro che in quel momento appariva vincente era quello condotto da Silla. Spronato dagli insegnamenti ricevuti dal padre, Pompeo stabilì di andare incontro a Silla e ritenne opportuno non presentarsi da solo e a mani vuote, dando così l’impressione di chiedergli qualcosa, ma volle portare con sé una prova tangibile d’aiuto. E quale offerta sarebbe stata più gradita da Silla, se non quella di uomini disposti a combattere per lui una guerra necessariamente da vincere per non porre una pietra tombale sulla

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